C’è – c’era – anche un disco di Charlie Parker nella colonna sonora che accompagnava i pomeriggi dei nostri incontri/audizioni in casa dell’uno o dell’altro degli adepti componenti la mia compagnia d’adolescente. La doppia collocazione temporale intende alludere alla diversa valenza che questo disco assume nei miei ricordi. Il disco c’è nel senso che esiste, è catalogato nelle discografie, inciso nei solchi dei microsolchi o sui CD, analizzato da critici ed esegeti del bop, la corrente musicale di cui Parker è il più rappresentativo esponente. Ma il tempo passato vuole (vorrebbe) rappresentare il significato controverso e misterioso che quel disco assumeva là e allora, le risonanze oscure e distorte che il suo ascolto evocava e che Mario, uno del gruppo, sintetizzava così: “Questo disco mi fa star male”.

Il titolo del brano è Loverman https://youtu.be/mJrhOjvDbtg, la data d’incisione è il 29 luglio del 1946, la formazione del complesso che lo registrò ha la classica, consolidata struttura del quintetto bop: tromba (Howard McGhee), alto sax (Parker), sezione ritmica con piano (Jimmy Bunn), basso (Bob Kesterton) e batteria (Roy Porter). Cito questi riferimenti per completezza, anche se mai i dettagli discografici sono stati così irrilevanti come in quest’occasione. Furono registrati quattro brani, tra cui il nostro disco: le cronache ci dicono che Parker aveva un aspetto poco rassicurante e seri problemi con l’ancia del suo strumento. Passò mezz’ora senza che venisse deciso cosa suonare: Parker provava qualche nota, sistemava l’ancia, posava lo strumento e si metteva a sedere. Il nervosismo e la preoccupazione stavano prendendo gli altri musicisti, eccettuato McGhee che sembrava mantenere un certo controllo della situazione. Un passo indietro: Parker era nato a Kansas City nell’agosto del 1920, aveva dunque venticinque anni quando entrò in quello studio d’incisione. Aveva lavorato a più riprese con la grande orchestra di Jay McShann: nei dischi che restano a memoria di questa collaborazione, si ascolta un solista nitido e scorrevole, con un particolare tipo di swing e un fraseggio in qualche modo più complesso e articolato rispetto a quello degli altri solisti, come a dare un primo segnale d’imminente divergenza tra lo stile di Parker e quello dell’orchestra. Si avverte l’influenza di Lester Young, ma c’è un’impronta già personale e caratteristica.

Poi la partecipazione al laboratorio plurimo e itinerante che diede forma e assetto al bebop. Le sedi: i clubs in cui, after hours cioè dopo il lavoro, si riunivano a sperimentare ed esplorare giovani leoni, strumentisti con esperienze difformi e variegate: Charlie Christian, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, il nostro Parker. Successivamente l’affermazione definitiva con i dischi per la Savoy e poi per la Dial e infine per la Verve dell’impresario Norman Granz. Ma questo non vuole certamente essere un saggio su Parker, troppo ci sarebbe da dire: le sue inarrestate, turbolente, sovversive esecuzioni su tempo velocissimo, a rompicollo, che riescono chissà come a mantenere miracolosa grazia ed elegante, impeccabile equilibrio; le sue interpretazioni del blues in cui convivono come per miracolo fedeltà alla canonica matrice primigenia e sorprendente, personale re-invenzione del linguaggio e delle formule; la sua lettura serena e armoniosa delle ballads; il suo fraseggio che a volte sembra portarlo in vicoli ciechi senza uscita: ma lui, Parker, trova sempre un divino filo d’Arianna, impraticabile per i comuni mortali, che lo porta provvidenzialmente fuori dal tunnel. Ma qui, si diceva, occorre parlare del Loverman del 1946 (ce ne sarà un altro, molto meno problematico, registrato nel 1951, quasi un esame di riparazione, pulitino ed insipido). Il disco di cui ci stiamo occupando è tutt’altro che un bel disco nel senso proprio del termine: scomposto, disorganico, irrisolto. Ciò che m’induce a includerlo in questa rassegna dei dischi della (mia) vita è la sua dirompente, straziante, quasi insostenibile carica emotiva. Ho già fatto riferimento alle precarie condizioni di forma di Parker nell’occasione: in realtà stava attraversando una gravissima, disperata crisi di astinenza dalla droga. Qui mi sembra quasi di invadere i tragici campi della sua esistenza, mi sento un po’ un voyeur o un giornalista di gossip: ma tant’è, questa era la situazione.

Ecco alcuni pareri di illustri critici. Max Harrison: “Spiacevole impressione delle condizioni pietose in cui si dibatteva Parker: cercò di portare a termine quattro brani, anche se i suoi muscoli erano sottoposti a contrazioni e scatti incontrollabili. In ‘Loverman’ la sonorità è priva di vita e le frasi esitanti: un rimasuglio di tecnica comunica in termini musicali la sua confusione mentale”. Inciso in stato di alterazione psichica” – conferma Paolo Vitolo – “ma al vertice della espressione automatica parkeriana”: come se un provvidenziale pilota automatico fosse stato inserito e avesse in qualche modo surrogato il solista sperduto. Secondo James “un solo torturato e fuori controllo, una bellezza aspra e imperiosa, di incredibile espressività”. Per chi è meno disposto a lasciarsi coinvolgere emotivamente dal contesto e si limita a valutare la musica in sé, come Mark Gardner, pochi dubbi: “il punto più basso della carriera di Bird”. Il disco venne pubblicato contro la volontà dell’artista, ricorda Lucien Malson, che lo ritiene “utilizzato per le sue qualità negative,  per il suo fascino macabro, da Fiore del Male”. Curioso che questa assonanza baudelairiana sia venuta in mente a un critico francese. Lo stesso Malson torna su quella seduta e su quel titolo in particolare: “un cattivo ricordo, associato a momenti di inquietudine e malattia; malgrado raschi e soffi d’ancia il discorso viene mantenuto al livello di forma consueto”. Ed ecco Richard Cook e Brian Morton nella “Penguin Guide To Jazz Recordings”: Era quasi in coma, ma in qualche modo riesce a concludere un solo brutale e involuto”. E Gianfranco Salvatore in una sua monografia dedicata all sassofonosta: “una delle sedute più drammatiche di tutto il jazz, un impressionante documento sonoro di una crisi da astinenza”. “Loverman” dura 3 minuti e 16 secondi, siamo in epoca di 78 giri. Il pianista Jimmy Bunn suona una tranquilla introduzione e prepara il terreno per l’entrata del sax, ma non succede nulla: Parker sta fermo davanti al microfono, nessuna nota esce dal suo strumento per tutta la prima misura. Comincia alla seconda il suo cammino ondivago e incerto, con pause affannose e frasi che ti straziano il cuore. Il suo corpo ondeggia incontrollato e a un certo punto si gira quasi completamente, cosicchè lo strumento finisce malamante off mike cioè al di fuori della zona coperta dal microfono, come si può sentire anche all’ascolto. La tragedia di quella giornata maledetta non finisce nello studio: in albergo, più tardi, Parker si aggira nudo sulle scale e poi in camera con una sigaretta dimenticata appicca involontariamente fuoco all’arredo. Arrestato per resistenza alla forza pubblica, recuperato dopo dieci giorni dal produttore Ross Russell che denunciò la totale mancamza di collaborazione e l’atteggiamento razzista della polizia di Los Angeles. Sarà ricoverato per sei mesi in psichiatria al Camarillo State Hospital. L’evento sarà ricordato qualche tempo dopo con il disco “Relaxin’ at Camarillo”.

Ecco la storia di “Loverman”: un’opera che ai miei occhi rende completamente inutilizzabili i normali criteri di valutazione con cui ci si appresta ad ascoltare e giudicare un brano di jazz. No, questa è un’altra storia. Aveva ragione il mio amico Mario: “Questo disco mi fa star male”.