Cos’è questa rassegna, questo florilegio di dischi di jazz che m’è venuto in mente di abbozzare? Il meglio del meglio, il jazz che bisogna avere, i dieci (o cento, o mille) dischi che non possono mancare nella discoteca di ogni appassionato, le pietre angolari, i pilastri eccetera eccetera? No: di questi “The best of the best” ne ho visti a centinaia e sempre mi sembrava che mancasse qualcosa, o – viceversa – riscontravo qualche presenza improbabile, incongrua o francamente incomprensibile, almeno a mio giudizio.
E allora cos’altro sta prendendo corpo nella mia memoria e sulla pagina di questo documento? No: questa cosa allo stato nascente è molto più privata, confidenziale, sentimentale, sommessa.
Quelli che mi propongo di far riemergere dalla memoria (quasi una proustiana ricerca dei dischi perduti) sono un certo numero di titoli che hanno, in un modo o nell’altro, segnato la mia esperienza di ascoltatore, i segnalibri, i momenti speciali di un percorso di sessanta e più anni in rapporto quotidiano e ravvicinato con una musica che sta per toccare il secolo di vita: di solito infatti si fa coincidere la “nascita” del jazz con il primo disco registrato e cioè il “Tiger Rag” della Original Dixieland Jazz Band (17 agosto 1917). Questa supposta data di nascita è naturalmente piuttosto arbitraria, ma un significato lo ha: quello di ribadire l’importanza del supporto materiale (vinile, microsolco, CD) nella storia del jazz, musica spesso senza spartiti in cui l’improvvisazione gioca sempre un ruolo decisivo. Anche quando i musicisti suonano musica scritta diventa determinante la loro interpretazione, il suono, l’inflessione, il colore, il mood e altre caratteristiche distintive che penso sarebbe difficile indicare sullo spartito.
Il titolo che affiora per primo alla mente è un disco di Miles Davis, inciso il 19 maggio del 1953 per la casa discografica Prestige: “When Lights Are Low”, https://www.youtube.com/watch?v=nCR7lWMfLbo in quartetto con John Lewis al piano, Percy Heath al basso e Max Roach alla batteria.
Davis è vicino al suo ventisettesimo compleanno e ha già al suo attivo almeno due esperienze fondamentali: la lunga milizia nel quintetto di Charlie Parker (1945-1948) e la guida del complesso di musicisti che diede vita a un disco che definire fondamentale sarebbe un eufemismo, il celebrato “Birth of the Cool” inciso per la Capitol (1949-1950). Diffidiamo sempre delle etichette: il cosiddetto cool jazz è anche altro, e di sicuro non “nasce” solo negli studi di incisione della Capitol, ma ciò nulla toglie al valore storico ed estetico di quell’esperienza.
Negli anni successivi, citando in modo tanto casuale quanto arbitrario tra mille esperienze immortalate su disco, la colonna sonora del film di Louis Malle “Ascensore per il patibolo”, le incisioni in quintetto con Sonny Rollins e John Coltrane, quelle per grande orchestra sotto la direzione di Gil Evans, le più tarde incursioni nei territori del pop e del rock, non escluso un duetto, udite udite, con il nostrano Zucchero Fornaciari (ma non ditelo a nessuno…).
Meglio tornare al nostro disco: è un brano relativamente breve (3 minuti e 25 secondi) composto di Benny Carter, un grande maestro dell’era dello swing. La prima comparsa di questo titolo su disco risale a una seduta londinese di Carter, ma la versione più celebrata è quella incisa da Lionel Hampton con uno straordinario complesso di “All Stars” l’11 settembre del 1939. In quell’occasione erano della partita, tra gli altri, Dizzy Gillespie alla tromba, Benny Carter stesso al sax alto, Coleman Hawkins, Chu Berry e Ben Webster al tenore, Charlie Christian alla chitarra e Lionel Hampton al vibrafono. E scusate se è poco. A proposito: l’ascolto ravvicinato di queste due versioni dello stesso brano potrebbe rappresentare una testimonianza molto istruttiva di quanto sia ampia la gamma di interpretazioni possibili sullo stesso canovaccio. Tanto è risonante, eccitata ed eccitante quella del 1939, tanto è contenuta, pudica e tenera, quella di cui stiamo parlando.
Negli studi Prestige quel 19 maggio del 1953, Davis convince il produttore della seduta che si tratta di un brano di sua composizione; la gaffe venne evitata e il nome dell’autore reale fu correttamente citato sull’etichetta.
A questo punto, senza esagerare in tecnicismi, conviene forse precisare che i veicoli principali, le strutture utilizzate più frequentemente dai jazzmen per le loro improvvisazioni sono due: il blues, di norma su uno schema di 12 misure, e la canzone che di misure ne ha 32. Quattro segmenti di otto misure ciascuna, di cui la prima, la seconda e la quarta seguono la stessa traccia melodica, mentre la terza (il bridge, o ponte) se ne distacca: uno schema A-A-B-A.
In quell’occasione nessuno si ricordava il bridge originale e Miles ne inventa uno in studio, non così interessante, a dire il vero, come l’originale. Si limita infatti a ripetere su una tonalità diversa le otto misure del tema. Ma anche questa apparente monotonia, questo movimento pacato e composto al limite della prevedibilità e della rinuncia, contribuisce a creare il fascino speciale che per me questo disco continua ad emanare.
Al di là dei sentimenti di un vecchio appassionato, non parve un disco memorabile alla critica: nel booklet che accompagna la ristampa in cofanetto di tutte le registrazioni di Davis per la Prestige, ci si limita a dire che “Miles è delicato, Lewis ha un solo tipicamente pensoso e sobrio.” Nell’ottimo libro “Miles Live e in studio” di Richard Cook, edito in Italia da Il Saggiatore, viene descritto come un brano “di insolita intensità”. In un altro studio monografico, “Miles Davis” di Michael James, non se ne parla proprio e neppure nei vecchi “Antologia del Jazz” e “Jazz in Microsolco” dell’italiano Livio Cerri, ne troverete menzione. La monumentale “Penguin Guide to Jazz Recordings” assegna al CD che contiene il nostro titolo 3 stelle su 5 e definisce la seduta come “a merely good session”, niente di più.
Eppure, eppure… ascolto ancora una volta il “mio” disco.
C’è una introduzione un po’ impettita del pianoforte