Sarebbe riduttivo definire “ripresa”, l’allestimento di Tosca che Hugo de Ana ideò apposta per l’Arena di Verona nel 2006. Il taglio intimistico dato dal regista, scenografo, costumista e light designer argentino ha infatti la proprietà di rinnovarsi, attingendo alle specificità dei cast alternatisi negli anni. In special modo, quando la protagonista possieda un’empatia artistica con l’impostazione scenica, con musica e parole, come nel caso di Ainhoa Arteta, una Floria Tosca da ricordare.

Ispirato al dramma di Victorien Sardou, il libretto di Illica e Giacosa porta al 1800, in piena rivoluzione francese, durante la caduta della Repubblica Romana. L’innovazione registica, mai autoreferenziale e sempre rispettosa di Giacomo Puccini, coniuga la spettacolarità necessaria all’anfiteatro, con la dimensione raccolta richiesta dalla partitura. Emerge, in tutta la sua drammaticità, l’impetuosa passionalità dei personaggi, bulimici di vita e di emozioni forti. Tosca ostenta fieramente possessività e amore nei confronti di Mario Cavaradossi, motivato da ardore patriottico. Tra i due si frappone il Barone Scarpia, che fa il suo ingresso in scena rovesciando il quadro dipinto dal pittore, ossia calpestando la gelosia verso quest’ultimo provata da Tosca. Il capo della polizia, di raffinata spietatezza, dal fascino noir, compendia nella sua persona l’ambivalenza tra eros e thanatos. Un potere abusato, esercitato mediante inganni, torture, uccisioni; propaggine di una religiosità distorta, che fa dei porporati nel Te Deum una processione di corpi mummificati e scheletriti dalla consunzione dello spirito, mentre i colpi di cannone sprigionano un fumo denso, un incenso laico che veicola il clima di cupo terrore che si respira nella Roma di de Ana. La gigantesca, bellissima testa del messaggero divino che sormonta Castel Sant’Angelo, in una mano brandisce la spada e nell’altra stringe un rosario. La contrapposizione tra i due simboli incombe in tutta l’opera, all’interno della Chiesa di S. Andrea della Valle come pure nelle stanze di Palazzo Farnese, soggiogando i protagonisti sotto la soverchiante autorità papalina. Il ferro si abbassa nell’ultimo atto: “giustizia le sue sacre armi depose”. Tosca, dopo che il plotone d’esecuzione ha legato a una croce e poi giustiziato il suo Mario, anziché buttarsi dai bastioni della fortezza, ascende al cielo impugnando un crocifisso. A lei, de Ana affida la missione di ricondurre il sentimento religioso a “fé sincera”, d’elevata purezza.

Tra slanci epici e meditazioni contemplative, Antonino Fogliani ha instaurato un sinergico feeling sia con la buca che con il palco. Tempi vivaci che hanno mantenuto sempre alta la tensione emotiva, ariosità a dare respiro alle pagine di palpitante lirismo, luminosità della dinamica coloristica: elementi che hanno denotato, nel direttore, una spiccata sensibilità pucciniana. La vocalità “italiana” e il bel timbro del soprano spagnolo Ainhoa Arteta, si sono sposate alla solidità tecnica. Caratteristiche misurabili nel legato morbido, nella rotondità soprattutto dei registri alti, nella dolce espressività delle mezze voci. E poi la dizione, accurata come il fraseggio, l’elegante omogeneità della tenuta, dal primo all’ultimo atto. Arteta, nello splendore della maturità artistica, ha saputo immedesimarsi nell’animo del compositore lucchese e ha gestito intelligentemente la voce in relazione allo spazio, senza mai forzare la naturale potenza. La sicurezza nella preparazione le ha consentito, non di interpretare, ma di “essere” Floria Tosca, alla quale, con convincenti doti attoriali, ha donato temperamento e introspezione, confezionando una prova di elevata raffinatezza estetica. Dopo Ismaele in Nabucco, a Mikheil Sheshaberidze è stato affidato il ruolo di Mario Cavaradossi, similmente svolto prestando maggiore attenzione alla voce, che non alla linea stilistica. Lavorando meglio sul personaggio e sugli accenti, il tenore potrebbe dare degno coronamento allo squillo rigoglioso, non sempre dosato al meglio. Per Scarpia il potere è solitudine, gelo interiore, brutalità ferina celata entro una facciata signorile, colta. Splendido interprete ne è stato Ambrogio Maestri, dal carisma scenico e dai mezzi sontuosi, ricchi di sfumature sapientemente cesellate ad hoc su tinte fredde, eppur capaci di divampare con fuoco drammatico. Ben proiettata l’emissione pastosa di Romano Dal Zovo, ottimo Angelotti. Nicolò Ceriani ha tarato con gusto, senza eccessi, l’ironia del Sagrestano, mentre Antonello Ceron ha vestito i panni di uno Spoletta correttamente servile. Marco Camastra era Sciarrone, e Omar Kamata il Carceriere. Una menzione particolare alla suggestione creata dal Pastorello Emma Rodella e alla puntualità delle Voci Bianche A.d’A.MUS. istruite da Marco Tonini, affiancatesi al Coro guidato da Vito Lombardi, che ha inanellato un’altra prestazione notevole, in una stagione lusinghiera.

 Foto Ennevi, per Fondazione Arena di Verona. Visto il 17 agosto 2017.

Maria Luisa Abate

 

INTERVISTA a AINHOA ARTETA 

Ainhoa, grazie per il tempo e la trasparenza che ci concedi. Grazie per il tuo contributo al bello, al vero, all’arte e al canto. Ieri sera ti abbiamo veramente apprezzato nella prima delle tue tre rappresentazione di Tosca. Hai commosso il pubblico con la forza del tuo sentimento espresso e con la tua vocalità limpida e calda.

Tosca, è l’unico personaggio femminile in tutta l’opera, quindi deve chiaramente sostenerne il peso.
Sì, è vero, Puccini ha un paio di opere così Tosca e anche La Fanciulla del West, che devo anche sostenere. Secondo me farò quasi tutto Puccini da adesso in poi, mi hanno offerto quasi tutte le eroine di Puccini, del verismo insomma.

Tornare in Arena com’è stato?
Ehhhh, diciamo che per me è stato come se fosse il mio debutto. Sì, perché non ha niente a vedere la Tosca con Musetta di Bohème. Io Musetta sì l’ho fatta e sono stata una Musetta notevole, perché ho fatto tante Musette, fin da un periodo lungo della mia carriera. Però, come dicevo prima, da sei anni, sette anni che ho cominciato a cambiare, è cambiata la mia vocalità e allora diciamo che, non dico un anno di una cantante, però sì una cantante che ha cambiato di registro. Posso fare Musetta però sono più per questi ruoli qui. Allora io avevo curiosità, perché ho cantato Tosca in diversi posti però all’Arena no. L’Arena è un posto difficile. Non è per tutti.

La magia dell’Arena in una qualche misura bisogna respirarla.
Sì, non solo quello. Però anche bisogna riempire l’Arena. L’Arena diventi così: piccolo. Invece è sempre questa paura, no?  Si vedrà, si sentirà, si capirà quello che faccio come ruolo? Perché in un teatro piccolo è sempre più facile. Però l’Arena ha bisogno di movimenti diversi di reazioni più grandi perché è l’Arena.

Lo spazio è ciò che fa la differenza.
Lo spazio. E poi ha questo carico, non solo di tutti quelli che hanno cantato lì, anche di tanta tanta tanta tanta storia, di questo Paese. Questa pietre parlano e sono lì da tanti anni. Se pensi a tutto quello che è successo lì, e lì stai a cantare, è veramente – quando hai finito, perché quando vai a fare l’opera non ti puoi fermare a pensare a quello perché allora rimani nel tuo camerino e non esci più, dal senso di paura – però quando hai finito e vedi tutto il mondo che ti applaude, allora dici “Madonna santa, è incredibile”. È veramente un’esperienza unica, perché non c’è un altro posto così, per cantare l’opera. Puoi cantare alla Scala, puoi cantare, però l’Arena è l’Arena. E quel senso lì, anche che trovi gente nell’Arena, è il rispetto, il silenzio, capisci che è gente che conosce l’opera fin da bambini, meglio di te. E questo ti dà un senso di rispetto e di, veramente, di diventare il veicolo del gran compositore che stai interpretando. Non sei tu la diva, è il compositore, quello che deve venire fuori. Se vieni fuori solo tu, non va. Deve venire il compositore. Tu sei al servizio di quello che ha scritto il grande Puccini. Ieri quando ho sentito Viva Puccini, per me è stata una della cose più scioccanti e più belle che ho sentito, perché quello là ha sentito Puccini. Ha sentito quello che gli ha trasmesso Puccini. Allora, come si dice: mision complida, secondo me.

Chi meglio di te in quel momento… Era parecchio, che inseguivi la possibilità di arrivare in Arena, no?
No, veramente. No, perché sono arrivata con Musetta però non pensavo che mi avrebbero chiamato per questi tipi di ruoli. Però, se potevo fare qualcuno, era Tosca, quello è vero, perché so che Benjamin Jader mi ha chiamata per fare Butterfly, però non ho voluto, perché io non l’ho ancora debuttata. Io non verrei all’Arena senza debuttarlo prima. Debuttare un ruolo nell’Arena, per me, io no. Devo debuttarlo prima, lo provo, mi va bene, e allora sì. So come è l’Arena e allora vengo all’Arena. Ma se no, no. La Tosca per il momento è l’unica cosa che vedo che posso fare. Aida potrò fare e potrò fare Madama Butterfly, però in un futuro, dopo che li ho debuttati.

Nell’immediato futuro, dicevi prima che hai Andrea Chénier.
Sì. Faccio Andrea Chénier, Manon Lescaut anche, però non so se loro fanno Manon Lascaut. Però i titoli dell’Arena sono sempre quelli: Nabucco, Aida, Madama Butterfly. Tosca la fanno ad anni alterni.  Io sono già felice, che ho già fatto una Tosca e ne ho altre due da godere. Veramente devo dire che da dieci anni fino qua mi godo ogni volta che esco al palcoscenico. È una gioia, cantare. È poi qualcosa che ho scoperto che è proprio curativa, per me. Fin da bambina, lo facevo già a sei anni, ho iniziato quando mio padre mi ha regalato un disco. Io ho cominciato a cantare, non sapevo, in una maniera istintiva. Lo facevo perché mi sentivo bene. Giocavo, e quando ero triste cantavo, quando ero contenta cantavo. Avevo qualcosa a che vedere con il mio stato d’animo. E allora, di là, sono riuscita a fare una professione di qualcosa che per me è una passione. Devo dire che non è così facile, arrivare a cantare così. Bisogna studiare tanto. E bisogna capire la voce, bisogna capire lo strumento, che è uno strumento vivo. Però una volta che hai capito, che segui le sue regole, non lo obblighi, lo ascolti, veramente ti può portare a cose molto grandi. A sentire cose fisiche anche, quando stai cantando, molto speciali. Per quello io dico sempre: non so quello che sta sentendo il pubblico, ma quello che sento io, quando canto. Questa musica grandiosa, che quando canti ti percorre tutto il corpo per uscire, è una cosa talmente organica, talmente forte, che dico: se loro sentono la metà di quello che sto sentendo io, sono già soddisfatta. Però, devo dire, sono egoista. Quella che gode sono io.

Tu non sei solo un’interprete. Sei molto di più. Tu lo vivi molto intensamente, e lo comunichi attraverso la tua arte, altrettanto intensamente.
Veramente, io mi sento così. Vorrei dire, che voi venite da Mantova, che per me Mantova è stata la genesi della mia carriera. Perché dopo il disco di mio padre, il mio primo professore, veramente Maestro, grande, italiano, che mi ha fatto capire non solo come si canta l’opera italiana, anche come si vive, come si sente l’opera in Italia, è stato il Maestro Ettore Campogalliani. Che sono stata cinque anni con lui. Cinque anni che per me, ho imparato non solo a cantare l’opera e lo stile italiano, se no anche a vivere e convivere con gli italiani, che è molto importante. Perché l’opera italiana è fatta da italiani e bisogna viverla come loro.

Saper capire l’italianità, l’amore per l’arte, la convivialità.
Ecco, si, sai, il bello, il buono del bello italiano, è unico. E il caffè, e ‘sta pasta, tutto è importante nella vita italiana. Campogalliani è stato il mio Maestro di canto però, tramite lui, ho conosciuto tanta gente, soprattutto a Mantova perché ero cinque anni lì, che veramente mi hanno accolta come una sorella, la Anna per esempio, come una figlia, la Nina. Ma, proprio mi hanno fatta diventare italiana. Io mi sento, capisco, gli italiani. Non mi trovo a disagio con gli italiani, mi trovo proprio come a casa. So le parolacce, pure, anche se sul palco…

Quelle magari non sono da palcoscenico.
No, però capisco anche il dialetto mantovano. Sì, sì, è molto importante. Poi io ricordo, perché ero amica di Anna e la Gazzetta di Mantova, assieme con la Anna, io l’aiutavo a portarla, perché lei lo faceva, delle volte, lo portava in giro e io la portavo con lei. Aiutava. Figurati, se ho l’istoria, con la Gazzetta di Mantova. 

Hai conosciuto queste potenzialità, fuori e dentro il palcoscenico. Ti manca solo un Rigoletto, a questo punto.
Eh, l’ho fatto, all’inizio della mia carriera ero Gilda. Perché io ho cominciato come soprano leggero, poi ero lirico leggero, poi ero lirico, e adesso sono soprano lirico spinto, spinto diciamo sul drammatico. Però secondo me è un percorso naturale, della voce. La voce, come ho detto prima, è uno strumento vivo e le persone maturiamo, cambiamo, come i vini, e la voce cambia.

Migliora.
Sì, se si è fatto bene tecnicamente tutto, se si è ascoltato la voce, non hai obbligato la voce, la voce in una maniera naturale, cresce. E quando arrivi a una certa maturità, puoi arrivare a questi ruoli, come dico io con una spinta di più di quello che ha bisogno il ruolo. Per me questo è molto importante.

Con una consapevolezza diversa.
Non solo, poi che io abbia come una cilindrata in più di quello che bisogno il ruolo. Una marcia in più. Perché quando hai una marcia in più di quella che ha bisogno il ruolo, puoi stare tranquillo, puoi cantare veramente. Puoi non solo cantare, puoi buttarti anche nell’attuazione. Quando arrivi proprio al ruolo giusto giusto giusto, sempre c’è, quando arrivi in palcoscenico, c’è sempre qualcosa che ti resta. È per quello che devi avere una cilindrata in più. Io, è il mio parere, io sempre esco con i ruoli che so che c’ho sempre una marcia in più.

Una marcia in più da poter spendere.
Sì, per poter essere tranquilla e poter buttarmi sul ruolo, sulla parte attorale che per me è molto importante.

Quel magnifico abito lungo rosso, ieri sera, eh?
Pesa, pesa.

È arricchito di elementi che lo impreziosiscono.
Devo dire che per questa Tosca ho approfittato che ero qua a Verona e ho lavorato con Rajna Kabaivanska. E lei è una grandissima Tosca, oltre che grande attrice.

Una personalità artistica molto forte.
E lei mi ha dato tanti di quei consigli. Soprattutto per la voce. Sai, le vocali, anche, devo dire. Brava. Mi è piaciuto tanto, lavorare con lei. E proprio volevo lavorare questo ruolo, volevo avere l’opportunità. Non è grande per niente. Raina è la gran Raina per qualche cosa. Perché è molto, molto preparata e lei sa benissimo come prepararti. Io sono del parere che noi dobbiamo imparare sempre. In questo mestiere devi imparare sempre. C’è sempre da imparare, c’è sempre qualcuno che ti può dare una pista, un qualcosa, un aiuto. Devo dire che lei è stata brava, molto brava per me.

Questo è tutto quello che abbiamo visto, abbiamo inteso, abbiamo compreso ieri sera, da Tosca. E in questo momento Ainhoa ci offre l’opportunità di questa lunga conoscenza. Quindi, tutto quello che tu hai materialmente preparato nei mesi scorsi, perché la preparazione di una Tosca non credo che riguardi un periodo particolarmente breve.
Io sono arrivata qua il 22, e ho lavorato il ruolo. Poi devo dire anche che la produzione di Hugo de Ana a me piace molto. Hugo de Ana in generale. Ho lavorato, con lui, ho fatto Simon Boccanegra e mi sono trovata da dio con lui. È uno dei grandissimi registi, e lavorare con lui, o con i suoi assistenti, che veramente sanno come trattare il cantante. Mi sono trovata benissimo. Però, sì, veramente quando devi lavorare con questi pezzi grandissimi intorno, e che devono sembrare che hai… invece di quella cappa che pesa, non so, ma venti chili di sicuro.

Era esposta al Museo per quello, visto che è un abito di valore.
Ma veramente pesa. Ma devi far vedere quasi come se fosse di seta, che vola. Non so. Devi, devi renderlo incorporeo. Proprio, una cosa che… fai fatica però. Va bene, dopo. E l’effetto scenico è fantastico.

Grande soddisfazione.
Sì, veramente

Il rapporto con gli altri artisti?
Molto buono. Io devo dire che ho sempre un grande rispetto per tutti i miei colleghi. Per tutti. Perché ormai io sono in questa professione già da ventisei anni, venticinque ho fatto l’anno scorso, ed è una professione che si fa per passione, non si fa per soldi.

Certo.
Ci sono tanti sacrifici che devi fare. Queste ore prime di uscire, tante ore di studio, di lavoro, di applicazione; solamente per quello, qualsiasi dei miei colleghi che si dedica a questo, merita il mio rispetto. Io di là, io sempre ho un rapporto molto buono e rispettoso con i miei colleghi, che meritano il mio rispetto per quello che fanno. Poi, ieri, con Ambrogio Maestri avevo già cantato al Covent Garden. Ho fatto Falstaff, che lui per me è il Falstaff migliore al mondo.

 D’elezione.
Cioè, lì non c’è un dubbio. Ho fatto Falstaff con tanta gente, però Maestri è Maestri.

Nomen omen.
Ecco, è il gran Maestri. E poi, anche vero, devo dire che più grandi sono, più umili sono, devo dire. Sono molto amica anche di Anna Netrebko. È una donna talmente semplice, talmente buona persona anche. Non ho problemi con loro. E Miscia (n.d.r. il tenore Mikheil Sheshaberidze; avrebbe dovuto esserci Murat Karahan) anche ieri che poverino ha dovuto sostituire all’ultimo momento, un ragazzo, molto bravo, che una sostituzione di ultimo minuto all’Arena non è facile. Però quando vedi un collega così, l’unico che puoi fare è aiutarlo al massimo, perché ti rendi conto della sua prova e ti devi mettere nei suoi panni. Penso io, io la penso così.

Noi siamo con te nel pensarlo, visto il modo in cui tu lo trasmetti, e questo è il punto fondamentale.
Sempre. Io cerco di, qualsiasi cosa succede, aiutare un collega quando è con me, o la posizione, o qualsiasi cosa succeda, perché può capitare. Sono capitate tante cose, ieri, nel palcoscenico.

È la diretta, è il vivo, dell’esibizione dal vivo.
È per quello che, per me, quando dicono che l’opera, no, l’opera non muore, non morirà mai. Prima perché, sempre dicono, il pubblico è vecchio. No no no, il pubblico è di una certa età. Però io sono del parere che l’opera è un’arte, come il classico, che cresce, nella persona. Io questo l’ho visto con i bambini. In Spagna hanno fatto tanti di questi lavori, che portano i bambini di scuola a vedere le prove. Quel bambino là, io l’ho visto a casa mia, vede la prova e lo affascina, normalmente a quell’età lì li affascina, però dopo hanno la sua età, del rap, hip hop, è normale. Ho una figlia di 16 anni che, sì le piace l’opera, però le piace andare in disko. Però quando arrivi ai 30 anni, che già hai vissuto tutte queste cose, della discoteca, del rap, di qua, di là, che hai una vita un po’ più assestata, che hai bisogno di qualche cosa nuova, che ti riempie di più, è lì dove entra il classico, dove entra l’opera. Perché c’è tanta gente che dice: perché io quando ero piccolo mi hanno portato, mio padre mi portava qua e là, e vai, amore, andiamo all’opera. E lì cominciano. Il nostro pubblico è dai 30 in poi. Ci sono anche tanti giovani che vanno, però è la minoranza. La maggioranza è da 30 in poi. Però l’opera non morirà, non può morire. Perché è qualcosa di vero. Ha la forza del vero; è per quello che questo dell’Arena è molto impressionante, perché si canta senza microfoni. È la vibrazione diretta dal cantante al pubblico. Qui non c’è nessun meccanismo, nessun artefatto, niente. È proprio vibrazione. E se arriva questo, quando si arriva a questa comunione col pubblico, questa è la cosa più forte che ci sia. Quando veramente senti che il pubblico sta sentendo quello che senti tu, è una cosa immensa… è unica. È come il teatro. Sì, puoi vedere il cinema, ma in teatro vedi l’attore, senti l’attore, proprio senti la sua vera voce, la sua vera intenzione. Tutto questo è straordinario, perché vero e vivo.

E la capacità interpretativa?
È la verità che vuoi trasmettere e che si ricorderà nel tempo del personaggio che hai interpretato.

Grazie Ainhoa per i tuoi valori e la tua presenza nell’arte. Ad majora, semper.

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