In una concezione animistica della natura, anche la roccia ha preso vita. Profondità emozionale capace di arrivare direttamente al cuore e di commuovere in Madama Butterfly, quarto titolo presentato all’Arena di Verona nel corso del 95° Opera Festival 2017.
La “tragedia giapponese” composta da Giacomo Puccini è stata riproposta nel collaudato allestimento del Maestro Franco Zeffirelli che, con straordinario senso del teatro, ha fatto propria la pulsione naturalistica fortemente presente nel libretto di Illica e Giacosa: si pensi ad esempio al “gracchiar di ranocchi” dei parenti; al ritorno di Pinkerton atteso “colle rose, alla stagion serena, quando fa la nidiata il pettirosso”; alla prima notte di nozze mentre “estatico d’amor ride il cielo”. Per la verità, la simbiosi tra le stelle idealizzate e gli astri nel firmamento veronese, ovvero quella percezione da parte degli spettatori di essere proiettati in una dimensione altra che è il fine ultimo di ogni spettacolo teatrale, è purtroppo stata vanificata dalla gru utilizzata per montare le scenografie, che anche in quest’anno di rinascita areniana fa brutta, intollerabile mostra di sé alle spalle del palcoscenico, minandone la magia. Tornando all’allestimento, la “collina” di Nagasaki, ideale prosecuzione dei gradoni dell’anfiteatro, si è animata di “piccole cose”, di altari votivi, di fiori e lanterne, di kimono e ombrellini (costumi del premio Oscar Emi Wada): una umanità affaccendata, estranea, ignara, insensibile al dramma solitario della tragica eroina. Sovrabbondanza andata a esaltare il contrasto tra azione e riflessione, tra la vastità degli spazi areniani e la dimensione raccolta, intima dei sentimenti cantati da Puccini. La fredda pietra ha inglobato premonitrice la fragile “casa a soffietto”, imprigionando Cio-Cio-San sotto il peso dell’attesa vana. Nessun tramonto o alba ha fatto da sfondo al celebre coro a bocca chiusa echeggiato dalla profondità della rupe che, partecipe al dolore umano, si è incupita, si è spenta per poi germogliare in grigie falene (movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli) che si dibattevano al loro ultimo fremere d’ali: “dicon ch’oltre mare se cade in man dell’uom, ogni farfalla da uno spillo è trafitta”. Chapeau, Maestro Zeffirelli.
La bacchetta di Jader Bignamini si è mossa con sensibilità e dinamiche delicate, ancorché uniformi, che avrebbero richiesto un pubblico maggiormente rispettoso del silenzio per apprezzare la ricerca sul dettato pucciniano. Oksana Dyka possiede mezzi nulla meno che sontuosi, benché la timbrica incisiva da soprano lirico-spinto risulti insolita nel ruolo di Cio-Cio-San, parsa una donna matura anziché un’adolescente, in dolente interiorizzazione. Marcello Giordani è un tenore dalla carriera importante, trovatosi non a proprio agio nell’insidioso spazio areniano, in una serata in cui non era al pieno della forma. Prova discontinua la sua, tra acuti limpidi e potenti e affanno nella tenuta, mentre i movimenti scenici di Pinkerton sono stati limitati dallo sguardo fisso verso il direttore. Linea stilistica omogenea, accuratezza nel fraseggio, pronuncia impeccabile e voce che “ha corso” senza necessità di forzature, con eleganza, per Alessandro Corbelli, Sharpless di razza. Notevole la pienezza timbrica, brunita, calda, corposa di Silvia Beltrami, Suzuki. Bene il nakodo Goro, Francesco Pittari e Yamadori, Nicolò Ceriani; correttamente sanguigno lo zio Bonzo, Deyan Vatchkov. Completavano il cast Alice Marini, Marco Camastra, Dario Giorgelè, Tamata Tarieli, Marina Ogii. Senza sbavature la prova del Coro diretto da Vito Lombardi. Serata calda con una gradevole brezza, anfiteatro mediamente affollato, applausi nei momenti canonici.
Foto Ennevi, per Fondazione Arena di Verona
Recensione Maria Luisa Abate