Anna Pirozzi lucente Abigaille nel Nabucco risorgimentale all’Arena di Verona
Tre fischi ed ecco accorrere i martinitt. Non si era a Babilonia né a Gerusalemme, ma nella Milano invasa dalle barricate delle Cinque Giornate, registicamente protratte dal 1848 al 1860, secondo un concetto malleabile di tempo e di storia. A contrapporsi, non erano Babilonesi ed Ebrei ma soldati austriaci e patrioti risorgimentali, nel Nabucco che ha fatto ritorno a Verona in un nuovo allestimento, fiore all’occhiello del processo di rinascita della Fondazione Arena. Attorno alla credenza popolare, che vuole Giuseppe Verdi essere stato colonna sonora del Risorgimento, Arnaud Bernard ha avviluppato un disegno registico kolossal e visionario. Sventolio di gialle bandiere con l’aquila bicipite e Tricolori, dal balcone del Teatro alla Scala di Milano, fulcro della bella scenografia girevole ideata da Alessandro Camera e realizzata con la consueta maestria dai laboratori areniani. Uno scompiglio di gente che si è realisticamente arrabattata alla rinfusa, un garbuglio di oppressori e liberatori, di militari irreggimentati e “cani sciolti”, di cecchini e feriti. Una situazione di caotica guerriglia urbana, sotto una gragnola di colpi e annebbiata dai fumi dei cannoni e delle armi da fuoco (lighting designer Paolo Mazzon). Nabucco vestiva una divisa di gala bianca con fascia rossa, riconducibile all’iconografia di Francesco Giuseppe, colpito non dal fulmine scagliato dal Dio d’Israello bensì dai colpi sparati da un attentatore. Del resto, anche l’ussara Abigaille non ha esitato a giustiziare di suo pugno qualche rivoltoso.
Elementi ante e post litteram, come l’esercito italiano, il tetto del teatro bombardato, le crocerossine impegnate a confortare i pochi contusi e i molti sani. Ma in fondo, non avrebbe avuto importanza uno sfoggio scolastico di date. Bernard ha proposto un’immagine olografica, simbolo del potere e del comando; ha portato sulla scena un’idea, anzi un’ideale, identificando il tempio di Salomone con il tempio della lirica. Ha tradotto la libertà in anelito universale e musicale. La fantasiosità registica ha virato nell’ultimo atto, dichiaratamente ispirato al film Senso di Luchino Visconti. Nell’ennesima rotazione, il Teatro alla Scala si è aperto mostrando il suo interno, con i palchi affollati di milanesi e la platea dove erano assisi gli austriaci. Sul palcoscenico, una grande Menorah indicava si stesse rappresentando l’opera Nabucco in costumi tradizionali. Al coro “Va, pensiero” si sono aggiunti i loggionisti, con tripudio di bandiere rosse bianche e verdi e sconcerto austriaco. Il Nabucco della Scala, “finzione” scenica, era contrapposto al Nabucco “vero” dei moti insurrezionali, con esiti metateatrali. I due mondi si sono specchiati l’uno nell’altro, riassunti nello sguardo sbigottito dell’Abigaille austriaca, verso l’Abigaille babilonese, a conclusione di un progetto assai interessante, con la necessaria dose di spettacolarità. Sul podio Jordi Bernàcer ha impresso all’ouverture tempi rilassati comunque ben scanditi, volti a creare un’atmosfera raccolta, mentre sulla scena avveniva di tutto e di più. Le dinamiche in seguito ravvivatesi, hanno contribuito a porre in luce l’interiorità dei personaggi, privilegiando l’espressività verdiana.
Fraseggio preciso e attento a controbilanciare la dizione non ottimale, Boris Statsenko ha svolto una prova notevole, sia pur con qualche disomogeneità nella tenuta; ha risolto egregiamente il ruolo ibrido di Nabucco/Francesco Giuseppe che lo ha visto accorato padre e ardimentoso condottiero. Anna Pirozzi, Abigaille di grande classe, ha fatto sfoggio di vocalità verdiana, attenta al lirismo che pervade il personaggio sotto la scorza di fiera combattente. Il soprano possiede facilità e limpidezza d’acuto, sempre ben controllato come l’emissione in generale, e intelligenza nel dosaggio della tavolozza coloristica; ha giostrato con tecnica sicura tra meditazioni introspettive e impeti di fiammeggiante drammaticità. Pure Nino Surguladze, dalla bella musicalità, ha dosato energia e accenti, tra morbidezze e rotondità, soprattutto nei registri medio alti; peccato che Fenena sia spesso rimasta fagocitata dalla sovrabbondanza degli elementi scenici. Vocalità solida per Mikheil Sheshaberidze, Ismaele. Zaccaria aveva la voce elegante, benché avara in smalto, di In Sung Sim. Accanto a loro, Nicolò Ceriani incisivo Gran Sacerdote di Belo, Cristiano Olivieri, Abdallo ed Elena Borin, Anna. Bissato d’ufficio il “Va, pensiero”, che rimane il vero simbolo dell’opera e uno dei punti di forza del Coro areniano, diretto da Vito Lombardi, per il sapiente uso dei pianissimo e per la suggestione della corona finale. Ottima, va detto senza ironia, la numerosa compagine equina, adeguatamente addestrata e apparentemente non impaurita da fuochi fumi e spari, che hanno viceversa allarmato, durante le prove, la Questura di Verona. Prima dell’inizio della recita è stata annunciata l’innocuità dei colpi.
Visto il 9 agosto 2017. Foto Ennevi, per Fondazione Arena di Verona
M.A.G.