Titolo onirico per eccellenza, inno alla confusione tra reale e irreale, “Sogno di una notte di mezza estate” lascia campo libero alla creatività attoriale e direttoriale, a innovazione e sperimentazione; nel presente caso alla ricerca dell’immaterialità. I proiettori del Teatro Romano a Verona si sono accesi, in prima nazionale, su una foresta di sottili liane semoventi, un tendaggio dalla valenza scenografica, per il suo assorbire le luci (light designer Marco Palmieri) e rendere cangianti colori e forme. Perfetto quindi per delimitare, senza tracciare confini concreti, la foresta shakespeariana abitata da persone e creature fantastiche.
Un assordante ritmo da discoteca ha accompagnato la danza iniziale, ispirata alla gestualità rituale dei guerrieri Māori della Nuova Zelanda. Non c’erano, nel bosco, nemici da impaurire, ma elfi e fate pazzerelli di cui temere i sortilegi, capaci di far innamorare e disamorare a comando, di giocare per puro divertimento con la sorte degli umani inermi, dei giovani Demetrio e Lisandro, Elena ed Ermia. Un cosmo incantato che il regista Massimiliano Bruno, con idea non nuova, ma declinata con originalità, ha materializzato in un carrozzone da circo, una gabbia per imprigionare metaforicamente le fiere domate da Titania – la volitiva Violante Placido – regina punk-rock giunta a bordo di un immaginifico cocchio/risciò/triciclo, ammaestratrice di uomini e di fate stralunate con occhiali e calze a righe (scene e costumi Carlo De Martino). Definito cripto-gay, Oberon – l’eclettico Giorgio Pasotti – sfoggiava un accento francese evocativo dell’ironia magicamente evanescente. Il folletto Puck – il travolgente Paolo Ruffini – intento a sorseggiare un bibitone con una cannuccia, ha sviluppato il concetto shakespeariano di fool in termini quasi filosofici, nell’indipendenza dalle regole, nella capacità di risolvere, con maccheronico flemmatico ingegno, gli impicci, dopo averli sventatamente creati. Una carovana estroversa nella quale il regista, in termini autografi, ha citato la folcloristica visionarietà di Fellini e un pizzico della surreale malinconia della Parade di Picasso e Satie.
Ad aggirarsi nella selva, anche una compagnia improvvisata, intenta a effettuare le prove dello spettacolo da inscenarsi in occasione delle nozze tra Teseo e Ippolita. Un gruppo omaggiante la comicità del vaudeville, capitanato da Bottom – Stefano Fresi simbiotico con il personaggio – in svolazzante kilt da highlander e con il vezzo di suonare l’ukulele. Una diversa declinazione di fool, uno sciocco tracotante e grottesco, esattamente come delineato da Shakespeare.
Il Bardo contrappone tre mondi: quello reale, rifacentesi al mito, dei futuri sposi e dei giovani innamorati; quello della finzione istrionica dei commedianti; quello aleatorio degli esseri soprannaturali. Universi che in questo allestimento si sono compenetrati in un meccanismo teatrale ben oliato, senza cadute di ritmo, in cui la musica (Roberto Procaccini) ha inframezzato la parola favorendo la fluidità del discorso scenico. L’adattamento (Francesco Bellomo e Massimiliano Bruno), sforbiciando e prendendosi alcune libertà, ha rispettato le specificità di linguaggio: compassato per la Corte, casereccio per i guitti, estroso per gli spiritelli. Alla fine l’amore, che è follia, ostacolato dall’insensatezza degli uomini, trionfa grazie al raziocinio dei matti, dei clown. Massimiliano Bruno, fool egli stesso, ha preso le distanze dalla dimensione veritiera per abbracciare decisamente e senza ripensamenti l’ambito della fantasia, dell’illogicità intesa come panacea, della pazzia vissuta come razionalità.
M.A.