Cosa si può ancora dire di uno spettacolo divenuto da subito sinonimo di genialità? A Busseto nell’ambito del Festival Verdi è andata in scena Aida. Anzi l’ «Aidina piccola piccola», come la chiamava Franco Zeffirelli che la propose in occasione del centenario verdiano, dopo le sue molte leggendarie Aide kolossal a partire da quella del ‘63 a La Scala. Lì per lì lo presero simpaticamente per demente; tuttavia, per lungimiranza degli amministratori, gli dettero carta bianca.
L’Aida bonsai, concentrato di un’arte immensa, debuttò all’inizio del nuovo millennio, il 27 gennaio 2001, in quella che è definita una bomboniera. Senonché i teatri/bomboniera hanno ben altre dimensioni. Lo splendido gioiello del Teatro “Verdi” incastonato nel cuore della cittadina emiliana e che sarebbe magniloquenza definire minuscolo, conta duecentocinquanta posti tra platea e palchi, e sette metri di boccascena.
È stato proposto l’allestimento originale della Fondazione Toscanini, ripreso dal bravo Stefano Trespidi (per molti anni suo regista collaboratore). Programmato in questa stagione quando il Maestro era ancora in vita, ha recato la dedica: “in ricordo di Franco Zeffirelli con gratitudine”, sentimento che l’intero mondo del melodramma gli deve.
Zeffirelli, nella duplice veste di regista e scenografo, ha sì ricondotto la storia narrata dal librettista Antonio Ghislanzoni alla dimensione interiore del sentimento, tramite l’estrema cura del gesto e dell’espressività dei volti, anche in considerazione della distanza prossima allo zero con gli spettatori, come si trattasse di un perenne primo piano cinematografico; ma senza nulla togliere a quanto di grandioso e imponente si è abituati a vedere.
Solo il Trionfo non si è svolto nei modi consueti. Qui, l’estro creativo ha compiuto uno zoom intimistico, lasciando intuire la sfilata da dietro la folla festante, attraverso gli occhi di Aida. Al posto di una parata militare, il trionfo dell’amore. Per il resto, l’Aidina è una Aidona a tutti gli effetti: statue e idoli dallo sguardo enigmatico; lo sfavillio della sala del trono e la solenne penombra del tempio dove inneggiare al dio Fhtà; le stanze con delicate vezzosità femminili e le rive del Nilo sotto al cielo blu lunare; la tetra tomba scomposta su due piani; i guerrieri recanti le insegne e, benché fossero tagliati i balli del Trionfo, le sacerdotesse impegnate in danze rituali attorniate dal coro. Sorge spontanea l’operazione matematica: interpreti principali, più comprimari, più coro, più ballerine, più ballerina solista, più comparse = sette metri di proscenio, dimezzati in larghezza dalle due grandi statue poste ai lati, e in profondità dalla presenza di una scalinata. Un risultato statico? Al contrario, ultra movimentato.
Non secondari allo splendore dell’insieme, i costumi della grande Anna Anni ripresi da Lorena Marin, le luci affascinanti di Fiammetta Baldiserri, le coreografie petit nondimeno appropriate di Luc Bouy .Va sottolineato che i molti cambi-scena non sono stati sbrigativamente risolti con proiezioni – escamotage oggigiorno assai diffuso che, trincerandosi dietro la modernità, spesso nasconde carenze tecniche – bensì utilizzando sapientemente gli strumenti della tradizione, come i fondali dipinti con effetti prospettici in grado di lasciar intuire grandi spazi. Molto più di una lectio magistralis sulla tecnica teatrale e sul “senso del teatro” posseduto dal Maestro: un “piccolo piccolo” miracolo laico da vedere assolutamente se ancora non lo si è fatto, e, se già lo si conosce, da rivedere ancora per capire (o tentare di capire) fin dove possa spingersi il genio. Un capolavor-ino che, per la sua unicità, andrebbe salvaguardato in maniera speciale, magari, è sentimento comune, con una forma di tutela della Sovrintendenza.
Maestro concertatore e direttore dal gesto estremamente attento, Michelangelo Mazza ha proposto una lettura carica di suggestioni, di colori dosati più che elegantemente, con attenzione alle mille sfaccettature espressive con cui Giuseppe Verdi racconta il dramma psicologico, puntualmente seguiti dall’Orchestra proveniente dal Teatro Comunale di Bologna così come il Coro, istruito da Alberto Malazzi.
Si sono alternati due cast (con tre interpreti del personaggio principale) formati dai giovani talenti provenienti dal 57° Concorso internazionale Voci Verdiane Città di Busseto e dall’Accademia Verdiana del Teatro Regio di Parma. Il punto di forza della vocalità vibrata di Burçin Savigne, Aida, sono state le stupende mezze voci cariche di pathos, le smorzature e i filatini impalpabili che, pure uditi dalla distanza ravvicinata non hanno presentato sbavature e sarebbero stati in grado di correre in spazi ampi. Una Aida dolce, rassegnata alla condizione di schiava ma forte nel sentimento d’amore. Denys Pivnitskyi ha dispiegato il canto con giustificata esuberanza non priva delle giuste smorzature: lo squillo ha svettato spavaldo e ben proiettato e Radames va proprio interpretato come uno spirito battagliero ed eroico.
Maria Ermolaeva, dai registri caldi e bruniti, ha svolto un bel percorso nel tratteggiare, con efficacia, le molte sfaccettature emotive di Amneris; inizialmente volitiva e imperiosa figlia del re, ha lasciato poco a poco trasparire la sensibilità di donna, fino a un ultimo atto veramente toccante. Krassen Karagiozov che con bel timbro e bel carattere ha delineato Amonasro esattamente come deve essere, ossia un re etiope fatto prigioniero ma non vinto, indomito fiero e combattivo, con tocco originale anche con la propria figlia. Il Re egizio era impersonato da Renzo Ran i cui mezzi vocali lo rendono papabile per ruoli maggiormente impegnativi. Bene Ramfis, Andrea Pellegrini, la Sacerdotessa Luana Grieco, il Messaggero Manuel Rodríguez.
Recensione Maria Luisa Abate for DeArtes
Visto al Teatro “Verdi” di Busseto – Festival Verdi del Teatro Regio di Parma – il 13 ottobre 2019
Contributi fotografici: Roberto Ricci