Palazzo Ducale presenta la mostra “Anni venti in Italia. L’età dell’incertezza”, un percorso che si snoda attraverso le sale dell’Appartamento del Doge con oltre 100 opere provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, e intende proporre un’indagine affascinante, mirata sulla complessità storico, politica, sociale e culturale del decennio e sull’impatto che i suoi precipui caratteri esercitarono sulle ricerche estetiche del tempo, in particolare sulla produzione pittorica e plastica.
Gli anni venti rappresentarono infatti una cruciale fase di passaggio tra il trauma della Grande Guerra – che comportò, tra l’altro, il crollo delle certezze e dell’ottimismo che avevano pervaso il primo decennio del nuovo secolo – e la crisi mondiale del decennio successivo. Crisi che, annunciata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929 e seguita dalla progressiva affermazione sullo scacchiere internazionale di regimi dittatoriali, si concluse con un nuovo ancor più tragico conflitto. In Italia il turbolento clima del dopoguerra favorì l’ascesa al potere del fascismo. La lunga ombra della guerra, la travagliata transizione a un’economia di pace in un quadro internazionale di grande instabilità, il passaggio da una stagione di rivendicazioni sociali e di primi esperimenti di partecipazione politica di massa a una svolta autoritaria, l’influenza dell’esperienza rivoluzionaria di Fiume a livello sia politico sia di costume, le spinte ai cambiamenti culturali e nei rapporti di genere ereditate dalla Belle Époque: tutto contribuì al diffondersi di un forte senso di incertezza individuale e collettiva.
A questa complessità di eventi corrispose, nel campo delle arti figurative, un’ampia varietà di declinazioni linguistiche che rappresentarono il termometro di un’epoca convulsa. Nonostante la storiografia abbia spesso messo in rilievo il carattere ruggente e sfavillante di tale decennio, gli anni venti si presentano come un’epoca caratterizzata da una generale sensazione di inquietudine che, in campo pittorico, trovò riscontro in una vasta gamma di enigmatiche rappresentazioni di attesa, ma che alimentò pure – nell’aspirazione a una fuga verso l’altrove – l’esplorazione di universi spirituali, irrazionali e onirici, l’evasione verso dimensioni edonistiche e l’aspirazione a un ritorno al passato, condensata nella celebre definizione di “ritorno all’ordine”.
L’esposizione, nell’illustrare questa complessa situazione culturale, si articola in nove sezioni:
PROLOGO Volti del tempo
Una sequenza di ritratti apre, come un prologo, la mostra. Nella ripresa del principio rinascimentale della gerarchia dei soggetti, al tema della figura venne attribuito all’epoca un posto di primo piano. Una lunga galleria – con opere di Gino Severini, Giorgio de Chirico, Felice Casorati, Achille Funi, Baccio Maria Bacci, Ubaldo Oppi, Carlo Levi, Alberto Savinio, Fillia, Pippo Rizzo – i volti e le pose dei personaggi raffigurati – con le loro peculiari espressioni fisiognomiche e i loro marcati caratteri identitari, pubblici o privati – offrono una diretta e variegata proiezione della società del tempo. E a volti di anonimi personaggi, reificati nel loro ruolo sociale, si accompagnano a ritratti di alcuni dei principali esponenti del mondo culturale, artistico e imprenditoriale del periodo, da Matteo Marangoni ad Alfredo Casella, da Umberto Notari a Renato Gualino.
ATTESE Sospensione. Malinconia. Inquietudine
Molti dipinti degli anni venti presentano, sotto il comune tema dell’attesa, una pittura di silenzio, incanto e stupore. Vi domina un’inedita nozione del tempo: un’aspirazione all’eternità, a una dimensione cristallizzata del fluire dell’esistenza. Le visioni enigmatiche di Carlo Carrà, Antonio Donghi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Piero Marussig, Ottone Rosai, Cagnaccio di San Pietro, Arturo Martini rivelano spesso una sotterranea tensione che lascia presagire un senso di sospensione e aspettativa o, per contro, l’inquieta rielaborazione di eventi passati, il cui ricordo permane nella perturbante condizione di distacco dalla realtà.
PRELUDIO Il trauma della guerra
Il concetto di “vittoria mutilata” contribuì a trasferire sul corpo della nazione le ferite dei reduci: furono quasi mezzo milione gli invalidi che tornarono dal fronte. Allo stesso tempo, la retorica propagandistica, che per anni ispirò l’edificazione di sacrari, cimiteri e monumenti in memoria dei combattenti, distolse la popolazione da una cosciente elaborazione del lutto, privilegiando la celebrazione dell’eroe. Nonostante fosse questa l’immagine ufficiale imposta dall’alto, molte opere dell’epoca mostrano tuttavia, in maniera più o meno scoperta, come fosse impossibile cancellare dall’immaginario collettivo il ricordo drammatico dell’evento bellico e la constatazione delle sue tragiche ricadute sociali. In questa sezione i dipinti di Carlo Potente e Pierangelo Stefani, densi di atmosfere pacate e quasi sacrali, si accompagnano all’intensa espressività delle opere di Eugenio Baroni, Ardengo Soffici e Lorenzo Viani
METROPOLI Disagio. Violenza. Solitudine
Il clima di disagio psicologico e di tensione sociale, determinati anche dalle trasformazioni tecnologiche drammaticamente sperimentate durante il recente conflitto, si manifestò in particolare nelle grandi città – come esemplificato dalle vedute metropolitane di Mario Sironi o nel dipinto Il caduto di Leonardo Dudreville – e diede vita in alcuni casi a una visione distopica del reale, che si può ritrovare, a cavallo tra anni dieci e venti, nei dipinti di Sexto Canegallo e Domingo Motta.
IRRAZIONALITA’ Angoscia. Incubo. Mistero
Se la nostalgia per un passato mitico portò spesso la cultura del tempo a sconfinare nell’irrazionale, la perdita di attaccamento alla realtà contribuì ad aprire spiragli verso la dimensione dell’angoscia e dell’incubo o verso l’ossessiva reiterazione di esperienze traumatiche, direttamente vissute o semplicemente intuite durante la recente esperienza bellica: ne offrono testimonianza i dipinti di Primo Conti, Gigiotti Zanini e Scipione, come pure le opere di Alberto Martini e Dario Wolf.
ALIENAZIONE Maschera. Marionetta. Uomo meccanico
Il movimento futurista diede un fondamentale contributo alla creazione dell’immagine di un uomo nuovo, improntato alla cultura del macchinismo: dal superuomo incarnato dal Mafarka il futurista di Filippo Tommaso Marinetti all’uomo meccanico celebrato dal manifesto L’arte meccanica di Enrico Prampolini, Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini (1922), si approdò ben presto, tuttavia, a L’angoscia delle macchine di Ruggero Vasari (1925), premonizione di un controllo dell’umanità attraverso le macchine. Dall’altro lato, anche il fascismo aspirò alla creazione di un uomo nuovo, potenziato nel fisico dalla cultura sportiva e preparato dai rituali di organizzazione sociale del regime ad affrontare la guerra. Nell’arte del decennio – a partire dalle inquietanti raffigurazioni metafisiche del manichino e della maschera – venne affermandosi la peculiare rappresentazione di un’umanità che, nella graduale perdita della soggettività, si trasforma in marionetta o in macchina: una visione che – esemplificata con grande suggestione dal teatro e dalla narrativa di Luigi Pirandello e dalla sua sgomenta constatazione di un’ossessiva reificazione dei ruoli imposti dalla società – si ritrova nelle opere di Gino Severini, Gian Emilio Malerba, Adolfo Wildt, Mario Sironi per arrivare a Fortunato Depero, Nicolaj Diulgheroff, Mino Rosso, Thayaht.
EVASIONI Nostalgia. Sogno. Magia
L’eterno presente cui rimandano le atmosfere sospese di molte opere dell’epoca e il senso circolare del tempo, che il clima di ritorno all’ordine oppose al moto progressivo e lineare del tempo imposto dalle avanguardie, rappresentarono spesso lo sfondo per la fuga da una realtà quotidiana che disturbava. Numerose le direttrici dell’evasione: la nostalgia per il passato, la tradizione e la classicità come nel caso di Achille Funi e Felice Carena, ma anche il fascino di ricerche mistiche, magiche e misteriose, come, pur nelle differenze, per Tullio Garbari, Mario Sironi, Ferruccio Ferrazzi.
IDENTITÀ Stereotipo. Ambiguità. Desiderio
La sensazione della perdita della propria consapevolezza identitaria, così come i segnali dell’emergente massificazione, ebbero rilevanti contraccolpi sul tessuto sociale degli anni venti e, anche se gli austeri precetti morali della tradizione continuarono a imporre un consolidato sistema di regole di comportamento, è proprio in questi anni che iniziano a manifestarsi i segni di una nuova libertà sessuale e di genere, come documentato dal manichino androgino di Ferruccio Ferrazzi, dal bacio saffico di Alimondo Ciampi, dall’ambiguità delle statuine di Giovanni Grande e Sandro Vacchetti, dalla morbosità, ora ironica ora aggressiva, di Scipione. A queste espressioni di rivolta nei confronti del codice comportamentale corrente – maturate nel clima libertario degli ambienti artistici e sovversivi o influenzate da modelli provenienti da oltreoceano – la morale del tempo contrappose stereotipati modelli di mascolinità e femminilità, come testimoniato nelle arti figurative di quegli anni dalle seriali raffigurazioni della maternità o dalla plastica fisicità dei corpi maschili di lavoratori e sportivi.
DÉCO Eleganza. Lusso. Edonismo
Come già sottolineato, si fa spesso riferimento a quest’epoca come ai “ruggenti anni venti”, mettendo in evidenza quei caratteri di spensieratezza, bellezza e edonismo che, alimentati dall’immaginario culturale d’oltreoceano, connotarono la frenesia vissuta nelle principali capitali europee prima del tracollo. Dopo aver indagato i lati più oscuri e ambigui del decennio, la mostra intende quindi proporre in chiusura, con le opere di Anselmo Bucci, Ubaldo Oppi e Libero Andreotti, l’esplosione di eleganza e lusso, voglia di divertimento e evasione, che improntò quegli anni e che, proprio nella sua dimensione effimera, rappresentò l’altra faccia dell’“età dell’incertezza”. All’inizio e al termine dell’esposizione, a connettere i principali tempi della mostra, saranno presentate tre celebri sculture di Arturo Martini: il bassorilievo in gesso La tempesta del 1926 introduce – nella raffigurazione di un mare impetuoso e di un denso cielo incombente – il clima di incertezza e inquietudine del decennio, mentre nella Cappella, al termine del percorso, La pisana (1928) e La lupa ferita (1930-1931) testimoniano emblematicamente la forte tensione espressiva del periodo e il desiderio di fuga ed evasione dalla realtà quotidiana.
La mostra è accompagnata da un catalogo, edito da Sagep, Genova, con testi dei curatori e di Fabio Benzi, Teresa Bertilotti, Andrea Cortellessa, Patrizia Dogliani, Ferdinando Fasce.
C.S.
Fonte: Press area del sito
ANNI VENTI IN ITALIA L’età dell’incertezza
5 Ottobre 2019 – 1 Marzo 2020
Prorogata al 22 marzo
Palazzo Ducale
Piazza Matteotti 9 16123 Genova
Tel. 010 8171600
biglietteria@palazzoducale.genova.it