No, no: l’ingegnere milanese cui si allude nel titolo non è, ahimè, il mio amatissimo Gaddus, il Carlo Emilio di “Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana”, “L’Adalgisa” e “La Cognizione del Dolore”. Quello a cui qui mi voglio riferire faceva di cognome Fava, era un signore molto distinto, formale, un po’ impettito, con un perenne sorriso immobile e piuttosto inespressivo. Era il proprietario di un appartamento sito in via Paolo Diacono, quartiere di Città Studi: in quell’appartamento ho vissuto con la famiglia negli anni ’70, quando lavoravo per La Rinascente, giusto per restare in ambito milanese.
Era insomma, l’ingegner Fava, il mio padrone di casa e abitava con la famiglia al piano di sotto, rispetto a quello in cui stavamo noi. Lo vedevo una volta al mese per pagare l’affitto e poi, naturalmente, saluti, sorrisi, strette di mano quando ci s’incontrava in portineria, o nell’ascensore.
Quale misterioso legame potrebbe mai esserci tra l’ingegnere in questione e un disco a me molto caro, inciso dall’orchestra di Duke Ellington, registrato a Chicago il 21 Gennaio del 1942 e intitolato “The “C” Jam Blues”? Nessuno, naturalmente: l’ingegner Fava, che mi risulti, il jazz non lo bazzicava proprio, lo avresti detto piuttosto un appassionato di musica lirica, o forse di operetta. E allora? Pazienza, scoprirete.
Che i primi anni ’40 siano stati il periodo forse più scintillante della parabola ellingtoniana lo abbiamo giù testimoniato commentando “Across the Track Blues” e anche “The “C” Jam Blues” lo può confermare. Ma la nuova escursione in quei territori fatati consente al vostro cronista di fornirvi un’altra notazione di qualche interesse: questo brano era già comparso con un titolo leggermente diverso (“C” Blues) in una seduta di registrazione di poco precedente (29 settembre 1941) del complesso di otto musicisti diretto dal clarinettista di Duke, Barney Bigard. Uno spiraglio sul mondo ricchissimo dei complessini ellingtoniani, emanazioni della grande orchestra, affidate di volta in volta alla direzione dei maggiori solisti del Duca: Johnny Hodges o Rex Stewart, Cootie Williams o appunto Barney Bigard. Un’occasione per Ellington di dare spazio e lustro ai fedelissimi e di sperimentare, su dimensioni orchestrali ridotte, sonorità, atmosfere, sviluppi tematici.
Il disco si basa su un tema di blues elementare, scarnificato, scheletrico: quattro misure ripetute con leggere variazioni per tre volte di seguito. Rigorosa economia di mezzi espressivi, dunque. Ma c’è di più: a dare forma a quelle quattro misure sono in sostanza due sole note reiterate così per tutta la durata del tema, sia pure attraverso minimi spostamenti dei valori ritmici o melodici. Se serve una conferma alla tesi secondo la quale la traccia tematica può avere nel jazz un’importanza secondaria rispetto allo sviluppo dell’arrangiamento o alla successione degli episodi solistici, eccola qui. Colpisce ancora in “The “C” Jam Blues” la graduale e poderosa crescita verso un culmine finale: i cinque primi solisti (Ellington al piano, Ray Nance al violino, Rex Stewart alla tromba, Ben Webster al sax tenore, Joe Nanton al trombone) sembrano preparare la scena per il conclusivo assolo di Barney Bigard al clarinetto che pare quasi proiettato in alto dal “tutti” dell’orchestra che “monta intorno a lui come una gigantesca ondata di marea” (Gunter Schuller). L’impatto dell’ultimo ritornello è soverchiante, tenendo conto che si tratta di un’orchestra di sei ottoni, tre sax e un clarinetto, quello di Bigard appunto, che vola alto. Ma non va sottovalutato l’apporto della sezione ritmica: il batterista Sonny Greer (troppo spesso colpevolmente sottovalutato dalla critica, per colpa di uno di quei luoghi comuni ricevuti, presi per buoni e diffusi) assicura un impeccabile pilotaggio della sequenza degli assoli e controlla a perfezione il crescendo finale. Il bassista Junior Raglin elabora linee di contrabbasso perfette in eccellente contrappunto agli improvvisatori che a loro volta rappresentano bene l’eccellenza solistica dell’orchestra nel suo periodo d’oro.
A ciascun solista viene affidato un chorus di dodici misure, preceduto da quattro misure di passaggio. La dinamica che il brano assume è davvero notevole e questa strutturazione del brano non verrà più modificata da Ellington nelle successive innumerevoli edizioni di “C Jam Blues”: anche se allungate e arricchite si manterranno fedeli allo schema, indovinato fin dalla prima edizione.
I solisti, dunque. Apre Ellington al pianoforte: qualche accenno di stile “stride”, forte sostegno del basso e lui, Duke, procede sornione e ironico. E poi Ray Nance, polistrumentista che sapeva alternare alla tromba, suo strumento d’elezione, anche il violino, con un accoppiamento inconsueto e stimolante. Ed è al violino che lo ascoltiamo qui: nostalgico, rapsodico ma al contempo innervato da grande vigore e da una vitalità niente affatto accademica. Rex Stewart alla cornetta è graffiante e pungente come sempre. Ben Webster al sax tenore è sontuoso e vibrante. Joe Nanton al trombone con sordina sembra una voce del passato, ruvida e risonante: eccellente rappresentazione di quello stile che si suole definire jungle-style, una giungla ellingtoniana naturalmente. Ma se lo riascoltate, scoprirete in questo assolo qualcosa di più: una grande abilità costruttiva, abbinata a un ammirevole senso dell’ironia. E per finire Barney Bigard al clarino, con quella scintillante meravigliosa conclusione del pieno orchestrale.
È arrivato il momento di giustificare l’inclusione di questo disco nella mia privatissima e forse bizzarra raccolta di dischi a diverso titolo memorabili.
Nel caso di “The “C” Jam Blues” i motivi della scelta sono ancor più che in altri casi personali e privati: e qui rientra in scena l’ineffabile ingegner Fava.
Avevo con i figli, allora bambini, costruito sulla melodia del nostro disco, che spesso si ascoltava in casa, un innocente e non irrispettoso scherzo che combinava il patronimico del nostro padrone di casa all’andamento melodico del blues di Duke Ellington e che suonava pressappoco così: “Fava-Fava-Fava -Faava”. Lui, Fava, era naturalmente all’oscuro di questa libertà che ci eravamo presi ed io per un po’ di tempo temetti che i bambini scoprissero le carte e magari incontrandolo sulle scale intonassero sorridenti il nostro privatissimo inno di famiglia: “Fava-Fava-Fava-Faava”. Non successe mai.
Ritornando all’osservazione iniziale sull’ingegnere più illustre, forse poteva starci anche un “Gadda-Gadda-Gadda-Gaadda”: la metrica del motivo ellingtoniano lo consentirebbe. E forse, mai dire mai, anche tra Gadda e il jazz qualche riferimento, un po’ stiracchiato, lo ammetto, si potrebbe stabilire (“Mentre a tanto lacerata musica ballano, amorosamente compunti, e s’ammollano le lor camisce i sudati, donn’Italia con buona pace di Mazzini e d’i’ssuo bel giazzo….”. E nelle note si chiarisce che la voce giazzo è italianizzazione e deformazione caricaturale dell’inglese jazz, implicata probabilmente col milanese giazz (ghiaccio). È un articolo del 1946, raccolto negli Scritti Dispersi: forme di espressioni artistiche del novecento, libertà strutturale, innovazione del linguaggio. È troppo, vero? D’accordo, fermiamoci qua.
JazzFranco Carobbio