Un uomo bendato viene malmenato e fucilato. È un traditore che ha lasciato l’esercito regolare per unirsi ai ribelli, come di lì a poco farà Don José. Inizia con un flash-back la Carmen firmata da Hugo de Ana. Siamo nel 1930, in piena guerra civile spagnola, nel bel mezzo delle schermaglie tra i repubblicani e i franchisti prossimi a prendere il potere.
Le camionette entrano ed escono tra le barricate, sventolano le bandiere di lotta e sugli spalti appaiono presagi di figure vestite a lutto. Le controscene abbondano. Un reporter dell’epoca scatta foto e i bambini giocano con dei copertoni dismessi, tra cumuli di rottami. Al centro della guerriglia urbana vengono erette le rosse paratie della Plaza de Toros, la cui struttura è proiettata sui gradoni dell’anfiteatro veronese (projection design di Sergio Metalli), ci sono i classici manifesti delle corride, i toreri si pavoneggiano nei costumi ricamati e le fanciulle di Siviglia ballano al ritmo delle nacchere. Elementi tradizionali che, pur messi a fuoco, risultano secondari rispetto al perno attorno al quale ruota l’interessante lavoro del regista scenografo e costumista argentino, il quale pospone in avanti di un secolo il libretto che Henri Meilhac e Ludovic Halévy mutuarono dalla novella di Prosper Mérimée. Questo allestimento definito “seppiato” dell’opera di Georges Bizet, debuttato con successo lo scorso anno, è stato ripreso nel festival lirico attualmente in corso all’Arena di Verona.
La sensuale e provocante sigaraia di origini gitane è per antonomasia una donna di passioni ardenti. De Ana ne amplia i contorni e li trasferisce in un ambito dove gli ideali contano quanto, se non più, dell’amore. Sentimento che, vissuto senza remore, è anch’esso strumento di conquista della libertà. Quindi, la Carmen di de Ana non è la tradizionale donna/fuoco ma, così la definisce egli stesso, una donna/terra: orgogliosa, poco impulsiva e molto determinata, che arringa la folla dal tetto di un furgone e si rapporta all’uomo su un livello paritario. Con uno sguardo allusivo porta alla perdizione l’innamorato di turno, attratto dal desiderio di domare l’indomabile ma che al contempo è intimorito dall’indipendenza e autonomia di colei che lo conquista, lo sottomette e poi, stanca, lo getta via, nel caso di Escamillo con gesto plateale.
Il regista gioca sulla convivenza dei contrasti: da una parte, predominante, il grigio non-colore della guerra, l’immaginaria polvere sollevata da chi lotta per i propri ideali e per un futuro diverso. Dall’altro canto, contrappone il mondo divenuto quasi anacronistico dei toreri sgargianti osannati dalla folla, dei cavalli scalpitanti, dei balli folkloristici con l’immancabile sparo di lustrini che appaga la necessaria spettacolarità. Da un lato sventolano le bandiere rivoluzionarie, dall’altro svolazzano le mantillas. Un’antitesi che de Ana, al culmine della drammaticità, azzera facendo coincidere i due microcosmi nel femminicidio conclusivo, quando Carmen – e con lei le sue aspirazioni – trova la morte all’interno del recinto della plaza, trafitta contro le paratie come un animale infuriato.
È facilmente immaginabile quanto sia disturbante per chi si trova sul podio (e per chi ascolta) l’apprezzamento del pubblico che batte le mani sulla musica, soprattutto se macroscopicamente fuori tempo. Ha abilmente mantenuto la situazione in pugno Daniel Oren, direttore musicale del festival e direttore dell’Orchestra areniana che ha condotto innestandovi la sua prorompente personalità, in questo caso attenta alle sfumature tenui sfociate in decisi chiaroscuri dinamici. Del resto il suo legame con quello che è considerato il teatro d’opera all’aperto più grande del mondo è solido come una roccia: vi ha debuttato nel 1984 e ha continuato a dirigere per trentacinque anni in quattordici titoli operistici più altri concerti. Il 29 agosto 2019 sarà una data storica per il Maestro israeliano, perché il “contachilometri” segnerà la recita numero 500 in Arena.
Carmen era Ksenia Dudnikova, voce calda e pastosa padroneggiata in tutta la gamma. Il mezzosoprano uzbeko-russo ha delineato una figura energica, di temperamento, innestando efficacemente la sfacciata seduttività della cigarière sulla concezione registica di donna libera e intraprendente. Nel rapporto di coppia lei ha dominato, e il suo uomo si è lasciato docilmente dominare, sopraffatto dall’infatuazione. Vestiva i panni di Don José il tenore tedesco-brasiliano Martin Muehle: dalla linea di canto improntata alla signorilità, ha controllato con cura i mezzi naturalmente belli e gli acuti distesi non necessitanti di forzatura alcuna.
Perfetto contraltare al personaggio del titolo, il duttile soprano spagnolo Ruth Iniesta, dallo stile sopraffino plasmato sulla soavità di Micaela, ruolo pienamente centrato, con bei legati e messe in voce tecnicamente ineccepibili. Alberto Gazale (che ha preso il posto di Erwin Schrott) è stato Escamillo, di adeguata vocalità rotonda e passionale, e di ottima presenza scenica, spavaldo toreador e fervente innamorato.
Precisi e affiatati, nel quintetto assieme a Carmen, la Mercédès di Clarissa Leonardi, la Frasquita di Karen Gardeazabal, il Dancairo di Nicolò Ceriani, il Remendado di Roberto Covatta. Inoltre Zuniga era Gianluca Breda e Moralès Italo Proferisce. Prodigo di accenti mantenuti entro lodevoli contorni di delicatezza, il Coro preparato da Vito Lombardi. Hanno brillato per puntualità, in pagine notoriamente assai difficoltose, le giovanissime voci bianche A.Li.Ve. dirette da Paolo Facincani. Il Ballo coordinato da Gaetano Petrosino si è esibito nelle sevigliane coreografate da Leda Lojodice.
Repliche, con diversi cast, fino al 4 settembre.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di
Verona il 10 luglio 2019
©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona