Due vecchie pompe di benzina. L’insegna della stazione di servizio indica che ci troviamo sulla Route 66. Mitica highway celebrata da letterati, come Steinbeck che parlandone vinse il Pulitzer, e da musicisti, tra cui il jazzista Bobby Troup che ne fece il soggetto di una canzone interpretata da Nat King Cole e ripresa in molte versioni. Ora, inconsapevolmente, anche Gaetano Donizetti ha percorso la “strada madre” degli States.

Era infatti ambientata nel Midwest, precisamente in un’America da telefilm che ha citato a piene mani la vecchia serie Hazzard, la regia di Pier Francesco Maestrini de L’elisir d’amore, andato in scena al Teatro Filarmonico di Verona nell’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino. L’opera si presta ottimamente a reinterpretazioni spiritose e si riscontrano innegabili similitudini tra l’originario paese Basco donizettiano e la pianura country-western di Maestrini, costellata da campi di granturco e cartelloni pubblicitari (scene Juan Guillermo Nova), dove ci si diverte in balli d’assieme o in groppa a un toro meccanico. Anche nella presente colorata gradevole sovrabbondanza di spunti, Elisir mantiene intatte le sue caratteristiche, come l’ironia scherzosa e la profonda umanità che possiedono i personaggi.

Davanti al Adina’s road food si aggira un uomo vestito da pollo: è Nemorino, abbigliato da imbonitore attira/clienti per la friggitoria (costumi Luca Dall’Alpi). Nel libretto di Felice Romani tratto da Eugène Scribe, Nemorino è l’ “idiota”, lo “scimunito”, per l’appunto il pollo del villaggio, o per lo meno tale si sente causa la sua ignoranza. Ma, una volta ereditata una fortuna, le donne se lo contenderanno a suon di sganassoni. La regia infatti ha elargito a piene mani spiritose controscene, animate da una collettività a dir poco varia: Hare Krishna in sari arancioni, quattro emuli dei Village People, un gruppetto di cow girl in shorts stivali e cappellacci; una coppietta di innamorati colti sul fatto da un genitore inviperito. Inoltre un acrobata free style straordinariamente bravo ha catalizzato l’attenzione del pubblico, prevalentemente di adolescenti (sia detto per inciso, tristemente più indirizzati dagli accompagnatori a capire la trama che non ad ascoltare la musica).

Ancora, il sergente Belcore ha fatto irruzione in scena impartendo ordini e usando un fischietto per mettere in riga l’indisciplinato mini drappello di soldati in tuta mimetica. Mentre Dulcamara, dispensatore dell’elisir che tutto guarisce e risolve, un imbonitore cialtrone della peggior specie ma di strabordante simpatia, ha fatto il proprio ingresso su una spider fiammante. Il finale non poteva che essere anch’esso allegramente sovrabbondante, sotto il cielo notturno (luci Paolo Mazzon) rischiarato dai fuochi d’artificio.  

Direttore era lo svedese Ola Rudner,dai tempi dilatati e dall’intesa indaginosa con il palco. Prova eccellente per il tenore Francesco Demuro dalla vocalità naturalmente bella e ottimamente gestita, con sfoggio di colori e chiaroscuri, capace di pregevoli smorzature e di un fraseggio meditato; Nemorino ingenuo, certamente non stupido, candido nella sincerità del sentimento. Struggente e malinconica ma anche, come deve essere, dal substrato gioioso “Una furtiva lagrima” bissata a grande richiesta mantenendo immutata l’intensità espressiva.

Degna compagna, Laura Giordano, dai legati morbidi, dall’emissione ben poggiata e ben proiettata, sfociata in acuti lucenti; Adina dal carattere forte arresosi alla potenza dell’amore. Il giovane baritono cinese Qianming Dou ha delineato con mezzi consistenti e acuto importante Belcore, militare sbruffone, convinto che tutte le donne cadano ai suoi piedi nonostante il buco nell’acqua fatto con Adina. Per tratteggiare l’imbroglione Dulcamara, Salvatore Salvaggio ha fatto ricorso alle tradizionali “sporcature” buffe, grazie alle quali ha risolto talune situazioni. Notevole vocalità ed eccellente attorialità per Elisabetta Zizzo, Giannetta. All’altezza del compito, che richiedeva anche una generosa dose di presenza scenica, il Coro attentamente preparato dal giovane maestro veronese Matteo Valbusa.

Fondazione Arena di Verona – di concerto con il Sindaco e con le organizzazioni sindacali dei lavoratori areniani – ha devoluto l’intero incasso della prima recita al Teatro La Fenice di Venezia, a pochi giorni dall’inaugurazione di Stagione ferito dall’eccezionale livello dell’acqua alta.

Recensione di Maria Luisa Abate per DeArtes

Visto al teatro Filarmonico di Verona – Viaggio in Italia nel tempo e negli stili – il 19 novembre 2019

Contributi fotografici: © Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona