Il protagonista di quest’altra incursione nelle mie memorie di jazzofilo adolescente è oltre a me, JazzFranco annata 1959 o 1960, un mio amico di qualche anno più giovane, tal Emilio Soana da Rivarolo Mantovano, classe 1943. E poi l’eterno Miles Davis appunto; un grande compositore e arrangiatore che a lungo collaborò con lui e cioè Gil Evans e un dedicatario forse non ancora identificato con sicurezza, “Pablo” appunto, secondo alcuni un giovane combattente della guerra civile spagnola, o un lavoratore messicano (ma a me ogni volta che lo ascolto, mi pare che questa delicata mistura di jazz e colori spagnoli potrebbe benissimo riferirsi a un altro Pablo, il pittore di Guernica.).
Ma sul brano torneremo. Adesso devo giustificare l’associazione con Emilio Soana: un ragazzino all’epoca del nostro incontro (poi diventerà un solista molto affermato a livello nazionale ed anche europeo). Il suo talento venne scoperto dall’illustre conterraneo Gorni Kramer, o meglio Francesco Kramer Gorni (1913-1995): fu lui ad avviare alla carriera musicale il giovane Emilio. Non chiedetemi attraverso quali canali misteriosi il nostro gruppo di giovani e sprovveduti dilettanti fosse entrato in contatto con Emilio, fatto sta che un certo pomeriggio, proprio Emilio arrivò in città, per suonare con noi. In attesa di provare a fare qualcosa insieme, venne parcheggiato per un po’ a casa mia, fino all’ora fissata per la jam session.
Conservo il ricordo di un ragazzino timido ed educato, curioso e attento. Sia pure più giovane di noi, ci sovrastava tutti d’un bel tratto quanto a competenze ed esperienza musicale, ma non lo faceva pesare per niente, si comportava come uno del gruppo, con tranquilla modestia, appartato e misuratissimo. Suonò al campanello d’ingresso del condominio in cui allora vivevo con i miei genitori ed io lo accolsi sul pianerottolo, al primo piano. Lo vidi salire le scale, portando in mano la custodia della sua magica tromba, un bel sorriso aperto stampato su quella faccia da adolescente. Presentazioni, la rievocazione di qualche conoscenza comune e poi subito nella stanza dov’era collocato il giradischi e lo scaffale che conteneva i miei dischi, rigorosamente vinili a 33 giri. A me venne naturale inaugurare quella piccola seduta di ascolto con un disco di Miles Davis: il mio nuovo amico suonava la tromba e cosa avrebbe potuto desiderare di meglio che un saggio scelto tra la discografia di quello che per me (e non solo) era il più grande di tutti i trombettisti in attività. Ed Emilio, come no?, fu d’accordo, ascoltò con educata attenzione e diede pacati segnali di apprezzamento e condivisione del mio entusiasmo, battendo il tempo con il piede e ammiccando ai passaggi più significativi. Poi volli proporgli ancora un Davis, di altro periodo e diversa temperie stilistica. Appena dopo mi pentii della scelta e rimpiansi di non avere optato per un altro Davis ancora, da poco arrivato nella mia collezione: mi riferisco appunto al disco che contiene il “Blues for Pablo”. Quello, mi dissi, sarebbe stata la scelta perfetta per il mio ospite occasionale, con quello sfondo orchestrale così ricco e sfumato: un musicista professionista o quasi avrebbe di sicuro apprezzato la tecnica, la qualità musicale, la ricchezza dell’arrangiamento, la perfezione dell’esecuzione. Pensai allora di fargli un piccolo scherzo, di sottoporlo a quello che si suole definire un “blinfold test”: ti faccio sentire il brano, non ti dico chi sta suonando e vediamo se indovini.
“Blues for Pablo” inizia con una specie di morbido tappeto sonoro su cui si appoggia poi il suono della tromba di Davis per l’esposizione del tema. Emilio a quel punto scoprì l’inganno che gli avevo preparato, quella tromba era inconfondibile. E fu allora che sbottò in quell’espressione di stizzita stupefazione: “Miles Davis amo’ ?!”, come a dire: “Ancora Miles Davis, tre dischi tutti di Davis, ma non hai altro in discoteca?”.
In realtà, non ho ancora deciso – dentro di me – se questo sia un disco di Davis o non piuttosto un disco di Evans, se la cifra dominante sia il lirismo della tromba solista o la magnificenza, a un tempo lussuosa e smorzata, dello sfondo orchestrale predisposto da Gil Evans. Ma non è una questione così appassionante: è un gran disco (per me) di una straordinaria forza evocatrice. Tutto mi piaceva in quel vecchio vinile il cui titolo era “Miles Ahead/Miles Davis + 19”: doppia allusione alla dimensione dell’organico orchestrale e al fatto che qui c’era un orientamento “in avanti”, confermato anche dalla bella immagine di copertina di una giovane donna molto raffinata che conduce una barca a vela su un mare tranquillo e guarda appunto “avanti”, ma senza ansia né fretta.
L’incisione è del 23 maggio 1957 a nome di “Miles Davis With Orchestra under the Direction of Gil Evans” e a completare l’organico (i sopracitati 19 musicisti) concorrevano cinque trombe, tre tromboni, un trombone basso, tre corni francesi, una tuba, un sax alto, due legni, un clarinetto basso, contrabbasso e batteria. Già la strumentazione suggerisce un percorso di sperimentazione e raffinatezza, con strumenti inusuali nel jazz e quest’ impressione è confermata dall’ascolto: il passaggio da un brano al successivo è assicurato da modulazioni orchestrali sommesse e armoniose, come se sii trattasse di un’unica composizione piuttosto che di una sequenza di brani distinti. È un jazz (e un Miles) diversissimo da quello del contemporaneo quintetto con Coltrane, in cui l’improvvisazione e la libertà armonica dominano incontrastate: qui la chiave sta nella compostezza aristocratica e solenne degli arrangiamenti e nel modo geniale a cui si sovrappone ad essi la voce solistica lirica e sognante del grande trombettista. Come scrive Max Harrison, “in Blues For Pablo, strumenti a registro grave e registro acuto si integrano meravigliosamente e in alcuni passaggi il contrabbasso è raddoppiato dal trombone basso, mentre l’esecuzione alterna con disinvoltura la pulsazione lenta e il tempo tagliato. L’intero contesto musicale ispira Miles a suonare con grande intensità”. Secondo Alun Morgan il LP da cui è tratto il nostro brano “è uno dei dischi più significativi del dopoguerra”. È un LP di durata breve, meno di 40 minuti, per il quale Evans non compose alcun brano, limitandosi a predisporre con le sue partiture quello che un altro critico ha definito “il meraviglioso fiume che trasporta la fragile barca di Davis verso il mare”.
Erano queste le considerazioni che mi indussero a proporre ad Emilio l’ascolto di quel brano: una grande trombettista e un grande arrangiatore insieme, una quantità di valori estetici e storici, una alta qualità di composizione. Allora perché quella reazione, non stizzita, ma comunque troppo brusca? Lo compresi nel corso della serata.
Emilio era più sensibile alla tecnica strumentale che alle finezza e alle mezze tinte di Evans, ammirava i trombettisti funambolici e scoppiettanti, era un tifoso, ancorché non apertamente dichiarato più di Dizzy Gillespie che di Miles. Appunto: “Maildevis Amò?.
Ebbene sì, mio carissimo Emilio, conterraneo e collega per una serata. Maildevis amò… e par sempar…
JazzFranco