Convince il cast, giovane, fresco e duttile, ben sostenuto dal podio. Godibile e intelligente l’allestimento a disegni animati, andato in scena al Filarmonico di Verona
Ne “Il Barbiere di Siviglia” versione cartoon di due anni or sono, fu un segno beneaugurante aver omesso, nella parte filmata, i titoli di coda, lasciando margine per un sequel. Così la magia si è in parte ripetuta per “Il viaggio a Reims”, titolo conclusivo della Stagione invernale al Teatro Filarmonico di Verona, che ha nuovamente immerso in uno stripes-universo rossiniano. L’accoppiata tra il regista Pier Francesco Maestrini e le animazioni di Joshua Held è risultata sempre vincente, intelligente declinazione dell’arguzia del compositore pesarese, per quanto dagli esiti di minor impatto visivo e concettuale rispetto al passato, con il fiume in piena della creatività riversatosi in un’ansa più tranquilla del proprio corso. Infatti, se Barbiere era sovrabbondante d’immagini, questo Viaggio ha peccato nella direzione opposta, sovente ristagnando tra fondali fissi e ripetitivi. La garbata giocosità di Gioachino Rossini si è cinta di allusioni audaci nel gaudente albergo del Giglio d’Oro, dove i personaggi in carne e ossa, dall’indispensabile precisione attorale, hanno interagito con lo storyboard disegnato a matita, assorbendo da esso le buffe delineazioni caratteriali: cartoon come persone e persone come cartoon, in abbigliamento fumettistico (di Alfredo Troisi, come gli elementi scenici). A fare da spiritoso fil rouge cinematografico, la carrozza dei viaggiatori precipitata in un burrone, tra spargimento di abiti e cappellini, volo di cavalli stupefatti e roteare del pingue cocchiere, protrattisi per l’intera durata dell’opera. Non sono mancati i riferimenti d’attualità. Gli spunti del librettista Luigi Balocchi sull’Europa dell’epoca di Carlo X Re di Francia sono stati tradotti in folklori nazionalistici e sono culminati nell’aver stretto al collo l’odierna Inghilterra con un lazo anti-Brexit.
Sul podio dell’Orchestra dell’Arena di Verona, Francesco Ommassini ha bilanciato senza dismisure, con pacata quanto efficace sensibilità, il brio della partitura attingendo ai colori aggraziati di una tavolozza dai tempi compassati, mai dimentichi del sostegno alle voci sul palco. Il cast era formato da giovani egregiamente destreggiatisi in pagine che risultano insidiose, per l’eleganza tecnica ed espressiva richiesta dalla tessitura rossiniana. Una “gara” in bravura, nella componente femminile. Magnifico timbro, morbido e venato di sfumature coloristiche, sia per Lucrezia Drei, Corinna, che per Raffaella Lupinacci, Marchesa Melibea, sicure nei rispettivi ruoli come anche Marina Monzó, Contessa di Folleville, e Francesca Sassu, Madame Cortese, dalle linee di canto fini e tornite. Da segnalare Alice Marini nelle duplici vesti di Maddalena e Modestina, e la Delia di Francesca Micarelli.
Espressivo il fraseggio del tenore Xabier Anduaga, Cavaliere di Belfiore dallo squillo chiaro e saldo. Parimenti notevole la freschezza d’acuto del tenore Pietro Adaini, la cui scioltezza nelle agilità ha coronato il Conte di Libenskof, Marko Mimica ha tratteggiato con accenti ironici Lord Sidney. Rimarchevole la caratura di Alessandro Abis, ancorché non sempre perfettamente tarata su Don Profondo. Ben centrati Alessio Verna, impetuoso Don Alvaro, e il Barone Trombonok dalla solidità vocale di Giovanni Romeo. Lodevolmente convogliata in Don Prudenzio, la scioltezza d’emissione di Omar Kamata. Appropriata la resa di Stefano Pisani, Don Luigino/Zefirino e di Stefano Marchisio, Antonio. Diretto da Vito Lombardi, Il Coro si è dimostrato scenicamente e vocalmente all’altezza, pur costretto entro enormi teste di cartapesta con finestrelle velate. Alla seconda replica, teatro affollato e pubblico divertito e prodigo di applausi, equamente distribuiti.
Foto Ennevi per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
Recensione Maria Luisa Abate