Gli undici Musei veneziani della Fondazione MUVE custodiscono centinaia di migliaia di pezzi: dipinti, disegni, sculture, fotografie, cimeli, e sono essi stessi opere d’arte architettonica. Ogni opera, di qualsiasi genere, stile, tempo e materia porta con sé una storia, e anche di tutte queste storie è fatta Venezia. La Fondazione Musei Civici di Venezia sta reagendo a questi tempi portando il suo patrimonio nelle case di chiunque voglia godere dei suoi tesori, con l’adesione alla campagna nazionale diffusa #IoRestoaCasa e con tutti i suoi mezzi.
I canali social: Facebook, Twitter, Instagram, YouTube; una newsletter giornaliera per chiunque ne faccia richiesta; la partnership con Google Culture, attiva da tempo, con la presenza delle sedi museali e delle loro collezioni nel canale Google Arts & Culture; le proprie risorse da sempre on line: i bollettini scientifici e il catalogo on line delle collezioni; informazioni e narrazioni sulle proprie collezioni a disposizione di chi voglia riscoprire qualcosa che già ha conosciuto e di chi sta già preparando una visita futura.
L’Italia è a casa e i suoi abitanti stanno riscoprendo il piacere che solo la cultura può donare. Un piacere che è scambio, condivisione, narrazione e quindi trova nei social e nella comunicazione elettronica un veicolo ideale in questi tempi di distacco fisico forzato. Da sempre con la cultura si viaggia nel tempo e nello spazio, pratica in cui i musei sono da sempre maestri.
Nel sito www.visitmuve.it trovate tutti i link ai nostri musei e ai loro social e il modulo di iscrizione alla newsletter. C’è solo l’imbarazzo della scelta: Palazzo Ducale, Museo Correr, Torre dell’Orologio, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento Veneziano, Ca’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Palazzo Fortuny, Museo di Storia Naturale di Venezia Giancarlo Ligabue, Casa di Carlo Goldoni, Museo del Vetro a Murano, Museo del Merletto di Burano, Museo di Palazzo Mocenigo Centro Studi di Storia del Tessuto del Costume e del Profumo.
LA PORTA DELLA CARTA A PALAZZO DUCALE
Splendido esempio di gotico fiorito veneziano. Ai due lati dell’ingresso, nelle nicchie dei pilastri, sono collocate le personificazioni di quattro virtù cardinali, oggi più attuali che mai: la Prudenza, la Fortezza e la Temperanza, insieme alla Carità. Costruito fra il 1438 e il 1442 da Giovanni e Bartolomeo Bon, il grande portale gotico era nel XV secolo l’ingresso monumentale del Palazzo. Il suo nome deriva probabilmente dalla presenza sul luogo di scrivani pubblici, o dal fatto che nelle vicinanze si trovassero depositi di archivi di documenti.
Oggi corrisponde all’uscita del museo e dalla sua apertura si intravede con prospettiva scenografica la scala dei Giganti, che si trova in asse con il porticato Foscari. La Porta della Carta fu eretta, con l’ala di palazzo fronte Piazzetta, sotto il dogado di Francesco Foscari, in carica dal 1423 al 1457, che è rappresentato in ginocchio davanti al leone di San Marco al centro del portale monumentale.
Sono giorni difficili anche per voi cari bimbi: vorreste uscire, vi mancano i compagni di scuola, le attività sportive e ricreative… Ci sentiamo tutti un po’ in “gabbia”, ma è un sacrificio che dobbiamo fare ora insieme. Ci mancate tanto e non vediamo l’ora di rivedervi colorare di sorrisi le sale dei nostri musei.
Questa bellissima illustrazione di Palazzo Ducale è un piccolo regalo per voi. Stampatela, coloratela come più vi piace e se volete mandateci le foto dei vostri lavori (cliccate sull’immagine per entrare nel nostro profilo Facebook), saremo felicissimi di condividerle, aggiungendo magari qualche sorpresa.
LA STATUA DELLA BEATA VERGINE DELLA SALUTE
Nelle stanze di Palazzo Ducale si cela una grande statua di legno di cui non tutti sanno la storia. È in realtà la Madonna della Salute, proprio quella che stava in cima alla Basilica del Longhena, eretta in stile barocco come ex voto al termine della peste che nel 1630/31 decimò la popolazione veneziana, e terminata nel 1687.
La statua che ora è al Ducale è stata in cima alla Basilica fino a circa il 1870, quando fu rimossa in un piano più ampio di lavori di riparazione dei danni provocati da un forte uragano nel 1859. La mano destra dell’originale Beata Vergine, scultura attribuita a Francesco Cavrioli, impugnava il bastone di comando del Capitano da Mar, come un condottiero per la Repubblica Serenissima allora in guerra, e i piedi poggiavano su una mezzaluna con le punte in su. La nuova statua fu scolpita con le stesse dimensioni, “alta metri 3,32 e della massima circonferenza di metri 2,70”, e ricoperta come l’originale di lastre di rame, saldate e infine dipinte “a prima mano di minio e tripla mano ad olio tinto bronzo”.
Fatta la sostituzione, la seicentesca scultura lignea fu portata dall’allora Amministrazione Sabauda a Palazzo Ducale, che ospitava la Biblioteca Marciana e il museo Archeologico, dove oggi “ci appare e ci sorprende assolutamente fascinosa per una sua estraniante scomposta bellezza vicina ad altre opere scultoree di grandi Maestri del Novecento”, come scritto nell’ultimo Bollettino dei Musei Civici di Venezia, che ne racconta l’avvincente storia.
IL PUZZLE DEL FORTUNY!
Ieri vi abbiamo proposto un gioco da fare con i più piccoli, quello di oggi piacerà anche ai grandi. Un grande classico per quando si resta a casa è il puzzle, e da Palazzo Fortuny arriva l’idea di comporre i pezzi elettronici per ottenere le immagini delle opere custodite dalla casa museo. Con pochi pezzi per chi sta ancora imparando, che aumentano per chi voglia cimentarsi con composizioni più complesse, con fotografie e dipinti straordinari per tutti. Buon divertimento!
E se volete conoscerlo meglio, per rivederlo se già lo conoscete o per prepararvi a una visita futura, vi ricordiamo che anche Palazzo Fortuny è su Google Arts & Culture con esposizioni on line, interni, visite virtuali, storie del Palazzo e della famiglia Fortuny e delle loro collezioni e invenzioni per centinaia di immagini. Buona visita!
UN FANTASMA PERCORRE L’EUROPA
Armando Pizzinato è nel 1930 a Venezia allievo ventenne di Virgilio Guidi all’Accademia di Belle Arti, fa le sue prime mostre a Milano dove diventa amico di Afro Basaldella e dei fratelli Dino e Mirko, friulani come lui, e va a Roma dove frequenta gli artisti della Cometa, Capogrossi, Mafai, Guttuso. La guerra lo riporta a Venezia, nella Resistenza si chiama Stefano e ha casa dietro lo squero di San Trovaso, dove in soffitta organizza la stamperia clandestina. Con l’amico e compagno Emilio Vedova è nel 1946 tra i fondatori del Fronte Nuovo delle Arti, che entra nella scena internazionale alla Biennale del 1948, dove Peggy Guggenheim acquista il suo Primo maggio, oggi al MOMA di New York. Il celebre grande dipinto Un fantasma percorre l’Europa (in realtà un trittico) venne esposto dopo lo scioglimento del Fronte alla XXV Biennale del 1950 e oggi è parte della collezione permanente della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro. Pizzinato ci ha lasciato nel 2004, gli ultimi quadri li ha dipinti nel giardino della casa studio accanto alla Basilica della Salute.
Sono anni in cui gli artisti sono chiamati a scegliere tra astrazione e realismo, tra borghesia e lotta di classe. Armando Pizzinato è stato un pittore realista, un artista che non ha rinunciato alla figura e alla narrazione ma capace di superare ogni scolastica contrapposizione. Nei suoi dipinti c’è continuità tra il lirismo del suo riconosciuto maestro Guidi, la sintesi di cubismo e futurismo, l’interesse per il costruttivismo. La realtà della vita e della fatica quotidiana non uccidono la poesia, ne fanno parte. Come diceva lui stesso tutti i suoi problemi di pittore sono stati sulla linea e sul colore: “Un rosso che dica che l’uomo è vivo. Un bianco, un giallo, un verde che dicano che l’uomo è vivo qui sulla terra”.
Anche la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro è partner di Google Arts, dove si possono sfogliare le opere della collezione permanente. . Qui sotto un particolare di Europa 1950 di Emilio Vedova
Questa storia arriva anche oggi dai Servizi Educativi dei nostri Musei e parla dei tagiapiera, una delle corporazioni che contava più addetti a Venezia. Sin dalle origini, ma in particolare dal Rinascimento ai primi decenni dell’Ottocento, il marmo, resistente all’acqua e al salso, venne ampiamente impiegato nell’edilizia cittadina, a consolidamento delle fondamenta degli edifici, nella statuaria esterna di chiese e palazzi e nel rivestimento che caratterizza molti campi, fronti di canali e calli. Con l’impoverimento di Venezia, dopo la caduta della Repubblica Serenissima nel 1797 e con le successive dominazioni straniere, ebbe il sopravvento l’uso più sobrio ed economico del mattone e dell’intonaco.
Il mestiere faticoso del tagiapiera conferì a Venezia una veste architettonica ricca e fastosa che la continua necessità di manodopera impose a quest’Arte, a differenza delle altre corporazioni, di accettare tra i suoi confratelli anche lavoranti “foresti”, provenienti prevalentemente da terre lombarde, svizzere e centroeuropee. Questa tendenza si affermò particolarmente nei periodi in cui la città venne colpita da gravi pestilenze, come quelle del 1576 e del 1621.
Questo bellissimo leone marciano in moleca (si dice del leone che regge il libro come un granchio) della fine del XIII secolo si può ammirare al Museo Correr nelle sale dedicate alle Arti e mestieri.
CHIMERE, BASILISCHI E UNICORNI
La natura è meravigliosa, ma può diventare spaventosa. Lo sapevano bene anche gli antichi confezionatori di chimere e basilischi, che componevano pezzi di animali diversi, con l’aggiunta talvolta di occhi di vetro, per creare mostri. Nel Museo di Storia Naturale di Venezia Giancarlo Ligabue ne sono conservati due esemplari, in spazi ispirati dalle Wunderkammer, le cinquecentesche “camere delle meraviglie” costruite nelle abitazioni di ricchi nobili collezionisti e di qualche studioso. Non di rado vittima di truffatori, come raccontò anche Carlo Goldoni nel suo La bottega dell’antiquario, con il conte Anselmo buggerato da Arlecchino e Colombina che travestiti gli vendono finti fossili in cambio di zecchini d’oro, e pure gli animali fantastici erano ceduti a peso d’oro.
La chimera del Museo che somiglia a una sirena è di difficile datazione e provenienza sconosciuta: inizialmente venne descritta come “torso di scimmia unito a una coda di pesce”, ma recenti interventi di restauro hanno rivelato una natura più complessa, con parti in legno, peli e unghie di mammifero e parti diverse di pesci.
Il basilisco invece è composto a partire da un pesce angelo di piccole dimensioni, molto usato in quest’arte mistificatoria con altri pesci cartilaginei, come la razza chiodata. Il suo autore parrebbe essere Leone Tartaglini, celebre cinquecentesco imbalsamatore e ciarlatano di origini toscane che visse a Venezia, dove pubblicò anche due libelli (oggi conservati alla Marciana) e produsse la polvere corallina, usata come vermifugo, per la quale ricevette nel 1563 la licenza dei provveditori alla Sanità.
La moda della collezione di oggetti naturali esotici e bizzarri dei secoli XVI e XVII faceva accogliere anche l’inverosimile, per poter sfoggiare reperti esclusivi, ma già da allora ci furono dubbi sulla loro veridicità. Mentre su oggetti reali si creavano leggende, come per il dente del narvalo, anche questo nella collezione del Museo di Storia Naturale con pezzi di diverse misure e provenienze, che fino al Settecento si credette fosse il corno dell’Unicorno.
Anche il Museo di Storia Naturale di Venezia Giancarlo Ligabue è visitabile in Google Arts & Culture con tour virtuali e il Museo delle Emozioni.
Dato che abbiamo parlato di Carlo Goldoni riportiamo la storia pubblicata in questi giorni nel profilo Facebook della Casa di Carlo Goldoni.
Marzo è anche il mese delle donne, e questa è una donna speciale. Il suo nome era Lola Lorme (1883-1964) e la sua storia è una di quelle che non bisogna mai dimenticare. Nota studiosa e traduttrice goldoniana, le venne rifiutata la donazione di libri e carte alla biblioteca di Casa Goldoni perché ebrea. Fu una scritta con matita blu apposta direttamente da Mussolini sulla richiesta già approvata dal Ministero dell’Interno, direzione Generale per la demografia e la razza, a impedire qualsiasi ricorso. La scritta dice: “Niente”. Era il settembre del 1939.
Per i più piccoli oggi i nostri Servizi Educativi annunciano un concorso (da consultare sul profilo facebook). Ancora top secret quello che succederà (si sa solo che ci sarà una super sorpresa per il vincitore) ma segnatevi la data del 20 marzo!
Vogliamo farvi conoscere, in un modo diverso e divertente, i tesori conservati nei nostri musei. Protagonista di questo mese è il Museo di Storia Naturale di Venezia Giancarlo Ligabue: lo conoscete? L’avete visitato?Pensate un po’: il patrimonio scientifico del Museo consta di oltre 2 milioni di pezzi!
Molte raccolte hanno origine da ricerche naturalistiche in ambito locale e rappresentano la memoria storica del territorio. Altre, che per la maggior parte provengono da donazioni, sono invece frutto di viaggi e spedizioni alla scoperta di terre sconosciute e hanno carattere paleontologico, etnologico, antropologico, geografico. Partendo dalle proprie collezioni e da un continuo lavoro di ricerca in ambiente ed in laboratorio, il museo svolge numerose attività promuovendo la partecipazione attiva della cittadinanza.
VIAGGIARE, DISEGNARE… E COSTRUIRE!
Venezia è la città più disegnata, dipinta, filmata e fotografata del mondo, da secoli. Oltre che approdo di estimatori e visitatori è stata però da sempre (si pensi a Marco Polo, forse il veneziano più famoso al mondo) anche casa e punto di partenza di grandi viaggiatori e esploratori e avventurieri veneziani. Alcuni di loro ci hanno lasciato fenomenali taccuini di viaggio, anche se non erano artisti, ma sempre eccellenti disegnatori. Come Antonio Paravia, ufficiale della Serenissima Repubblica che imbarcato sui vascelli della marina da guerra visitò gran parte del Mediterraneo orientale e centrale e compilò così, negli anni che vanno dal suo arruolamento del 1754 fino al 1797, un monumentale Mio portafogli di viaggi, osservazioni e memorie e frammenti historici del mio tempo. In centinaia di pagine divise in sei corposi volumi si trovano testi, immagini e curiosità: storia antica, commerci, oggetti, usi e costumi, arte, zoologia e geografia. Quasi assenti le note personali e biografiche di questo militare umanista, erudito e curioso, le sue immagini a china e acquerello rappresentano luoghi, avvenimenti e cartografie, urbane e militari. Incredibilmente, nulla di Paravia è stato pubblicato fino alla recente scoperta del suo lavoro. Il suo straordinario portafogli è patrimonio del Museo Correr grazie alla donazione dei suoi eredi nel tardo Ottocento.
Quella dei taccuini di viaggio, i carnet de voyage, è pratica antica e diffusa, lo è stata soprattutto dal XVII secolo, sull’onda del Grand Tour, il viaggiare in Europa e soprattutto di Italia di intellettuali e aristocratici. Negli anni in cui Paravia navigava agli ordini del Capitano da Mar in Italia e a Venezia si aggiravano Johann Wolfgang von Goethe e William Turner. Un trentennio dopo sulle sponde del Canal Grande prendeva i suoi appunti Jonh Ruskin per il suo magnifico The Stones of Venice. E l’artista e patriota Ippolito Caffi, veneziano d’adozione e perennemente in viaggio, andava da Roma a Napoli e da Atene a Costantinopoli per poi partecipare all’insurrezione veneziana contro l’Austria e infine seguire l’esercito garibaldino, sempre compilando taccuini ora conservati nel Gabinetto dei disegni e delle stampe dei Musei Civici. Solo per fare un paio di esempi.
Architetti, artisti, naturalisti avevano l’esigenza di compilare raccolte utili per il proprio lavoro, altri semplicemente amavano appuntare le loro impressioni e rappresentazioni di scorci, opere d’arte, paesaggi, bellezze. Opere d’arte di gloriose firme o semplici appunti di militari o mercanti, viaggiatori e esploratori, sono oggi documenti straordinari e unici per la storia dei luoghi, dei popoli, delle città, del costume delle epoche, furono alla loro creazione il modo di portare il mondo allo sguardo di chi non poteva viaggiare.
L’immagine (in alto) è un disegno di Antonio Paravia del porto della Valletta nel 1785.
Oggi la carta è protagonista anche dell’invenzione dei nostri Servizi Educativi per i più piccoli. Avete mai fatto un libro pop up? È semplice e divertente e qui ci sono istruzioni, tutorial e modelli già pronti da stampare e incollare.
Cina chiama Venezia! Torino chiama Venezia! Cari bimbi la nostra missione contro quel monello di un microbo sta diventando sempre più importante: due nuovi alleati sono dei nostri! Ora aprite bene le orecchie e ascoltate i comandi di battaglia.
Nelle scorse settimane Guan Zhongping, Capitano d’Oriente, ha invitato i bimbi cinesi con i loro genitori, chiusi in casa proprio come noi, ad affinare le proprie armi. E come? Costruendo dei bellissimi libri animati che raccontano tutti i segreti per combattere il virus.
Guan ci ha passato le istruzioni ed ora con l’aiuto dell’esercito del MUSLI – Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia e del tenente Massimo Missiroli, abbiamo a disposizione modelli e tutorial per creare le nostre tavole pop-up. Non ci resta che metterci subito al lavoro! I modelli si scaricano nel sito dei Servizi Educativi del Muve.
Se volete condividere le vostre opere pop up, o vedere quelle degli altri, o saperne di più, andate nel profilo Facebook dei Servizi Educativi MUVE
TUTTI NELL’ALCOVA… CON LE FAVOLE AL MUSEO
Nel Settecento si diffondono, anche a Venezia, le alcove. Se ne trovano nei piani nobili dei palazzi, precedute da grandi anticamere con funzione di salotto, e nei piani ammezzati, dove vengono creati salottini, camere, boudoir, piccoli appartamenti a uso esclusivo dei membri della famiglia (anche il termine “tinello” risale al ‘700). Dal XVII secolo è aumentata la mescolanza di ceti e persone per la diffusione di luoghi pubblici di socialità come caffè e teatri, nello stesso tempo i singoli componenti delle famiglie, le donne, i figli, hanno iniziato a guadagnare autonomia, e i nuclei familiari coabitanti sono aumentati.
A Venezia nel Settecento non si costruisce molto, si sviluppa invece l’edilizia delle ristrutturazioni. Necessità e abitudini dei patrizi veneziani si sposano al diffondersi dell’uso di trattati di architettura privata francesi, a cui si deve l’espandersi delle abitazioni nei piani ammezzati, e italiani, in particolare quelli di Sebastiano Serlio. Le alcove, che venivano spesso costruite in occasione di nozze, sono spazi confortevoli e lussuosi anche se privati, con dipinti, arredi e decorazioni e salottini collegati, come guardaroba e toilette e studioli, lontani però da visitatori e domestici non richiesti e spesso collegate a accessi propri.
Il Museo del Settecento a Ca’ Rezzonico ospita un’alcova che proviene da Palazzo Carminati a San Stae, che risale alla seconda metà del Settecento. In legno intagliato bianco avorio, ha due porticine che portano a due corridoi paralleli e rispettivamente a un prezioso servizio da toletta e a un boudoir finemente decorato. Il letto ha una testiera decorata a tempera, sovrastata da un delizioso pastello di Rosalba Carriera.
L’alcova di Palazzo Mocenigo fu invece lì costruita nel 1787 durante i lavori di ristrutturazione disposti da Alvise Mocenigo, probabilmente per il matrimonio del figlio con Laura Corner, ed è oggi la sala lettura della Biblioteca del Centro Studi di Storia del Tessuto, del Costume e del Profumo. Molte alcove sono ancora presenti nei palazzi di Venezia, alcune sono andate perdute, altre sono state trasferite: l’alcova di Palazzo Sagredo è al MOMA di new York dal 1906.
Anche il Museo del Settecento Veneziano di Ca’ Rezzonico è in Google Arts & Culture per un giro imperdibile in tutte le sale [il funzionamento è quello di Street View] e una formidabile galleria di immagini, con percorsi dedicati.
IL GIOCO E L’AZZARDO
Venezia si è guadagnata molto presto la fama di capitale del gioco. Già dal Quattrocento era uno dei primi produttori di carte da gioco, si ha notizia di una prima fabbrica aperta nel 1391, e nel 1638 fu la prima città ad aprire un luogo pubblico dove poter giocare d’azzardo, il celebre Ridotto a San Moisè, nel Palazzo Dandolo (venne chiuso nel 1774). I giocatori, nei ridotti, nelle case e in campo, furono molto rappresentati e narrati, basti ricordare i quadri di Francesco Guardi e di Pietro Longhi oggi al Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico o le opere di Goldoni, di cui resta testimonianza nel Museo della Casa di Carlo Goldoni.
Tra i giochi d’azzardo più diffusi, assieme a carte e dadi, si trovano il biribiss, la bassetta, lo sbaraglino, il gioco reale e il gioco della mea. La bassetta era un gioco di carte, con un banco e tre giocatori, lo sbaraglino è l’antenato del backgammon, biribiss e gioco reale sono simili alla roulette, con giocatori che puntano sul quadrato di una tavola o un telo da gioco e un’estrazione, anche il gioco della mea, con la punta di una freccia rotante che casualmente sceglie in un cerchio di immagini, è basato su puntate e casualità.
Il gioco ha fatto parte del costume per secoli, nella Venezia cosmopolita e dei mercanti dove anche alcuni Dogi, e le loro consorti, furono celebri giocatori. Restano molti materiali, oggi conservati dal Museo Correr, con giochi da tavolo, solitari, giochi di pazienza, di bambini o di adulti. Alcuni, bellissimi, visibili in un breve video del museo.
Non c’era infatti sicuramente solo il gioco d’azzardo. Esemplare fu ad esempio l’opera di Giovanni Palazzi, stampatore e produttore di carte da gioco che creò una serie dedicata a famose donne veneziane, raccontando così, quasi le carte fossero un mezzo letterario, una singolare storia di Venezia. Anche il suo La virtù in giocco, ovvero Dame Patrizie di Venetia famose per nascita, lettere, per armi, per costumi del 1681 è patrimonio del Museo Correr.
Per la festa del papà, i Servizi Educativi ricordano una persona speciale per tutti noi: Teodoro Correr, “papà” delle nostre collezioni.
Nobile di antica famiglia veneziana, collezionista attento ed entusiasta, Teodoro Correr ha vissuto la sua passione in un momento particolarissimo: gli ultimi anni della Repubblica di Venezia e quelli successivi delle dominazioni straniere furono facili per il commercio antiquario, data la disponibilità di oggetti, opere d’arte, biblioteche e collezioni in svendita. In questo contesto Correr riuscì ad accumulare una quantità incredibile di materiali, con tutti i mezzi, qualche volta con pochi scrupoli, qualche volta con poca attenzione critica, spesso con mano felice e intuito fine, certo con originalità.
Alla morte, avvenuta nel 1830, egli donò a Venezia la sua raccolta d’arte, assieme al Palazzo a San Zan Degolà in cui era custodita, e ulteriori risorse destinate a conservare e incrementare la collezione che da lui prende il nome e che costituisce il nucleo fondante del patrimonio della Fondazione Musei Civici di Venezia.
FINESTRA O SPECCHIO?
Venezia è una città di pietra che sorge nell’acqua, con attorno isole che sono il suo orto, mentre il leone che la rappresenta poggia due zampe in terraferma. Un ambiente urbano unico e complesso e variabile abitato da specie volatili di tutti i tipi: gabbiani e piccioni, colombacci e pettirossi, cormorani e cinciallegre, ghiandaie e tortore, passeri e cornacchie, merli e scriccioli, rapaci e fringuelli.
Il Museo di Storia Naturale di Venezia intitolato a Giancarlo Ligabue, pubblica un Atlante ornitologico che mappa la presenza degli uccelli di Venezia, che periodicamente va aggiornato. Ora vuole farlo con l’aiuto di chi vive in questo meraviglioso territorio, in particolare osservando le aree urbane. Si chiama citizen science, è un’attività scientifica in cui cittadini e appassionati raccolgono dati e osservazioni che vengono poi condivise con ricercatori e scienziati.
È primavera, è iniziato il periodo della nidificazione. Ora siamo tutti chiusi in casa, quindi l’aiuto che sarà possibile dare è quello delle osservazioni dalla finestra, dal balcone, dall’altana. Che affacciano su tetti, cortili, spiazzi, aree verdi, che senza il normale traffico umano e urbano si popolano forse ancora di più di uccelli di tutti i tipi. Giriamo l’obiettivo, invece di fare selfie fotografiamo e raccontiamo quello che vediamo da qui. Poi lo mandiamo ai ricercatori del Museo.
Il monitoraggio della biodiversità urbana del progetto Uccelli di città serve a portare dati ai ricercatori, ma anche a incentivare l’osservazione e la conoscenza delle specie che vivono in città e una maggiore sensibilità dei cittadini verso i temi ambientali. Anche la scienza come l’arte è cosa viva, e tutte le persone sono chiamate a contribuire, ognuno secondo le proprie inclinazioni e possibilità.
Chiunque può partecipare, osservare, registrare e possibilmente fotografare o riprendere in video qualsiasi specie di volatile, da quelli più comuni a quelli più rari, e i suoi comportamenti, fino all’estate 2021.
“Colà è ora apparsa, scostando i rami della siepe fiorita, una giovane donna di suprema bellezza” Richard Wagner, Parsifal, Atto 2
La scena ispirò l’opera di Mariano Fortuny, uno dei 47 dipinti del suo ciclo wagneriano, che il Museo Fortuny ha scelto per salutare la nuova stagione e sfidarvi con un nuovo puzzle da 54 pezzi, per i più audaci, ma con le opere del Fortuny fatte a puzzle si possono cimentare tutti, grandi e piccini, anche con composizioni più semplici. Si trovano scorrendo il profilo Twitter del Museo.
Per i piccoli restare a casa in queste giornate è complicato. Questo bel bambino è addirittura intrappolato in un quadro! Sta dietro al doge Andrea Gritti in un dipinto di Tintoretto, è un ballottino. Uno di quei bambini che venivano scelti dai membri più giovani del Maggior Consiglio in piazza San Marco per fargli estrarre a sorte una balota dall’urna, nell’elezione del Doge che si svolgeva anche con estrazioni a sorte. Questa bella storia è raccontata nell’account Facebook di Palazzo Ducale.
VENEZIA IN BIANCO E NERO
Una Venezia vuota, sospesa, straniante, spettrale, dove negli occhi entra anche il silenzio. È la Venezia degli scatti di Carlo Naya, che l’ha fotografata dal 1857, quando qui arrivò da Pisa. Il suo studio fotografico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento è uno dei più importanti a Venezia e in Italia, con un mercato internazionale. Con banchi ottici di grande formato Naya fotografa tutto il fotografabile: vedute, architetture, scorci, opere d’arte, scene di vita cittadina. Compone negli anni un vero “censimento visivo”, che diventa un archivio prezioso delle ricchezze architettoniche, ambientali e artistiche della città e della sua laguna e un pezzo di storia della fotografia.
Nei primi scatti la figura umana è rara, dati i lunghi tempi di posa necessari, con l’evolvere della tecnica le fotografie si popolano. Naya fotografa per i veneziani, che nei suo scatti trovavano la loro città, per gli studiosi e gli artisti, che hanno così a disposizione veri cataloghi di opere, per gli stranieri e i viaggiatori, che vi ritrovano l’immaginario della tradizione iconografica e la memoria dei luoghi che hanno visitato. Carlo Naya ha una profonda cultura artistica e grande abilità tecnica, le sue fotografie richiamano sia la tradizione vedutista veneziana che l’innovazione fotografica del tempo (negli stessi anni Nadar fa le sue prime foto aeree).
Carlo Naya, piemontese di nascita, laureato in legge a Pisa, viaggia in Italia, Europa, Egitto e Medio Oriente (il suo primo studio fotografico lo aprì a Costantinopoli) e si insedia infine a Venezia. La Ditta Naya ha la sua prima sede in riva degli Schiavoni, con un laboratorio in campo San Maurizio, dopo il 1867 il negozio è in piazza San Marco. Conquista medaglie alle Esposizioni Internazionali, i suoi cataloghi sono tradotti, ha corrispondenti da molte capitali europee, è anche il fotografo del re, con l’esclusiva per la ripresa dei grandi eventi a Venezia. Muore nel 1882, la Ditta resta aperta fino al 1918, parte del suo archivio è ceduto a Osvaldo Böhm. Il fondo Naya dei Musei Civici fu ceduto da Böhm e acquistato dal Museo Correr nel 1941, ci furono poi altre acquisizioni e donazioni. Una parte del fondo è stata trasferita a Palazzo Fortuny, oltre 1000 originali sono stati ordinati e digitalizzati e l’intera storia si può leggere nell’ultimo Bollettino MUVE. Molti scatti si trovano anche nel Catalogo on line dei Musei Civici.
Per restare nella Venezia in bianco e nero, segnaliamo che in questo periodo l’Archivio Luce ha aperto i suoi archivi. Dentro c’è la storia della città e della laguna, e pezzi di storia dei nostri Musei. Fra i quali si possono segnalare la Visita al Museo del Settecento Veneziano presso il Palazzo Rezzonico del 1936 e l’assegnazione qui nel 1957 dei Premi Olivetti di Architettura e Urbanistica (con Bruno Zevi, Giuseppe De Logu, Carlo Scarpa, e Adriano Olivetti, per il quale la cultura aveva un ruolo chiave anche nell’industria). Un servizio del 1952 sul Centro Studi Goldoniani, l’attuale Museo di Casa di Carlo Goldoni, per i 250 anni dalla nascita del commediografo, con la presenza del Capo dello Stato Giovanni Gronchi. Un filmato muto del 1932 che mostra probabilmente una inaugurazione del Museo del Vetro, nato nel 1861 e acquisito da Venezia nel 1923 con l’annessione di Murano, dopo il suo riordino seguito al trasferimento dei vetri del Correr appunto nel 1932.
Particolarmente curiosi sono diversi servizi sul Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Palazzo Grassi, il cui patrimonio fu acquistato dal Comune di Venezia nel 1985 e entrò, con le collezioni di Vittorio Cini e le raccolte tessili del Museo Correr e del Museo del Settecento di Ca’ Rezzonico, nel Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume (oggi anche del Profumo) di Palazzo Mocenigo nato nello stesso anno. Segnaliamo qui un appuntamento istituzionale del Centro in un servizio del 1969 con una curiosa sfilata e un godibilissimo vivace servizio del magazine tv Radar del 1970 sulla kermesse Moda Sintesi che si conclude con una Venezia finalmente a colori.
MURRINE E MILLEFIORI
Il vetro ha storia antica, millenaria, durante la quale ha conosciuto molteplici usi, forme e tecniche, dalle sue origini in Siria alla sua diffusione nell’Impero romano, alle meraviglie settecentesche, al design contemporaneo. Il vetro muranese nasce intorno al Mille, e nel XIV secolo la produzione è già ben avviata, nell’isola si contano almeno 12 vetrerie. A metà del Quattrocento conquista la leadership, grazie anche al declino della produzione islamica, è il momento in cui Angelo Barovier inventa il vetro cristallino, e per tutto il Cinquecento è un fiorire di virtuosismi e forme bizzarre, con le decorazioni a mano volante (libera), incisioni a punta di diamante, il vetro ghiaccio, le filigrane, la leadership veneziana e muranese è indiscussa.
Nel Seicento i vetrai muranesi cominciano a viaggiare e a produrre all’estero, è il periodo dei vetri à la façon de Venise e succede anche come reazione alla crisi economica che colpisce Venezia, a causa della peste del 1630, e verso la fine del secolo della diffusione dei vetri boemi. Nel Settecento la concorrenza è molto forte, nonostante la creatività veneziana e il vetro opalino, lattimo, calcedonio che nascono dall’inventiva muranese. Per la rinascita si deve aspettare la metà dell’Ottocento, con strategie che uniscono il recupero di tecniche antiche al virtuosismo, alla fantasia, alla capacità di innovazione.
È in questo periodo che si impone il vetro murrino. Le tecniche vetrarie conoscono nei secoli periodi di oblio e riscoperta, e anche questa ha radici antiche. I maestri indiscussi sono Giovanni Battista e Giacomo Franchini e Vincenzo e Luigi Moretti, padri e figli, con complesse composizioni e ritratti patriottici. La definizione di vetri murrini, ripresa da Plinio il Vecchio, si deve all’abate Vincenzo Zanetti, figura fondamentale nella rinascita dell’arte vetraria e anche nella nascita nel Museo del Vetro di Murano, nel 1861, che conserva nel suo percorso espositivo il racconto della storia antica e moderna di questo straordinario materiale (e comprende un’intera sala dedicata alle murrine).
La tradizione del vetro murrino continua ancora oggi. Con le murrine figurative di Mario e Antonio dei Rossi, il padre dal 1989 con riproduzioni di famose opere d’arte (sua la murrina qui sopra, un ritratto di ragazza dal Pollaiuolo), il figlio ancora oggi con soggetti del mondo animale e vegetale (suo il leone qui a fianco, diametro 3cm). La loro tecnica è quella della composizione a freddo: canne sottili (dette millefiori) accostate fino a comporre il disegno, poi riscaldate e tirate fino a ridurre l’immagine a una spettacolare miniatura, e infine affettate. La stessa tecnica di Luigi Moretti, che a fine Ottocento produsse un’incredibile serie di murrine con ritratti miniaturistici di famosi personaggi dell’epoca che gli diede fama mondiale.
La storia del vetro, e del suo Museo a Murano, è lunga e affascinante. Tanto da diventare una favola, (https://www.radiomagica.org/portfolio-articoli/radio-magica-libera-tutti-musei-civici-veneziani/), un modo divertente e interessante per passare un quarto d’ora con i più piccoli in queste lunghe giornate. Per tutti, c’è invece un video (https://www.youtube.com/watch?v=b4jreuN2Vv8&list=PLABBA38B8EE1D556F) che ci porta nelle sale del Museo.
Fuori dalle nostre finestre stanno sbocciando i fiori. Come questi, i fiori blu di Veronica persica, che si chiama così perché vengono dall’antica Persia. Il nome glielo ha dato nel 1808 il botanico Jean Louis Marie Poiret, che li osservò nel giardino botanico di Parigi. Oggi si trova in tutto il mondo e la loro storia la racconta il Museo di Storia Naturale di Venezia Giancarlo Ligabue nel suo profilo Facebook.
E sempre per celebrare i colori e i fiori, niente di meglio che chiudere con un omaggio dal Museo del Settecento Veneziano di Ca’ Rezzonico una splendida, sorridente e sensuale Allegoria della Primavera di Rosalba Carriera.
RODIN, DANTE E VENEZIA
Il nascente Museo delle Arti decorative di Parigi commissionò al termine dell’Ottocento un grande portale in bronzo, con scene ispirate dalla Divina Commedia di Dante Alighieri, allo scultore Auguste Rodin, che si concentrò sull’ Inferno. Il portale non fu infine mai realizzato, come lo stesso museo, ma Rodin ci lavorò comunque per oltre vent’anni, ricavandone decine di sculture. A una di queste, che era stata pensata per stare alla sommità del portale ed era alta 70 centimetri, fu dato il titolo di Poeta. Poi Rodin decise di riprodurla in gesso in enormi dimensioni, e diventò celebre come Il Pensatore.
Il Pensatore venne esposto a Londra a Parigi nel 1904 e il successo fu tale da provocare una sottoscrizione per farne una versione in bronzo e metterla davanti al Pantheon di Parigi, dove rimase fino al 1922, quando fu trasportata al Museo Rodin. Esistono oggi circa 20 imponenti statue in gesso del Pensatore, una delle quali sta a Meudon sulla tomba dello stesso Rodin, nato a Parigi nel 1940 e morto nel 1917.
Auguste Rodin ha partecipato a due Biennali a Venezia, nel 1901 con il grande gesso I Borghesi di Calais e nel 1907 con Il Pensatore. La prima opera fu acquistata dal Comune di Venezia, la seconda dall’allora sindaco della città Filippo Grimani, entrambe per entrare a far parte della collezione di Ca’ Pesaro, che dal 1902 è sede della Galleria Internazionale d’Arte Moderna.Auguste Rodin è stato un grande innovatore della scultura, francese e non solo. I suoi modelli sono stati anche italiani, viaggiò spesso nel nostro Paese, le sue opere si scostano dalla tradizione, non sono levigate e rifinite, e i suoi corpi hanno posizioni non eleganti ma spontanee. Ogni muscolo del Pensatore è flesso, la torsione del busto esprime una tensione potente, l’intensità espressiva è dell’intero corpo, il volto celato nel dorso della mano. Il Pensatore non è in una posizione di riposo.
Il 25 marzo è Dantedì, la data che gli studiosi individuano come inizio del viaggio ultraterreno della Divina Commedia e l’abbiamo celebrata.
Per un viaggio digitale nelle collezioni della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro c’èGoogle Arts & Culture.
La sera del 25 su Rai1 è andato in onda Stanotte a Venezia, speciale di Alberto Angela. Un viaggio straordinario fra storie e capolavori, per scoprire e riscoprire questa meravigliosa città in attesa di poterci tornare e di poterla tornare a vivere. E sì, ci sono anche i nostri Musei. Ricordando che su RaiPlay è sempre visibile anche Io sono Venezia, programma di Rai Cultura di pochi mesi fa che ha un curioso format, con personaggi storici di Venezia, interpretati da attori, che raccontano la propria vita e le proprie opere e gesta, la città e la sua arte, girato nei nostri Musei.
Il 25 marzo si è celebrata anche la fondazione di Venezia. La tradizione infatti, vero o no, fa risalire la fondazione della Chiesa di san Giacomo a Rialto, Rivoalto, che secondo i Diarii di Marin Sanudo sarebbe avvenuta proprio il 25 marzo 421. Un giorno speciale, ricordato anche dai nostri MUVE Education con un bel post nel loro profilo Facebook. E questa qui sopra è la celeberrima enorme Mappa di Venezia di Jacopo De’ Barbari, xilografia del 1500 conservata nelle sale del Museo Correr, che ne possiede anche le originarie e preziosissime matrici in legno di pero.
LA VITA AVVENTUROSA DELLE STATUE
Nelle nicchie nel cortile di Palazzo Ducale che le hanno ospitate per secoli, ognuna nella sua, ci sono le copie di bronzo. Gli originali, le tre sculture marmoree a piena altezza dei progenitori Adamo ed Eva e del Guerriero, che nacquero e trovarono posto nella facciata dell’Arco Foscari nella seconda metà del Quattrocento, oggi mostrano tutto il loro splendore nella Sala dello Scrutinio. Hanno avuto vita avventurosa, come del resto il loro autore Antonio Rizzo, forse il migliore scultore del secolo, sicuramente lo scultore veneziano più menzionato dagli autori suoi contemporanei. Ma andiamo per ordine.
Le tre statue, campioni dell’arte rinascimentale veneziana, sono state all’aperto per secoli, ma la prima testimonianza archivistica su di loro è del 1709, quando in Senato si denuncia il degrado di Palazzo Ducale, in particolare del cortile. Dove in occasione delle elezioni o della carnevalesca caccia dei tori si costruivano palchi provvisori, con gli spettatori che facilmente si arrampicavano sulle statue dell’Arco Foscari, che non di rado finivano con “teste, brazzi e mani” spezzati. Nel 1823 i documenti registrano un intervento di rimozione di nidi di rondini durante il quale una scala viene appoggiata alla statua di Eva, e le spezza un braccio. Già nel 1725 sono oggetto di pulizia, rifacimento di pezzi mancanti e stuccature, da parte dello scultore Antonio Corradini. Un altro restauro viene fatto nel 1845 a opera di Pietro Lorandini.
Adamo, Eva e il Guerriero (detto anche Marte) vennero rimossi la prima volta, tutti insieme, nel 1917. Dal 1915 l’Italia è in guerra e le statue sono coperte di sacchi di sabbia, come la Scala dei Giganti, ma dopo Caporetto le opere d’arte più importanti di Venezia vengono in fretta portate via dalla città, le tre statue vanno a Pisa. Tornano in laguna due anni dopo, nel 1919, nelle loro originarie postazioni: per primo il Guerriero, Eva e Adamo per qualche mese restano a terra, date le loro condizioni non ottimali.
La prima a essere trasformata in bronzo è Eva. Nel 1920 la copia prende il suo posto, l’originale va al coperto nel Palazzo. Nel 1940 altra guerra: Adamo e il Guerriero finiscono in un locale blindato a pianterreno. Nel 1947 l’allora suo direttore cerca i circa 300 kg di bronzo per la copia di Adamo, e li chiede alla Marina Militare. Il bronzo dei cannoni vecchi almeno di 50 anni è quello giusto per la statua, riesce a ottenerlo nel 1953, la copia va nella facciata Foscari e Adamo si ricongiunge a Eva. Sono raggiunti poco dopo dal Guerriero, anche lui sostituito da una copia in bronzo. Negli anni seguenti sono esposti insieme in diverse sale a Palazzo, dagli anni Ottanta nel Liagò.
Nel Liagò di Palazzo Ducale le tre statue di Antonio Rizzo sono state dal 2015 pazientemente restaurate, in uno spazio diviso dal pubblico da una parete trasparente. Dopo le analisi al CNR di Milano con tecniche innovative al laser è stata rimossa la patina grigia e nera accumulata nei secoli. L’intero processo è stato eseguito dal restauratore Jonathan Hoyte con la direzione tecnica di un comitato scientifico composto da Fondazione Musei Civici di Venezia, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, Opificio delle Pietre Dure di Firenze, Scuola Normale di Pisa, e finanziato da Venetian Heritage.
La fama di Antonio Rizzo era grande e le statue erano già considerate capolavori del Quattrocento, eppure l’attribuzione al loro vero autore avvenne solo un paio di secoli dopo. La bizzarria è dovuta a un errore di Giorgio Vasari, che nel Cinquecento attribuì le statue dei progenitori a un quasi omonimo del Rizzo (il padovano Andrea Briosco detto il Riccio), nonostante la firma di “Antonio Rico” nel basamento della statua di Eva. Per il Guerriero la giusta attribuzione arrivò addirittura solo a metà dell’Ottocento.
Nato presumibilmente a Verona, Rizzo arriva a Venezia un po’ prima del 1465, dove visse sempre nella Parrocchia di San Giovanni Nuovo. Nel 1469 diventa capo scultore dell’Arco Foscari, nel lato che guarda sul cortile di Palazzo Ducale. Lì trova posto il Guerriero, probabilmente la prima delle tre statue a prendere forma e posto, seguita da Adamo e Eva che invece stanno di fronte alla Scala dei Giganti. Nel 1485 diventa protomaestro di Palazzo Ducale. Tra questi due eventi Antonio Rizzo è anche autore della tomba del doge Niccolò Tron in Santa Maria Gloriosa dei Frari, è iscritto nella Scuola Grande di San Marco che gli commissiona scalinata e pulpito per la confraternita, riceve dal doge Moro l’incarico di realizzare tre altari nella Basilica di San Marco, solo per citare alcune importanti imprese veneziane, e partecipa personalmente alla difesa di Scutari assediata dai Turchi, costruendo mura difensive e palle di cannone. Rientrato a Venezia si dedica alla ricostruzione dell’ala destra di Palazzo Ducale, distrutta da un incendio. Dalla città lagunare nel 1498 Rizzo fugge dopo aver venduto tutti i suoi beni, dato che proprio controllando i conti della ricostruzione di Palazzo Ducale due senatori si accorgono della sparizione di una somma ingente, di cui Rizzo viene accusato. Fugge in Romagna, ma della sua fine non abbiamo notizie.
Una fra le prime e più importanti guide illustrate di Venezia è il libro Il Forestiere illuminato, un piccolo volume (un tascabile diremmo oggi) stampato da Giovanni Battista Albrizzi nel 1740 e ricco di incisioni. Contiene una narrazione di Venezia divisa in sei giornate ed era destinato a un visitatore colto, anche giovani politici europei in viaggio lo leggevano per avere una visione completa della città.
Il libro si può vedere in un breve video nella pagina Facebook di Palazzo Ducale, sfogliato e descritto da Gabriele Paglia della Biblioteca del Museo Correr.
Ora un po’ di colore per i piccoli: la serie di libri pop up da autocostruire si è arricchita con un nuovo modello, quello di Giulio Coniglio. Per sapere che altro accade nella lotta contro quel monello di virus che ci costringe tutti a casa e dare una mano con carta, forbici e colla, seguite il profilo Facebook dei nostri eroici MUVE Education.
DUE SANTI PER DUE COLONNE
San Marco di qua, San Todaro di là. Stanno da secoli sulle due colonne di marmo e granito, “bigio una e rossiccia l’altra”, nella piazzetta a fianco di Palazzo Ducale, avvolte da misteri mai risolti. Una statua in bronzo in forma di leone dal volto umano di probabile origine assira, trofeo arrivato da Costantinopoli con le crociate capitanate da Enrico Dandolo nei primi anni del 1200 e a Venezia rimaneggiato e dotato di ali e Vangelo, e un San Teodoro di pietra coi piedi poggiati su un drago in forma di coccodrillo con zampe palmate e muso di cane.
Sono i due patroni di Venezia, solo uno è oggi istituzionale, ma dell’altro ricorre ancora il nome, Teodoro che diventa Todaro in veneziano. Il leone è lo stesso lì issato secoli fa, del Todaro invece se si vuole ammirare l’originale si può andare nel cortile di Palazzo Ducale. Dove fu messo nel primo dopoguerra, quando dopo una lunga vicenda costellata di articoli di giornale e carte bollate fu tirato giù per lasciare al suo posto una copia. Era davvero malconcio, non si sa da quando fosse lì in cima, Sansovino scrisse dal 1329, ma dicono gli studiosi che le colonne arrivarono intorno al 1150, con doge Vitale Michieli II, e pare strano che siano restate sguarnite per tanto tempo. Del resto, non è chiaro neppure quando trovò posto il leone alato.
La statua di quello che ancora molti turisti credono un San Giorgio (che era invece il protettore dell’antica rivale Genova, sono entrambi santi guerrieri uccisori di draghi) è in realtà un insieme di statue. La testa e il busto di origini romane, testa dell’imperatore Costantino e busto di Adriano in marmo pregiato, il resto posticcio in marmo più scadente e pietra d’Istria. Nel 2017 anche questa statua è stata restaurata ed è quella che si ammira sotto il portico del cortiletto dei Senatori a Palazzo Ducale, dove protegge i veneziani ad altezza d’uomo dal 1948.
Delle colonne narra l’architetto Giovanni Antonio Vendrasco alla fine dell’Ottocento, nel suo “Marco e Todaro”, riportando che “Sebastiano Zani, ricco e settuagenario doge, fece bandire una strida colla quale si prometteva generoso premio a chi avesse compiuta quell’opera, per meccanici mezzi”. Era circa il 1170 e le colonne giacevano stese in piazzetta in attesa di qualcuno che riuscisse a sollevarle. L’esito lo racconta il Sansovino: “Un lombardo chiamato Niccolò Barottiero le drizzò et ne hebbe honesto premio oltre al quale volle privilegio che i giuocatori havessero libertà di giuocare a piè di dette colonne senza pena alcuna”, e conferma si trova nella Cronaca Magno: “Venne un ingegniere che era un gran baro de zuogo et disse del levarle”. Le colonne furono sollevate dal Barottiero con uno stratagemma, legandole con corde bagnate che una volta asciutte si restringevano sollevando i due macigni, in cambio fu concessa fra le due libertà di gioco d’azzardo. Per secoli sono state porta d’entrata e punto di ritrovo della più varia umanità veneziana. Qui sotto ritratta da Giacomo Guardi a penna, opera conservata nel Museo Correr.
Palazzo Ducale è l’edificio simbolo della città e della civiltà millenarie di Venezia e scrigno di opere fra le più belle al mondo. Per chi lo ha già visitato, per chi lo frequenta perché veneziano, per chi ha sempre sognato di andarci, per chi ci andrà o tornerà, c’è il pdf della sua guida(https://palazzoducale.visitmuve.it/wp-content/uploads/2016/01/Guida-Ducale-ITA.pdf?fbclid=IwAR381qX_Oiovc1OUajsSzaWAN9Ce7TJTzl1ONlhwAi0CoW-kB9LSXdsbwbs). Buona lettura
Venezia è da sempre un crocevia, di persone e culture, di mercanti e artisti, di opere e invenzioni, persino il Todaro è un collage di pezzi. Le sue relazioni con il mondo, forti di una orgogliosa ma accogliente e generosa identità, sono sempre vive.
Il Museo Ermitage possiede un patrimonio d’arte italiana e veneziana inestimabile, il suo legame con Venezia è forte e testimoniato in anni di scambi e collaborazioni, anche con i Musei Civici. Accogliamo quindi con estremo piacere il messaggio di vicinanza e solidarietà che Ermitage Italia ha voluto esprimere con trasmissioni live e video dalle sale dell’Ermitage, per raccontare la nostra arte custodita a San Pietroburgo: il messaggio del direttore del Museo Ermitage Mikhail Piotrovsky (https://www.youtube.com/watch?v=25W4VAY0Pfo) e la prima puntata di una serie di appuntamenti (in italiano) all’Ermitage con l’arte italiana e una sapiente guida (https://www.youtube.com/watch?v=_iX9c7o3zQc)
CARTE DA NAVIGAR
Affrontare il mondo richiede mappe, quando si viaggia per terra e anche per mare, e per fare le mappe bisogna affrontare il mondo. Nel Medioevo fare carte da navigar diventa un’arte: la prima firmata e datata di cui abbiamo notizia è di Pietro Vesconte, genovese di nascita ma veneziano dal 1313. Il suo Atlante Nautico del 1318 conservato nel Museo Correr (ne esistono quattro versioni nel mondo, le altre tre stanno: a Vienna, sempre del 1318, a Zurigo e Lione datate 1321) è formato da 8 tavole di legno su cui sono incollate le pergamene, con un calendario astronomico circolare e mappe del Mar Nero e del Mediterraneo, fino alle coste atlantiche. I profili costieri sono accurati, con tutte le informazioni fin lì acquisite in secoli di navigazione e un fitto elenco di toponimi in nero con le città principali in rosso, e i pericoli: punti rossi per i fondali bassi, crocette per gli scogli affioranti. Gli angoli sono decorati con miniature su fondo oro, di Evangelisti e Santi alla cui misericordia il navigante si appellava di fronte ai pericoli del mare e dell’ignoto. Le antiche carte nautiche sono percorse non da latitudine e longitudine ma da un reticolo di linee tirate a partire dalle rose dei venti. Sono ben custodite e non devono finire in mani sbagliate o nemiche.
La cartografia nautica ha solide origini in Italia, con veneziani e genovesi che producono mappe e portolani per le navi che solcano il Mediterraneo. Dal Quattrocento con la stampa a caratteri mobili e l’ulteriore sviluppo delle tecniche di riproduzione delle immagini Venezia diventa uno dei principali centri di produzione in Europa anche per le mappe, sempre più opera di professionisti capaci di integrare il sapere cartografico con i racconti di viaggiatori, marinai e mercanti (altri importanti centri di produzione sono stati nei secoli la spagnola Maiorca e le terre fiamminghe). È un’epoca di grandi scoperte, compresa quella dell’America. Celebre è lo spettacolare Portolano 6 o Carta universale in stile marino del 1550 di Giorgio Sideri, detto Callapodia da Candia, di origini cretesi (dei suoi sei portolani oggi esistenti il Correr ne possiede ben quattro). Le pergamene che disegnavano il mondo non servivano solo ai naviganti, erano anche strumento per celebrare la grandezza e la potenza di Venezia, spesso erano appese alle pareti dei palazzi e appositamente prodotte. La conoscenza del mare ne mostra anche la vastità, è allegoria autocelebrativa della Dominante.
Dai secoli XVII e XVIII le carte nautiche sono più funzionali e strettamente tematiche e precise. Realizzarle coinvolge molte professionalità, dal comandante della nave al tipografo passando per astronomi, matematici, geografi, disegnatori, con dettagli sempre più precisi su coste, correnti marine, distanze, tutto quel che serve a una navigazione sicura. Restano però manoscritti i lavori di Gaspare Tentivo, imbarcato come capitano sulla veneziana Fama Volante, cartografo e uomo di mare, dove ai disegni si alternano testi descrittivi circostanziati, con tutto il necessario alla navigazione. Dei suoi portolani, composti dalla fine del Seicento agli inizi del Settecento, si contano oggi tredici esemplari e sei sono al Museo Correr. Nel 1684 il suo celebre contemporaneo Vincenzo Maria Coronelli geniale veneziano, cartografo, incisore e autore di famosi globi, fondava nella Serenissima l’Accademia cosmografica degli Argonauti, la più antica società geografica al mondo. Da molti secoli non si naviga a vista.
L’ora cambia, gli orologi restano. Quelli nella Sala del Senato esibiscono uno i segni zodiacali e l’altro le ore che segnava girando in senso antiorario, alla maniera italiana, basata sulla luce del giorno, per misurare le ore delle lunghissime sedute in cui 120 Senatori erano chiamati a discutere questioni di politica interna ed estera, strategie commerciali e questioni militari. La storia degli orologi di Palazzo Ducale, e dei Penzin, si trova nel suo profilo Facebook. Ma il maggior vanto della Fondazione Musei Civici di Venezia è naturalmente l’antica Torre dell’Orologio. Anche lei oltre al sito ha il suo profilo Facebook per ammirarla anche dall’interno, con gli ingranaggi, le tàmbure, i Re Magi, i Mori…
L’ANTICA ARTE DEGLI SPEZIALI
Anche la farmacia sta nel museo. Non la sua storia, i suoi documenti e attrezzi, le sue rappresentazioni, proprio la farmacia, tutta intera, ricostruita al terzo piano del Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico con gli arredi, il bancone e pure l’insegna. Fu un tempo la Farmacia Ai Do San Marchi di campo San Stin, all’angolo con calle Donà, che nel 1679 era di “Orazio Moscatello Priore” del collegio degli Spezieri, il suo stemma è fra le 100 Insegne di botteghe medicinali in Venezia riprodotte nel Codice Gardenigo conservato nel Museo Correr, ma verso la metà del Settecento il suo proprietario era diventato lo speziale Bernardo Saletti, al quale si deve il rinnovo dei locali e quindi questo arredo, arrivato a Ca’ Rezzonico completo di mobili, boiserie, albarelli, alambicchi, mortai, caminetto e fornello.
Gli speziali veneziani sono stati famosi per molti secoli. I Capitolari che regolavano le Arti dei Medici e degli Speziali sono fra i documenti più antichi al mondo in materia, emanati nel 1258 dalla Giustizia Vecchia sono rimasti in vigore, integrati e inclusi in atti successivi, per tutta la durata della Repubblica. Gli speziali dovevano rispettare un regolamento e fare un giuramento, dopo alcuni anni di praticantato a bottega. Le specialità dovevano essere approvate e così i loro prezzi, la loro composizione esposta al pubblico e rispettata, i medicamenti scaduti, sbagliati o illegali venivano pubblicamente bruciati a Rialto. Le spezierie dovevano essere sempre aperte e la Serenissima ne decideva anche la minima reciproca distanza, ognuna doveva avere una denominazione e un marchio di bottega, l’insegna doveva essere esposta e non potevano esisterne due uguali, avevano proprie etichette e carte intestate. La fama dell’arte della farmacia veneziana era vasta e così il mercato, nella sempre più fitta normativa che si sviluppa dal Cinquecento si registrano l’imposizione di tariffari e altre disposizioni della magistratura di Sanità, sia per lo Stato di Terra che per quello di Mare, compresa l’introduzione o la proibizione di medicinali. Nel 1485 nasce a Venezia la magistratura dei Provveditori alla Sanità, e nel 1565 si costituisce il Collegio degli speziali, intesi come farmacisti, che si separano dagli speziali da grosso, ovvero i droghieri. Tradizionalmente separati, anche a Venezia, sono medici e farmacisti. I primi, che possono preparare medicamenti ma non farne commercio, godono di un prestigio sociale ben superiore a quello degli spezieri, artigiani più che scienziati, a volte sospetti dato che maneggiavano anche veleni.
La spezieria di Ca’ Rezzonico ha tre locali. La bottega di radica scura con il bancone, gli scaffali con 183 vasi (albarelli) in maiolica decorata della manifattura veneziana Cozzi e due grandi vasi con lo stemma, due leoni che reggono il vangelo aperto; il laboratorio, con caminetto e fornello e gli alambicchi di sottile vetro usciti dalle fornaci muranesi; il retrobottega, con pareti rivestite da una boiserie in legno di abete dipinto e intagliato e 76 seicenteschi vasi di maiolica bianca decorata in blu e 33 vasetti in vetro di Murano. La Farmacia dei Do San Marchi venne smantellata nel 1909 dalla vedova dell’ultimo proprietario e acquistata da un antiquario che aveva l’idea di trasportarla in Francia, ma poi invece la donò al Museo. Fu esposta in una delle torrette laterali del Fondaco dei Turchi, allora sede del Museo Correr e oggi del Museo di Storia Naturale Giancarlo Ligabue, e poi nel 1936 trasferita e ricostruita da Nino Barbantini e Giulio Lorenzetti al terzo piano di Ca’ Rezzonico.
A Venezia esistono ancora antiche farmacie con gli arredi originali, molte anche se rinnovate ne portano ancora gli originali nomi (anche quella a San Stin si chiama ancora Ai Due San Marchi ) e non è raro trovarne tracce sulle facciate dei palazzi che le ospitavano, la più famosa è la Testa d’oro a Rialto, della omonima spezieria. Alcune sono diventate profumerie, anche se gli speziali non trattavano essenze, che erano competenza dei muschieri, riuniti nell’Arte dei marzieri, i merciai.
Nel Museo di Palazzo Mocenigo, Centro Studi di Storia del Tessuto, del Costume e del Profumo esiste un percorso dedicato proprio al profumo di cui Venezia è stata in particolare nel Settecento un grande centro di produzione e innovazione. Gli interni di Palazzo Mocenigo si possono ammirare in un video e percorrerli (seguendo le frecce come in Street View) nello spazio di Google Arts.
SCENE DI VITA QUOTIDIANA
La storia del quadro Le due dame sta dentro un’altra storia, quella di Vittore Carpaccio artista veneziano negli anni a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, e un’altra storia ancora, di quando la tela è stata divisa e il soggetto si è così separato dalla narrazione che l’aveva prodotto. Del dipinto su tavola Le due dame del 1490/95 si ha notizia nel 1830, nell’inventario della collezione Correr, nucleo fondativo delle collezioni dei Musei Civici di Venezia e del Museo Correr, ma senza dettagli sulla sua provenienza. Nell’inventario stilato per la donazione le dame sono descritte come “due donne che scherzano con due cani”, vent’anni dopo in una Guida di Venezia e delle isole circonvicine sono “due giovani maliarde”, trent’anni dopo ancora John Ruskin scriverà nei suoi taccuini della straordinaria bellezza del dipinto. Nel 1906 esce la prima monografia esauriente sul grande narratore Vittore Carpaccio, in cui le dame diventano due cortigiane vezzose “con mollezza della persona e sensualità stanca dello sguardo”. Via via delle dame se ne misura la virtù, con esiti alterni, mentre del quadro si discutono le possibilità che sia un frammento o che invece la scelta dell’inquadratura ardita sia stata dell’artista.
Nel frattempo un altro quadro di Vittore Carpaccio conosce una sua avventura. La racconta nel 1963 il collezionista Busiri Vici, di quel quadro che aveva acquistato una ventina d’anni prima dall’antiquario Sebasti a Roma e che poi si rivelò provenire dalla collezione del cardinale francese Fresch, che l’aveva portato a Roma nel 1816 alla caduta di Napoleone, di cui era zio. Il quadro La caccia in laguna non è nella grande mostra su Vittore Carpaccio a Palazzo Ducale del 1963 ma nello stesso anno Ludovico Ragghianti ipotizza che possa essere la parte superiore del quadro delle Dame. Bisognerà aspettare il 1999 per vedere le opere riunite, in una mostra a Palazzo Grassi sul Rinascimento a Venezia, e il 2003 per scoprire con Romanelli che La caccia in laguna ha una storia collezionistica che precede l’antiquario romano, essendo nell’inventario del 1780 della collezione Algarotti a Venezia.
La scena ricomposta mostra due donne forse in annoiata attesa e uno sfondo con uomini che “caccia di smergi sull’acqua per mezzo di battelli diligentemente eseguiva” come recitava l’inventario della collezione Algarotti. Delle due dame definitivamente riabilitate si nota la purezza, il fazzoletto, le perle, le colombe, il giglio non più spezzato. Il dipinto rappresenterebbe una scena beneaugurante nelle sue allegorie, forse commissionata e destinata a una sposa, era probabilmente unito ad altri pannelli con cerniere di cui c’è ancora traccia, a formare la porta di uno studiolo. La caccia in laguna è riapparsa nel 1992 nelle sale del Getty Museum a Malibù, ora è nella sede dello stesso museo a Los Angeles. Le due dame sono sempre rinchiuse nel Museo Correr.
Venezia solitaria, deserta, desolata ma anche romantica, che “giace come un fantasma sulla laguna” è la citazione di John Ruskin di Gabriella Belli, parole «che abbiamo sempre letto come una specie di tensione al bello e assoluto che oggi è diventata un’espressione quasi drammatica». Il direttore dei Musei Civici di Venezia ricorda che «la città vive della sua bellezza ma non delle sue relazioni, e in queste i musei hanno sempre un ruolo importante». Le relazioni sono anche l’economia di un museo, oggi sono entrambe compromesse in un contesto globale difficile, «sarà inevitabile ripensare i musei in un futuro nel quale dovremo trovare nuovi modelli sia di partecipazione che di fruizione delle opere d’arte». Viviamo un rallentamento, «una lentezza che è anche opportunità di studio, tempo utile per progetti futuri, non solo progetti di grandi mostre ma di riorganizzazione, di ripensamento del modello dei nostri musei, di come hanno funzionato finora e come potrebbero funzionare nella prospettiva di un mondo cambiato».
AMACI, l’Associazione dei Musei Italiani d’Arte Contemporanea, ha pubblicato un video di Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia, partner dell’associazione con la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro.
https://www.facebook.com/watch/?v=629009584328841
SEGNO, DISEGNO, CARTA
Gli album dei disegni degli artisti difficilmente superano la storia integri, più spesso accade che siano smembrati da collezionisti, o anche dagli stessi artisti, per poter rivendere i fogli singoli. Il Gabinetto Disegni e Stampe dei Musei Civici ne conserva però tre che sono arrivati a noi così come sono stati confezionati, di altrettanti notevoli artisti: Giambattista Tiepolo, Pietro Longhi e Francesco Guardi. Non sono disegni finiti ma studi e schizzi funzionali al lavoro degli stessi artisti, e delle loro botteghe, raccolte di modelli ed esercizi, anche per questo sono rimasti intatti per secoli. Album corposi, composti nell’arco di molti anni di lavoro, quindi anche preziosa testimonianza dei processi creativi dei loro autori. Sono fatti, ovviamente, di carta.
La carta è stata per secoli il supporto di tutte le informazioni. Per secoli è stata fatta con gli stracci. La prima nota sulla sua fabbricazione è cinese e risale al secondo secolo D.C., a partire dal settimo secolo la produzione si è estesa al mondo arabo e da lì in Europa. Le prime cartiere di cui abbiamo notizia in Italia risalgono al 1200, sono già molte e attive, in zone con l’acqua corrente dei fiumi, vicine a porti che permettano il commercio. La Liguria, Fabriano, la Repubblica Serenissima che poteva contare sulle cartiere di Veneto e Friuli, già veri e propri distretti. Da metà Quattrocento con la stampa a caratteri mobili la produzione, il commercio e il consumo di carta (e l’editoria veneziana) aumentano esponenzialmente. E così il fabbisogno di stracci. Gli strazzeri, gli strazzaroli, li raccolgono, l’esportazione è proibita, le cartiere hanno “privilegio di raccolta” per garantirsi il fabbisogno. Che è in continua crescita, con contrabbando e politiche commerciali non sempre azzeccate che lo rendono sempre più difficoltoso, nel Seicento il settore è in crisi, anche nella Serenissima, per la concorrenza di olandesi e francesi e per la peste del 1630, quando gli stracci vengono bruciati perché contaminati. Nel Settecento la ripresa: Venezia ha 12 distretti cartari nella Repubblica, da Bergamo e Brescia a Padova, Verona, Bassano, Belluno, Treviso, Pordenone, che esportano in Europa, e verso Levante.
Gli strazzi sono divisi per qualità e colore e macerati e impastati con colla animale, le carte sono filigranate con il marchio della cartiera, e della provenienza, per Venezia è “Tre Lune”, e hanno diverse denominazioni per grandezze e qualità: Imperiale, Sottoimperiale, Reale, Mezzana, Trelune, ci sono carte da stampa, Leone, Tre cappelli, carte da scriver, ordinarie, fini, veline, lucide, da registro, per imballaggio. Alcune sono colorate, bigie, verdi, rosse, indaco. La carta azzurra è usata dagli artisti veneti e veneziani, nel centro Italia è più diffusa quella chiara.
Gli album di Tiepolo, Longhi e Guardi sono stati recentemente restaurati e esposti a Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano. Quello di Tiepolo è uno dei nuclei più importanti dei suoi disegni su carta azzurra, in prevalenza del corpo umano, i soggetti privilegiati di Longhi sono gli interni delle case del patriziato e la vita quotidiana dei veneziani in presa diretta, per Guardi lo è la città, con piccole inquadrature di Venezia e riprese dal vero di paesaggi, cortili, piccole figure al lavoro. L’album di Giambattista Tiepolo (Venezia 1696-Madrid 1770) fu donato al Museo Correr nel 1885 dal pittore triestino Giuseppe Lorenzo Gatteri, che lo acquistò in giovinezza, dopo aver studiato all’Accademia di Belle Arti a Venezia, non per collezionismo ma come supporto per la propria attività di artista. I due fondi di bottega di Pietro Longhi (Venezia 1701-1785) e Francesco Guardi (Venezia 1712-1793) furono invece acquistati da Teodoro Correr dai figli degli stessi artisti non molto tempo prima della sua morte, avvenuta nel 1830, quando il suo lascito alla città formò il primo nucleo dei Musei Civici.
Gli strazzi settecencenteschi erano a Venezia pregiati, anche perché molto sviluppata era l’industria di moda e abbigliamento, che i patrizi veneziani esigevano raffinata, e anche estrosa. Nel questo piccolo video di Palazzo Mocenigo, Centro Studi di Storia del Tessuto, del Costume e del Profumo, si può ripercorrere la vestizione del gentiluomo e della gentildonna nel Settecento.
SCARPINARE PER LE CALLI
Rudimentali o raffinate, alte o basse, chiuse o aperte, da uomo o da donna, le scarpe ci portano in giro e rappresentano lo stile delle diverse epoche. A partire dal Duecento, quando a Venezia erano già attive molte botteghe e i calegheri avevano già un loro Capitolare nel 1260. Potevano fare le scarpe, a differenza dei loro confratelli zavateri che potevano solo ripararle e riciclarle, per chi non poteva permettersi calzature nuove e raffinate. E come tante erano le botteghe, diversi erano i mestieri che contribuivano a questa produzione, i becheri ovvero i macellai che procuravano anche cuoio e pelle, gli scorzeri che producevano suole e i conciacurame per le tomaie, i patitari che fabbricavano i tipici zoccoli.
Gli zoccoli erano parte del costume veneziano alle origini, con una tavoletta di legno sorretta da due traverse sempre in legno, e una banda di pelle o tessuto dove infilarci il piede. Potevano essere semplici e poveri ma anche eleganti, impreziositi da intarsi in osso o madreperla, e hanno avuto una loro evoluzione stilistica mentre anche altri modelli di calzature acquistavano popolarità. Le famigerate poulaine, scarpine affusolate con una punta lunga fino al limite del ridicolo, calpestarono anche le calli di Venezia per un paio di secoli, fino alla loro decadenza alla fine del Quattrocento, ma nello stesso secolo la bizzarria più tipica veneziana in materia di scarpe è stata sicuramente quella delle pianelle, o chopine, con una zeppa che poteva essere alta fino a qualche decina di centimetri su cui svettavano gran dame e cortigiane che percorrevano le calli con grande vanto, rovinando talvolta al suolo – un bel paio di pianelle giacciono abbandonate in angolo del quadro Le due dame di Carpaccio.
Dal Cinquecento le scarpe variano sempre più nella forma, diventano più eleganti e ricche, decorano il piede con pellami dipinti e intarsiati e sete e broccati e gemme e fibbie, sia per le donne che per gli uomini. Nasce il tacco, molto usato anche oltralpe in ambito nobile e reale, che verrà poi abbandonato alla fine del Settecento con la Rivoluzione francese e il ritorno del calcagno a terra. La bravura dei calegheri stava anche nel saper soddisfare le richieste della moda e nella loro creatività sempre capace di intercettare il gusto internazionale, con babbucce in raso e scarpette con ricami preziosi e fibbie pregiate, scapini da lacchè dal “sottil taccone e calcagnino di cuoio”, stivali per cacciatori e militari o per i corrieri della Repubblica. Le calzature d’epoca si trovano al Museo Correr, alcuni antichi esemplari, e soprattutto nelle affascinanti collezioni di Palazzo Mocenigo, Centro Studi di Storia del Tessuto, del Costume e del Profumo.
Come altre arti anche calegheri e zavateri avevano le loro regole e mariegole, per l’accesso al mestiere, la qualità delle merci, la conduzione delle botteghe, ognuna con la propria insegna. La loro sede stava a San Tomà, nel delizioso edificio che ancora oggi mostra sulla facciata la riproduzione in pietra di calzature, come se ne trovano ancora in diversi angoli della città, a segnare le antiche botteghe. Particolarmente fitte nella zona di San Samuele, unici forestieri ammessi a Venezia gli artigiani tedeschi, che avevano a Santo Stefano una loro sede e popolavano la calle delle Botteghe, non lontano da un fondaco per il commercio delle pelli. Gli zavateri si trovavano soprattutto nelle zone più popolari, a Santa croce, Cannaregio, Castello, i calegheri preferivano San Marco e Rialto. All’inizio del Settecento a Venezia si contavano 350 capomastri, 680 lavoranti e 80 garzoni, nel 1773 un censimento contò 1172 iscritti e 340 botteghe. Il santo protettore era Amiano, miracolato e convertito da San Marco in Alessandria d’Egitto, che era appunto calzolaio.
Venezia è una città fatta di tante isole, e tanti sono i musei che compongono AMACI, l’Associazione dei Musei di Arte Contemporanea Italiani, che oggi invita tutti i piccoli a giocare con l’artista bergamasco Matteo Rubbi per creare Un mondo di isole fantastiche da inventare, disegnare, descrivere, costruire! Il “bellissimissimo” video di presentazione è qui https: //www.facebook.com/watch/?v=2610146599199462, dove se volete potete anche condividere le vostre isole/opere con i nostri fantastici MUVE Education
A CIASCUNO IL SUO UOVO
Anche i dinosauri facevano le uova. Alcune, o meglio i loro fossili, sono conservate nel Museo di Storia Naturale di Venezia Giancarlo Ligabue. Non sempre sono grandi come ci si aspetterebbe, ci sono infatti uova sorprendentemente piccole di dinosauri piuttosto grossi (anche se non di tutti i dinosauri abbiamo oggi le uova e di non tutte le giurassiche uova conosciamo i rispettivi dinosauri). Al Museo c’è anche un uovo di Aepyornis, una sorta di uccello gigantesco del Madagascar, ovviamente estinto, tra i più grandi mai esistiti insieme ai Moa della Nuova Zelanda, con tre metri d’altezza e mezza tonellata di peso, che non poteva quindi volare, e che produceva le uova più grandi che conosciamo. Il fatto è che non sappiamo davvero come a un certo punto siano apparsi gli uccelli. La frammentaria documentazione fossile a loro relativa non permette di ricostruire completamente la loro complessa storia evolutiva: si differenziarono dai dinosauri teropodi durante il Giurassico, forse da forme affini ai dromeosauri, che proteggevano le loro uova grazie agli arti provvisti di penne e piume che nel frattempo si sarebbero rivelati anche strumenti per poter volare.
Nel nostro Museo ci sono tante uova di ere e specie diverse, di uccelli, rettili e pesci. Ognuno ha il suo modo di produrle, fecondarle, covarle o affidarle all’ambiente. Le uova dei pesci non hanno guscio, dato che stanno in acqua. Quelle di rettili e uccelli hanno gusci porosi e abbastanza sottili per permettere gli scambi gassosi offrendo però una sufficiente protezione e la giusta umidità all’embrione che al loro interno si sta sviluppando. Alcune sono bianche e sembrano palline da ping pong, quelle seppellite dalle tartarughe, altre hanno forma di pera, per evitare che possano rotolare via da nidi in zone più impervie, altre ancora sono mimetiche, come quelle dei fratini color sabbia come le spiagge dove vengono depositate (attenti a non calpestarle! Il fratino è specie protetta) o dei gabbiani a macchiette come le aree erbose e sabbiose. Alcune sono deposte e accudite, altre deposte e basta, tutte vanno in qualche modo difese dai predatori, e poi ci sono gli ovovivipari, come le vipere e molti squali, che le uova le covano all’interno del corpo. Ci sono uova lasciate alla cova delle femmine, altre alla cura dei maschi.
In laguna e di fronte al Lido troviamo i merluzzetti che depongono uova molto piccole e numerose, la castagnola che mette le uova su una pietra pulita dal maschio, che poi le protegge dai predatori e le tiene ossigenate fino alla schiusa, il tordo ocellato con il maschio che prepara diversi nidi su cui si affollano gruppi di femmine pronte a deporre le uova, di cui lui poi si prenderà cura e proteggerà anche mostrando la macchia nera che ha vicino alla coda, facendola credere l’occhio di un predatore. Depongono uova anche i molluschi, di solito piccole e ricoperte da una capsula trasparente e vischiosa e raggrumate in ammassi o filamenti. Quando camminando sulla spiaggia troviamo ammassi bianchi e leggeri grandi come un pugno o come un pallone possiamo credere che siano spugne, sono in realtà le capsule ovigere del garusolo, un mollusco con una bella conchiglia, e quelle specie di grappoli con gli acini neri sono le uova delle seppie, se invece sembrano organismi alieni con forma squadrata e dei gancetti agli angoli sono le uova delle razze, o del gattuccio. E poi c’è il cavalluccio marino, con la femmina che depone le uova nel marsupio del maschio, che le feconda e le custodisce e si prende anche cura dei piccoli cavallucci quando nascono.
Fondamentalmente l’uovo con il guscio ha rappresentato nella storia dell’evoluzione la più importante conquista per l’adattamento all’ambiente terrestre. Alla famosa domanda, se sia nato prima l’uovo o la gallina, pare proprio si debba rispondere che è nato prima l’uovo. Simbolo di fertilità e sapienza, cioè del futuro.
La Pasqua sarà purtroppo senza passeggiate e scampagnate, ma si può giocare! Avete già fatto la vostra isola? Oggi il suggerimento per disegnare, colorare, costruire e anche imparare arriva sempre dal Museo Di Storia Naturale: armatevi di colla, forbici e pennarelli e create il vostro acquario! E quest’estate quando tornerete al mare potrete chiamare i pesci, le conchiglie e i granchi con i loro nomi.
Le istruzioni sono qui https: //msn.visitmuve.it/it/attivita/idee-creative/costruisci-il-tuo-acquario/
VEDUTISMO VENEZIANO
Il Settecento a Venezia è un secolo estremamente creativo. È ancora una città che cresce, cosmopolita, ricca e innovativa, che avviandosi verso la fine della Repubblica vive la sua ultima grande stagione. Il suo artista più celebre, pur se in illustre compagnia, è Antonio Canal detto Canaletto, che qui nasce nel 1697. Suoi compari sono Tiepolo, Guardi, Carlevarijs, Sebastiano Ricci, le loro bellissime opere sono oggi alle pareti del Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico. Figlio d’arte di una dinastia di scenografi, Canaletto è pittore dalla carriera folgorante, che si consolida anche grazie all’incontro con l’ambasciatore e mercante Joseph Smith e alla loro capacità di intercettare lo spirito del tempo.
Nella corte di Joseph
Smith, imprenditore, ambasciatore dell’Inghilterra a Venezia e viceversa,
gravitano diverse personalità che trattano di palladianesimo internazionale,
battaglie illuministe, filosofia sperimentale (ovvero fisica). Smith si fa
espositore e venditore delle opere di Canaletto, fa anche riprodurre a stampa
serie di sue vedute che riunisce in album, il Prospectus Magni Canalis Venetiarum del 1735 dell’incisore Antonio Visentini appositamente
incaricato (le sue incisioni sono patrimonio del Gabinetto Disegni e Stampe dei Musei Civici di Venezia).
Si apre il mercato inglese, sono anni in cui i grandi artisti frequentano le
corti reali, come i coetanei Tiepolo e Rosalba Carriera, Canaletto non è da
meno. Nel 1746 si trasferisce a Londra, l’avventura dura una decina d’anni, fa
poi ritorno a Venezia, dove morirà nel 1768. Nella sua vita ha prodotto
moltissimo, tele più grandi e formati commerciali, più adatti alla remunerativa
richiesta estera, con tecniche innovative, mente aperta e luce vivida.
Il vedutismo nasce con la pubblicazione nel 1703 della raccolta di oltre 100 disegni intitolata Le fabbriche e vedute di Venezia disegnate, poste in prospettiva et intagliate da Luca Carlevarijs, l’artista che poi Canaletto insidiò è scalzò nel mondo della committenza. La camera ottica mette in forma l’oggettività, Canaletto come altri la studia, e ci gioca, fedele nella composizione prospettica talvolta inserisce colonne, trasforma bifore in trifore, ma nella sua pittura che definiamo fotografica l’atmosfera è esatta quanto la geometria (la sua camera è conservata anch’essa al Museo Correr, come quella del vedutista Francesco Guardi). La Venezia di Canaletto è esposta nella sua monumentalità gentile e vibrante, con mano esatta da cronista e abile narratore di architetture, e uno sguardo che indaga il tempo come lo spazio. Una città pressoché immutata che definisce il suo presente dalle fogge dei suoi abitanti, lavoranti e visitatori, di allora come d’oggi. I suoi quadri negli ultimi anni si sono dimostrati fondamentali anche per studiare il livello del mare a Venezia e l’andamento dell’acqua alta. I ricercatori hanno osservato la cintura di alghe ai piedi degli edifici sul Canal Grande, raccogliendo una notevole mole di dati finora sconosciuti sui cambiamenti del livello dell’acqua nel corso degli ultimi tre secoli. La storia della ricerca è in questo affascinante percorso virtuale (https://artsandculture.google.com/exhibit/il-segreto-di-canaletto/aAJiioQYNBkoJA?hl=it) che racconta l’uso dei quadri navigando nel Canal Grande di oggi.
A Canaletto nell’anno appena trascorso è stata dedicata una grande mostra a Palazzo Ducale e il catalogo dell’esposizione Canaletto & Venezia è sfogliabile qui https://www.yumpu.com/fr/document/read/63246865/canaletto-2019-catalogo
Come bene dice il Museo Fortuny “se in questo momento non è possibile viaggiare nello spazio, allora viaggiamo nel tempo”, partendo dalla Venezia ottocentesca delle fotografie, anche loro in qualche modo vedutiste, di Carlo Naya (conosciuto in una passata newsletter). Nel profilo Facebook del Museo Fortuny inizia il viaggio nel tempo di Venezia.
La fotografia è di casa a palazzo, anche data la passione di Mariano Fortuny per tutte le tecnologie di ripresa e le forme dell’illuminazione scenica. Con una Kodak Panoram, brevettata nel 1894, che usava pellicole panoramiche di 9x30cm, ha ripreso dal bacino piazza San Marco, che al momento dello scatto era sguarnita del campanile, crollato nel 1902. L’intera storia si legge nel post Facebook di MUVE Education, che ogni giorno racconta storie e inventa giochi con i nostri musei.
LA TRASPARENZA DELLA LUCE
Il lampadario veneziano più famoso al mondo è fatto di vetro cristallo, con braccia a candeliere e decorato con pendenti e fiori multicolori ed è detto a ciocca. Il suo settecentesco inventore si chiama Giuseppe Briati, suo è anche il lampadario che maestoso e fastoso pende con i suoi 1600 pezzi nella sala del Brustolon nel Museo del Settecento Veneziano di Ca’ Rezzonico. Fu costruito nel 1730, quando le vetrerie muranesi stavano riprendendo quota nel mercato internazionale dopo la decadenza di fine Seicento, dovuta alla partenza per l’estero di mastri vetrai e la reciproca concorrenza dei vetri stranieri, e soprattutto del cristallo di Boemia, che però dal Settecento si produce anche a Venezia. Briati è forse il motore principale di quella ripresa, con la produzione di cristalli alla maniera di Boemia e anche grazie all’invenzione dei suoi lampadari, che si diranno alla maniera di Briati.
I lampadari a ciocca hanno una struttura in metallo forgiata da fabbri specializzati, con bracci di candeliere, ricoperta e adornata di centinaia di pezzi di vetro soffiato nella voluttuosa forma di fiori, frutta, animali, con colori squillanti e virtuosismi. Giuseppe Briati è forse il vetraio più famoso del Settecento di Venezia. Figlio d’arte di origini muranesi nel 1739 costruì però, unico in deroga al divieto causa incendi instaurato nel 1291, la sua fornace su fondamenta veneziane, in quella che è oggi la Fondamenta Briati ai Carmini, dove produrre i suoi lampadari e gli specchi e dare al cristallo forma di raffinati deser e altri eleganti accessori per lussuose dimore, che è rimasta attiva con gli eredi fino al 1883. I lampadari originali sono comunque rari, spesso quelli che si vedono sono copie del tardo Ottocento e del primo Novecento, riproduzioni di quando il Settecento veneziano era di gran moda e testimonianza di quanto il modello sia stato a lungo apprezzato.
Oltre che dai soffitti di Ca’ Rezzonico, dove il magnifico lampadario è arrivato nel 1934 grazie all’acquisto dello Stato e la donazione al nascente Museo del Settecento Veneziano, lampadari Briati a ciocca si mostrano a Palazzo Mocenigo, Centro Studi di Storia del Tessuto, del Costume e del Profumo e nel Museo del Vetro di Murano. Qui tra i due esemplari, uno alla chinese con coppette reggicandela, fiori, foglie, fiocco e pendenti a sfera e grappolo, l’altro a colonna di due piani per 24 bracci con finale a testa di delfino e quattro colonne ritorte, troneggia un lampadario con 60 bracci su quattro piani, alto quattro metri per un diametro di oltre due e un peso di oltre 300 chilogrammi. Composto di 356 pezzi fra bacini, bracci, bacinelle, foglie, fiori, cimiero e fiocchi, fu costruito a fine Ottocento appositamente per il Museo del Vetro dai migliori vetrai e fucine dell’isola, medaglia d’oro alla prima Esposizione Muranese del 1864, e presentato nel 1867 alla grande Esposizione di Parigi.
Dalle volte delle Procuratie a San Marco pendono invece ancora i cesendelli, vetri a forma a coppa per contenere l’olio da bruciare col lucignolo, non è raro trovarli nelle volte delle chiese dei dipinti, o nelle abitazioni, un antico raffinato cesendello col marchio dei Tiepolo è esposto al Museo del Vetro. Nelle calli dove ancora con il buio si girava con la lanterna il gas arriva a metà dell’Ottocento, dopo meno di un secolo ecco la luce elettrica, che oggi accendiamo con un pulsante in confortevoli case dove ancora far risplendere antichi lampadari.
GIRA LA TERRA
Atlante sulle spalle regge l’universo, il cielo scolpito di un globo celeste, con le costellazioni. I globi sono molto antichi, nell’antichità i più diffusi erano i globi celesti, che nel medioevo poi facevano il paio coi globi terrestri. Patrimonio di sapere e studio di astronomi e geografi, disegnati e creati da abili cartografi, decorati con allegorie e dettagli, presenti nelle case e nelle biblioteche di nobili, patrizi, comandanti, ricchi mercanti e oggi nelle sale del Museo Correr. I primi furono appunto in prevalenza celesti. Nel Medioevo di globi se ne producevano di entrambi i tipi, celesti e terrestri, in forma di mappamondi (ma mappa mundi si chiama in realtà la rappresentazione bidimensionale della Terra, spesso appesa ai muri di palazzi e dimore) cercati da studiosi, navigatori, mercanti, eseguiti da cartografi specializzati che attingevano dalle conoscenze astronomiche e geografiche del tempo e componevano gli spicchi che venivano incollati su una struttura di legno montata su strutture diverse per epoca e stile.
Ci furono famosi fabbricatori di globi, fra questi Vincenzo Coronelli, nato a Venezia nel 1650, abile xilografo da giovinetto, frate francescano, che dopo aver girato l’Italia e perfezionato i saperi di astronomia e cartografia e aver fatto a Parigi due celebri globi per Luigi XVI di 382 centimetri di diametro e due tonnellate di peso l’uno (oggi nelle collezioni della Bibliothèque Nationale de France), si ristabilì a Venezia nel 1684, dove venne nominato cosmografo dell’Università della Repubblica Serenissima di Venezia e fondò l’Accademia degli Argonauti, la prima società geografica del mondo. Il suo ritratto è curiosamente “nascosto” in un cartiglio del globo del Correr.
Nel Museo Correr ci sono diversi globi, tra i quali i due di Coronelli, globo celeste e globo terreno, e un sensazionale lavoro cinquecentesco del cartografo veneziano Livio Sanudo. Sono i secoli in cui nasce il pensiero scientifico moderno, di Copernico, Keplero, Galileo, Newton, quando la sfera celeste lascia il posto a quella terrestre, che dopo le nuove scoperte geografiche diventerà ancora più diffusa. Ancora scolpiti in pietra sono invece i due globi, celeste e terrestre, nell’accesso a Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano.
VENEZIA RESISTE
Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1961 nel verde dei giardini napoleonici di Castello mano ignota e fascista con un chilo e mezzo di tritolo faceva andare in mille pezzi di maiolica policroma il monumento alla Partigiana del grande Leoncillo. Di quel monumento però esisteva un originale, che oggi è a Ca’ Pesaro, la Galleria Internazionale d’Arte Moderna. Era il 1953 quando Egidio Meneghetti, presidente dell’Istituto per la Storia della Resistenza delle Tre Venezie, disse che avrebbe voluto un monumento alle donne della Resistenza. Si fece subito una commissione con Giulio Carlo Argan, Sergio Bettini, Giuseppe Mazzariol e Bruno Zevi, che commissionarono il monumento allo spoletino Leoncillo Leonardi, antifascista, combattente e artista. La prima scultura fu scartata, aveva il fazzoletto rosso e non tutti i partigiani erano garibaldini e comunisti, quindi Leoncillo la rifece cambiando colore al fazzoletto, che da rosso diventò bruno. Perciò le sculture sono due, e nel 1964, quando venne fatto il concorso per il nuovo monumento, Ca’ Pesaro acquistò la superstite.
Leoncillo cresce a Roma, dove negli anni trenta con Guttuso e Cagli giravano anche i friulani Afro e Mirko e Pizzinato, segue la scuola romana di Scipione e Mafai, espone a Milano, poi diventa partigiano, poi il dopoguerra e l’arte che riparte, le Biennali a Venezia, le Triennali a Milano, la militanza che continua anche da artista (ma nel 1956 prenderà le distanze dal Partito Comunista di Togliatti), la statua della Partigiana per il decennale della Liberazione e le sculture coperte da sacchi di plastica nella Biennale del 1968. Di quest’ultimo evento c’è un filmato nell’archivio che l’Istituto Luce ha aperto per #iorestoacasa, con alcuni fotogrammi di Leoncillo che ricopre le sue opere.
Il concorso del 1964 per sostituire la statua frantumata dalla bomba lo ha vinto Augusto Murer, con la partigiana distesa e legata che nel 1969 è stata adagiata a Riva dei Sette Martiri (altro nome evocativo, per i partigiani fucilati per rappresaglia dopo l’attentato a Ca’ Giustinian nel 1944) su un basamento disegnato da Carlo Scarpa. Che già aveva firmato il basamento della Partigiana di Leoncillo, che ancora presidia i giardini a Castello in memoria della bomba che fece a pezzi la statua che reggeva.
Nel 2011 la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro ha allestito la mostra La Partigiana veneta. Arte per la Resistenza, con i bozzetti di Carlo Conte, Napoleone Martinuzzi, Ennio Pettenello, Romano Vio, Marcello Mascherini, Giovanni Paganin e Giuseppe Romanelli, che concorrevano con Murer per il nuovo moumento a Castello, insieme a opere di Armando Pizzinato, Renato Guttuso, Zoran Music.
Da tempo immemorabile a Venezia il 25 aprile è dedicato a San Marco ed è anche il giorno del bócolo, la rosa rossa che ogni padre, fratello, marito o amante regala alle donne della sua vita. Per una curiosa coincidenza è anche usanza nel paese spagnolo di Sant Jordi, dove però hanno associato un altro bel gesto: il regalo di un libro. Perciò Lorenzo Tomasin che fra le altre cose è giurato del Premio Campiello (di cui anche MUVE è partner) proprio nella serata di premiazione a settembre dello scorso anno ha lanciato un sempre condivisibile appello: con il bócolo, o per ringraziare del bócolo, quest’anno regalatevi anche un libro.
La scelta è libera e vasta, i Musei Civici di Venezia condividono con voi il catalogo, di Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, l’ultima grande mostra (in collaborazione con Flemish Community, Città di Anversa, VisitFlanders) a Palazzo Ducale In attesa di rientrarci, ripensando a tutta la grande bellezza e storia che contiene, come tutta questa città resistente.
E visto che in questi tempi procurarsi un bócolo non è semplicissimo (ma i fiorai veneziani hanno predisposto un servizio a domicilio) i nostri di Muve Education hanno messo a punto un kit di autocostruzione del bócolo di carta. Trovate tutto dalla mattina del 25 aprile nel loro profilo Facebook
UN PUNTO DIETRO L’ALTRO
Se c’è una storia che lega le donne alle arti veneziane, è quella del merletto. Le donne che per secoli l’hanno creato manovrando aghi e fuselli e quelle che ne hanno saputo fare una risorsa per le donne e per le isole della laguna. Donne di pescatori che in casa o in riva hanno creato pizzi e merletti indossati da patrizi e regnanti, inventato punti diventati famosi e invidiati nel mondo, generato un’economia fondamentale per le aree più deboli della laguna, Pellestrina, Burano, e per le più deboli genti.
Una dogaressa, Morosina Morosini, moglie del doge Marino Grimani, fece aprire negli ultimi anni del Cinquecento un laboratorio di merletto a Venezia, dove si concentrarono 130 merlettaie. Oltre a queste c’erano le tante lavoranti in proprio di questa arte, ed economia, domestica e familiare, in cui eccellevano anche dame dell’aristocrazia, e le bambine e fanciulle che crescevano negli istituti di carità, alle quali si forniva così uno strumento di sussistenza. Il merletto è sempre più richiesto nell’abbigliamento, nell’arredo e nel corredo, Burano è eccellenza. Già dal Cinquecento si sviluppa anche un settore editoriale, non poteva mancare nella Venezia che eccelleva nella stampa come nelle altre arti, di Modellari, libri per merlettaie. Forme geometriche o fiorite, arabeschi, rosoni in forma di trine e pizzi, veli leggeri come nubi tessuti con punti fatti d’aria, per secoli decorano con estrema grazia gole e polsi femminili e maschili, culle degli infanti, volti delle spose, dimore dei patrizi.
Il merletto ad ago, con i suoi punto Burano e punto Venezia, eccelle nell’Europa del Seicento e del Settecento, dove viaggia seguendo le vie delle corti e del commercio delle arti veneziane, e piace soprattutto in Francia, dove complice anche l’arruolamento di alcune decine di merlettaie buranelle decollerà un’industria del pizzo capace di mettere in crisi la stessa Venezia. A questo si aggiungeranno una sempre maggiore meccanizzazione della produzione di tessuti lavorati e la virata di fine Settecento verso stili e costumi più sobri: il merletto di Venezia attraversa l’Ottocento con molta stanchezza.
La regina Margherita di Savoia arriva alla fine del secolo con un’alleanza con la nobildonna Andriana Marcello, sua dama di compagnia, che a Burano in un tentativo di rilancio di economia almeno di sussistenza aveva fondato nel 1872 una Scuola del merletto che riprendeva le antiche tecniche in cerca di nuovi mercati. Margherita di Savoia patrocina l’iniziativa ed è come si direbbe oggi una attiva influencer del merletto. Nell’ultimo decennio dell’800 solo nella scuola che è anche stabilimento ci sono trecento lavoranti, ma già con l’inizio del Novecento la produzione ricomincia a declinare. La scuola chiude nel 1970, la sua vita è stata lunga un secolo, nel 1981 la sua sede diventa il Museo del Merletto di Burano che cura anche il patrimonio della Scuola della Fondazione Andriana Marcello. Del museo è nume tutelare Emma Vidal che a Burano ha preso in mano l’ago da bambina e nel 2016 ha festeggiato il suo centesimo compleanno in quella che era stata la sua scuola. Emma Vidal ci ha lasciati poco meno di un anno fa, e nel canale Youtube di MUVE (https://www.youtube.com/watch?v=eVfPi2vjVm0) c’è una sua emozionante e interessante intervista del 2007.
Le voci delle merlettaie sono ancora oggi nelle case e nelle
calli di Burano, in questo magnifico lavoro di Radio Ca’ Foscari se ne possono
ascoltare diverse, con le loro storie e passioni, una narrazione che lascia
incantati e un documento straordinario. Il podcast è qui: https://www.spreaker.com/user/radiocafoscari/il-merletto-di-burano
E per concludere ancora tra le trine, una segnalazione doverosa va alla settima edizione del Concorso nazionale Un Merletto per Venezia 2020 dato che le iscrizioni sono aperte fino al 20 settembre. Gara aperta ad ago o a fusello, con tecniche antiche o moderne e soggetti classici o inediti, per forme e oggetti di diversi tipi, con un unico tema, che per quest’anno è il cambiamento climatico, in ogni sua possibile declinazione e secondo la personale scelta espressiva. Ogni anno c’è una sorprendente partecipazione da diverse parti d’Italia di persone di ogni provenienza, donne e uomini accomunati dalla singolare ma universale passione per il merletto.
UN SECOLO DI DELPHOS
Venezia è stata New York prima di New York, Parigi prima di Parigi, è città fin dalle origini cosmopolita che costruisce la propria identità elaborando quelle altrui, muovendosi sapientemente fra passato, presente e futuro e fra oriente e occidente. Mariano Fortuny (1871-1949) viene dalla Spagna con una famiglia che vive a Roma, Parigi e Venezia, è figlio di artisti, il padre pittore di fama e collezionista sapiente, di mente aperta e spirito viaggiatore, muore giovane a 37 anni e lo lascia orfano a tre. Il figlio si nutre comunque, per trasmissione familiare, della sua arte e del suo sapere, giovane uomo dal 1890 vive fra Venezia e Parigi, dove nel passaggio al nuovo secolo incontra Henriette che da lì in poi gli sarà sempre sodale e musa. Con lei nei primi anni del Novecento si trasferisce definitivamente a Venezia, e crea un atelier (per dargli una definizione davvero riduttiva) nel Palazzo Pesaro degli Orfei a San Beneto, dietro campo Sant’Angelo, costruendo la storia imprenditoriale, culturale, commerciale più innovativa a Venezia e non solo fra Otto e Novecento.
L’abito Delphos nasce nel 1909. Mariano registra i brevetti sia del vestito (“Modello di abito da donna”) che della plissettatura (“Tipo di tessuto ondulato a pieghe”) e qui aggiunge che l’invenzione va attribuita a Madame Henriette Brassart (cognome della madre). La prima acquirente è la marchesa Luisa Casati, un Delphos di seta cinese stampata e plissettata, seguirà una lunga lista, con Eleonora Duse e Emma Grammatica fra le testimonial. Con le altre produzioni, primo fra tutti lo scialle Knossos, metri di seta stampata con motivi arcaici ellenici nato dal lavoro di costumista di Mariano. Le donne che indossano le creazioni Fortuny sono immortalate da grandi fotografi: Isadora Duncan da Edward Steichen, Selma Schubart dal fratello Afred Stieglitz, l’attrice Régine Flory da Albert Harlingue, gli abiti sono nelle più belle riviste di moda e arte del periodo, quello dell’Art Nouveau, delle arti applicate e dell’arte totale, qui declinata più verso d’Annunzio, che di Mariano Fortuny è stato amico e collaboratore, che di Wagner.
Mariano Fortuny ha un’anima fondamentalmente teatrale, autore di scenografie e costumi porta la messa in scena in tutte le arti che frequenta. Le sue fotografie sono teatrali, lo sono i suoi dipinti e le sue invenzioni illuminotecniche per il palcoscenico, i suoi abiti anche, lo è pure il palazzo, la dimora frequentata assiduamente da artisti e intellettuali che lì si danno appuntamento, si ritrovano, acquistano, conversano, ammirano. Il tintore alchimista, come lo chiamò d’Annunzio, era esempio di quella Venezia decadente ma ancora colma d’orgoglio per i propri tintori, tessitori, decoratori capaci di gradi innovazioni nel novero della tradizione, incrocio di conoscenze di chimiche, congegni meccanici e correnti stilistiche contemporanee.
Gli abiti Fortuny sono indossati da uomini e soprattutto donne di una comunità trasgressiva, raffinata, cosmopolita, intellettuale ma carnale, diafana e spirituale, da donne emancipate e artiste, moderne nella loro secca e metafisica sensualità, esse stesse parte attiva nel successo dell’abito, il Delphos non fu solo un modello innovativo nella forma, ma un modo nuovo e moderno di vestire le donne europee del XX secolo. Nel Palazzo a San Beneto i Fortuny producono stoffe e sete, nel 1919 Mariano costruisce con Stucky la fabbrica che alla Giudecca produrrà cotoni stampati per arredamento, nel 1913 hanno aperto boutique a Parigi, Londra, poi New York. Mariano continua il suo lavoro nella scenografia e nell’illuminotecnica, deposita brevetti. Nel 1929 c’è il crollo delle Borse, seguiranno l’autarchia, la decadenza delle eccellenze italiane, un’altra guerra, l’ultimo atto della vita di Mariano Fortuny sarà la ripresa nel secondo dopoguerra della factory a Palazzo Fortuny. Nel 1949 lascia questa terra, fine della produzione e Henriette occuperà il resto dei suoi anni, fino al 1965, per le donazioni delle opere della famiglia Fortuny alle collezioni di musei europei, soprattutto spagnoli, e per la catalogazione dell’archivio.
Il Delphos ha proceduto immutato (in diverse versioni: con manica corta o lunga, in uno o due pezzi, con o senza cintura decorata, ma sempre con la preziosa plissettatura) grazie alla forma costante e alle tavolozze cromatica e decorativa infinite, in molti esemplari, dal 1909 al 1949, l’ampiezza temporale del laboratorio, in molti sensi, che fu e che oggi è Palazzo Fortuny.
Nota: nei percorsi digitali in Google Arts&Culture si possono visitare le sale e ammirare i capolavori in alta definizione e con grande emozione. Sempre in attesa di rivederli dal vero.
Tutti a casa, cosa c’è di meglio di una buona lettura. Il festival di letteratura di Barchetta Blu 2020 “Libro che gira, libro che leggi” quest’anno si è spostato on line con diverse iniziative. Comprese quelle dei Servizi Educativi MUVE: appuntamento con il 2 e il 9 maggio per scoprire le miniature e nuovi mondi. Tutti gli aggiornamenti nel profilo FB di Muve Education qui.Per continuare a divertirsi con l’affascinante storia di Palazzo Fortuny e per conoscere il volto di Mariano, c’è un puzzle da fare on line, per ricomporre l’autoritratto del 1947. Per trovare altri puzzle che ricompongono la storia del Palazzo e delle creazioni della famiglia Fortuny, e una serie di storie interessanti sulle loro vicende, il consiglio è di seguire il profilo Facebook del museo.
IL CONTE NINNI E L’ARTIGIANO MARELLA
Il conte Alessandro Pericle Ninni, nato a Venezia nel 1837, insigne naturalista, la laguna la conosceva bene, persone comprese. Quando nel marzo del 1880 il Ministro d’Agricoltura del Regno d’Italia gli chiede di costruire la rappresentazione del lavoro dei pescherecci nella laguna veneziana per l’Esposizione Internazionale della Pesca a Berlino, il conte Ninni sa già dove andare: a Chioggia, da Angelo Marella, modellista dilettante e acuto osservatore e annotatore di usi e costumi della pesca lagunare.
L’appuntamento con Berlino è imminente, Ninni e Marella in meno di un mese mettono insieme oltre 60 modelli di imbarcazioni e attrezzi per la pesca, il trasporto, lo stoccaggio, la lavorazione e la distribuzione del pescato, che li accompagna seccato o conservato in vetro. L’anno dopo è la volta dell’Esposizione Industriale di Milano. Nasce così la collezione Ninni-Marella, preziosa raccolta che continua a crescere fino a circa il 1890, quando viene donata al Civico Museo e Raccolta Correr e diventa parte del nucleo fondante di quello che nel 1923 diventa il Museo di Storia Naturale di Venezia, oggi intitolato a Giancarlo Ligabue.
La laguna nei secoli non è mai rimasta uguale a se stessa, per cause naturali e più spesso umane che hanno determinato modifiche ambientali e biologiche. Nella seconda metà dell’Ottocento, quando Angelo Marella costruisce i suoi modelli di barche, reti, remi, scalmi, attrezzi vari, con una raccolta di oltre mille acquerelli di vele al terzo, una per famiglia di pescatori, le bocche di Malamocco e Lido sono armate con imponenti dighe foranee, che restringendo la bocca aumentano la corrente che scava il canale, per aumentare l’accesso alle navi più grandi, a vapore. Da allora sono drasticamente diminuite velme e barene, è aumentata la profondità dei fondali, il maggiore scambio col mare ha portato più salinità, mettere la pietra in acqua ha favorito la fauna dei fondali rocciosi. I pescatori dell’Ottocento navigavano in acque diverse. Ma i veneziani non hanno plasmato solo la laguna, hanno nominato e modellato ogni barca e ogni pezzo della barca con una bellezza funzionale che può appartenere solo a questo mondo, di cui la scientifica Collezione di Modelli di Imbarcazioni ed Attrezzi da Pesca del conte Alessandro Pericle Ninni con i suoi 184 modelli è un’incredibilmente dettagliata testimonianza.
La barca lagunare ha il fondo piatto, se va a vela scarroccia, quindi le reti dello strascico in laguna non sono trascinate dalla poppa, ma di traverso. Si pesca anche con le mani, sotto due palmi d’acqua quando la marea s’abbassa, a brazzo. A primavera l’acqua della laguna si scalda più del mare e i pesci entrano, in autunno succede il contrario, si pesca intercettando. Le valli da pesca si usano dal Mille, nell’Ottocento sono un’efficiente forma di allevamento, con i novellanti che vanno a prendere il pesce da semina per riempirle. I molecanti esistono dal Settecento, di granchi se ne tirano su migliaia di tonnellate, si usano anche come fertilizzante per i carciofi di Sant’Erasmo. Il pesce pescato si porta a casa vivo, con la barca che trascina la maróta. In laguna si va a remi. La collezione Ninni-Marella è stata esposta da giugno dello scorso anno nel Centro Culturale Candiani a Mestre con disegni, descrizioni dettagliate delle tecniche di pesca, del pescato e della fauna, dell’ecosistema lagunare, della storia della laguna di Venezia. Radio Ca’ Foscari ha confezionato sulla mostra un ottimo audiodoc, con la presentazione dei curatori e il racconto di Luigi Divari che fa viaggiare nel tempo: la pesca in laguna è arte di lunga tradizione che si tramanda di generazione in generazione.
Dedalo sta preparando le ali di cera per Icaro, per fuggire da Creta. Secondo il mito il giovane Icaro si avvicinerà poi troppo al sole, sciogliendo le ali e precipitando in mare. Antonio Canova li ha scolpiti fra il 1777 e il 1779, la scultura è esposta nel Museo Correr che ce lo ricorda con un post nel suo profilo Facebook.
Qui la laguna è vista dalle logge di Palazzo Ducale a metà Ottocento, dallo scenografo veneziano Giuseppe Bertoja. Il disegno è conservato dal Gabinetto Stampe e Disegni della Fondazione Musei Civici, è proposto con altri nel profilo Facebook di Palazzo Ducale
QUEL FENOMENO DI CLARA
Clara ha tre anni quando arriva in Europa. È nata in India, dalle parti di quella che oggi è Calcutta, è cresciuta nella casa del direttore della Compagnia olandese delle Indie Orientali del Bengala, che all’età di due anni l’ha affidata al capitano van de Meer, che nel 1741 l’ha caricata sulla sua nave e l’ha portata a Rotterdam. Da lì in poi Clara girerà tutte le capitali d’Europa, sarà ammirata dal popolo e dagli intellettuali, ricevuta da regnanti, narrata da poeti, dipinta da artisti e raffigurata in numerosi gadget, accessori di moda porteranno il nome della sua famiglia. Sarà anche, nel 1751, in piazza San Marco, per il Carnevale di Venezia. Lì la ritrae il pittore Pietro Longhi, in uno dei suoi quadri più celebri: Il rinoceronte
Piazza San Marco nel Settecento è teatro di grandi feste e manifestazioni popolari e istituzionali, a volte con tutt’intorno un teatro di costruzioni di legno per saltimbanchi, giochi, mercanti e meraviglie. In uno di questi è esposta Clara, anche a Venezia nessuno ha mai visto un simile animale. Dato l’enorme successo di Clara già dal suo arrivo a Rotterdam il capitano van de Meer nel 1746 parte per un lungo tour, arriva in Italia nel 1749, e qui forse perde il corno, tenuto in mano da van de Meer nel quadro del Longhi.
Clara appare mite e paciosa, ha un’aria goffa, malinconica e indifferente, mentre gli spettatori assistono alla sua esistenza, qualcuno con la bauta, una giovane donna con una moretta, un maschera in velluto nero che si indossa mordendo un bottoncino. Il “Vero ritratto di un Rinocerotto” del Longhi è stato acquistato dai Musei Civici nel 1895, dalla collezione Morosini, e dal 1936 è esposto nel Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico. Pietro Longhi, artista famoso per opere che ritraggono la vita quotidiana dei veneziani in interno, in questo quadro mostra il gusto della rappresentazione di fatti eccezionali tratti dal vero: l’artista ne dipinse poi un altro analogo, ma senza i riferimenti al committente inseriti nell’originale, per soddisfare la richiesta di un altro nobiluomo, Girolamo Mocenigo, oggi alla National Gallery di Londra.
L’ultima volta in cui si ha notizia di un rinoceronte in Italia risale all’antica Roma di Plinio il Vecchio che lo descrive combattente con gli elefanti nell’arena. In Europa, o meglio a Lisbona, ne è poi sbarcato uno nel 1515, ed è diventato anche lui celebre, nonostante la sua brevissima vita, grazie a un ritratto di Albrecht Dürer che circolò poi come unica immagine di un rinoceronte per un paio di secoli, anche nei libri di storia naturale, nonostante fosse un ritratto quasi immaginario, fatto da Dürer sulla base di descrizioni e con qualche errore anatomico, come le squame sulle zampe o un corno che spunta dal dorso, tra l’unicorno e il drago (del rinoceronte di Dürer furono fatte molte riproduzioni, una delle incisioni originali è conservata nei Musei Civici di Bassano del Grappa). Viene soppiantato da Clara, e da un altro paio di rinoceronti di minore fama transitati in Spagna e a Londra.
I rinoceronti sono sulla terra da una quarantina di milioni di anni, e trentamila anni fa erano fra i soggetti preferiti dei pittori delle grotte, oggi sono quasi del tutto sterminati. Nei secoli scorsi, quando vivevano ancora indisturbati in Africa (con due corni) e in Asia (con un corno solo) in Europa sono stati animali quasi mitologici, rarissimi, a volte indicati come il vero unicorno. Clara per 17 anni ha girato il mondo nelle fiere e nelle regge dei regnanti, mostrandosi per quello che era, è morta inaspettatamente il 14 aprile 1758 a Londra, a soli 20 anni.
I RIBELLI DI CA’ PESARO
Sono raggruppati sotto la definizione di Ribelli di Ca’ Pesaro, ma non sono mai stati un gruppo di artisti in senso solito. Non avevano un fine programmatico comune, e neppure un comune manifesto, o un comune sentire artistico. Erano accomunati dalla giovinezza dalla loro arte, che a Venezia si esprimeva tra l’accogliente Ca’ Pesaro e l’antagonista Esposizione Internazionale d’Arte, da sempre detta La Biennale. Nel Palazzo Pesaro, secondo le volontà testamentarie della duchessa Felicita Bevilacqua, vedova del generale garibaldino Giuseppe La Masa, che aveva donato il palazzo alla città nel 1898, ci sono studi per giovani artisti e spazi espositivi e l’Esposizione Permanente di Arti ed Industrie veneziane, nome delle mostre organizzate dal 1908. Anno di insediamento dell’appena ventenne Nino Barbantini nel ruolo di segretario dell’Opera Bevilacqua La Masa, con il presidente Conte Filippo Nani Mocenigo e un Consiglio di vigilanza. Nominato dal Comune, che nel 1902 aveva inoltre deciso il trasferimento nel Palazzo di Ca’ Pesaro, sotto la direzione dello stesso Barbantini, della Galleria d’Arte Moderna istituita per acquisire le più notevoli opere delle Biennali d’Arte, di cui indiscusso capo all’alba del Novecento è il senatore veneziano Antonio Fradeletto.
Questa generazione di artisti di Ca’ Pesaro si confronta nel passaggio al nuovo secolo con le avanguardie europee, l’espressionismo, il cubismo, il futurismo, alcuni di loro viaggiano, a Parigi, a Monaco. Il loro tratto comune è il rinnovamento della pittura locale, i luoghi e paesaggi prediletti sono le decentrate Burano e Mazzorbo, ma il loro linguaggio pittorico non è uniforme e sono tendenzialmente poco definibili. Sono autori anche molto diversi fra loro che si sono trovati a un certo punto della loro carriera a esporre a Ca’ Pesaro tra il 1908 e il 1919, una fronda antiaccademica che cercava il proprio ruolo nel nascente sistema moderno dell’arte, che gravitava attorno al propulsore Barbantini e si confrontava coi diversi poli espositivi veneziani e con il mercato dell’arte.
La prima Esposizione Permanente di Arti ed Industrie veneziane è del 1908. Ci sono alcuni riconosciuti maestri veneziani, che l’anno prima hanno esposto in Biennale, ad accompagnare la prima mostra dei giovani, che hanno in media 25 anni, tra i quali Gino Rossi e lo scultore Arturo Martini e un giovanissimo Guido Cadorin, che l’anno prima appena sedicenne aveva partecipato alla Biennale. Dove negli anni alcuni artisti di Ca’ Pesaro, con l’importante filtro dell’Accademia, esposero frequentemente, altri meno, o tardivamente. A Ca’ Pesaro le esposizioni collettive, di decine di autori, sono sempre accompagnate da personali, con Umberto Boccioni, Felice Casorati, Tullio Garbari, Umberto Moggioli, Arturo Martini, Gino Rossi, Teodoro Wolf Ferrari, si va costruendo un’identità capesarina.
Il 18 maggio apre l’Esposizione del 1913, che per alcune opere soprattutto di Arturo Martini e Gino Rossi e Ubaldo Oppi, viene accusata di essere scandalosamente futurista con conseguente decadimento del decoro veneziano, con stroncature sul giornale nazionalista La Difesa e interrogazioni in consiglio comunale, insomma diventa il casus belli in uno scontro istituzionale di spazi espositivi pubblici. L’anno seguente l’ Esposizione a Ca’ Pesaro non viene autorizzata dal sindaco Grimani, che è anche presidente di Biennale, dove non vengono accettate le opere di Rossi e Martini. Gli artisti reagiscono con la Mostra dei rifiutati che apre il 20 giugno 1914, otto giorni prima dell’attentato a Sarajevo, in una sala al piano terra dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. Poi viene la Guerra, anche gli artisti di Ca’ Pesaro vanno al fronte. Torneranno nel 1919, con alcuni di loro nella Giuria di accettazione e un’importante personale di Pio Semeghini. Nel 1920 i capesarini abbandonano Palazzo Pesaro per protesta contro l’esclusione dall’esposizione, perché non veneziano, di Felice Casorati (che aveva scelto di non esporre alla Biennale). Nel 1925 Nino Barbantini diventa direttore dei Musei Civici veneziani. Nelle collezioni della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro c’è anche il racconto di questa straordinaria stagione, quando nella rappresentazione di Venezia i volti dei pescatori hanno preso il posto di gondole e marine, i colori sono stati stravolti e soggetti noti e riconoscibili sono stati finalmente rappresentati con modi figurativi contemporanei. Nel cambiare della città, hanno cambiato la sua rappresentazione. Quella di Ca’ Pesaro è stata la prima generazione di artisti del Novecento, che pur senza essere una vera avanguardia ha segnato le origini dell’arte moderna a Venezia.
IL MONDO NUOVO
Il Mondo Nuovo è una scatola. Ha una finestra per guardarci dentro e una lanterna che retroillumina luoghi e episodi lontani, di cui si sono solo sentiti i racconti. Per guardare nel Mondo Nuovo si girano le spalle a quello che sta intorno e si entra nell’incanto della visione. Piace a tutti, ai grandi e ai piccoli, ai dottori e alla povera gente, è una settecentesca attrazione di piazza, si chiama anche pantoscopio. Un esemplare è conservato al Museo Correr.
Giandomenico Tiepolo nasce a Venezia nel 1727 dal suo celebre padre Giambattista e dalla madre Cecilia Guardi, sorella del pittore Francesco. Entra subito a bottega, adolescente già segue il padre nelle importanti commesse nei palazzi d’Europa, prima imitandone il tratto e poi sviluppando una personalità propria. Sono gli anni di Carlo Goldoni e Giacomo Casanova, Venezia è meta del Grand Tour e ancora cosmopolita, Giandomenico ha trent’anni quando lavora nella Villa Valmarana ai Nani a Vicenza, dove, mentre Giambattista si occupa della Palazzina, dipinge una foresteria con soggetti propri, realisti, compreso un affresco con una piccola folla di spettatori che si accalca attirata da un imbonitore verso un Mondo Nuovo.
Giambattista Tiepolo è celebre e ricco, nel 1757 acquista una villa vicino a Mirano, a Zianigo, come dimora di campagna. I primi dipinti di Giandomenico in villa sono del 1759, una scena a piano terra della Gerusalemme Liberata, ma anche un soffitto con un falchetto che insegue uno stormo di passeri. Nel 1762 Giandomenico segue a Madrid il padre, chiamato dal re di Spagna Carlo III Borbone per dipingere nel Palazzo Reale, dove il 27 marzo 1770 Giambattista Tiepolo, nato a Venezia il 5 marzo 1696, a 74 anni muore. Il figlio torna quindi a Venezia, e nella villa di Zianigo, dove riprende ad affrescare. E ridipinge il Mondo Nuovo. La data ultima sugli affreschi della villa di Zianigo è il 1797 ovvero l’anno della caduta della Repubblica, pochi anni dopo la Rivoluzione francese, pochi prima dell’arrivo di Napoleone in laguna, per Venezia è davvero l’arrivo di un mondo nuovo. Che Giandomenico Tiepolo sia il cantore della decadenza è scontato, lo è meno come lo fa. L’imbonitore con la stecca, una donna corpulenta con un copricapo, popolani, nobiluomini curiosi e nobildonne distaccate e sventaglianti, una maschera di pulcinella, un’indistinta laguna sullo sfondo, i colori tenui. A parte un ragazzino in camicia bianca e due signori, che altri non sarebbero che padre e figlio Tiepolo, uno a braccia conserte con faccia divertita e l’altro un passo dietro ma proteso e osservante col monocolo, gli altri sono tutti di spalle. Gli sguardi della massa anonima ma rappresentativa sono tutti per il Mondo Nuovo, lontano, non ancora conosciuto, in cerca di notizie sul futuro. Venezia vive la fine di una storia millenaria.
Giandomenico Tiepolo muore nel 1804, a 76 anni, per quasi quaranta ha decorato la villa di Zianigo lontano dagli occhi dei committenti, per i quali continuava a lavorare, costruendo la sua narrazione della fine di un mondo e della sua popolazione, con un’ironia inquietante, la beffarda decadenza dei pulcinella del Divertimento per li regazzi, la struggente aspettativa del Mondo Nuovo. Dopo la morte di Giandomenico la villa ebbe diversi proprietari, gli affreschi nel 1906 furono strappati per essere rivenduti in Francia e poi invece intercettati e acquistati dal Comune di Venezia e trasferiti nel 1935 nel Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico.
Nel podcast del Museo Nazionale di Radio Rai un’ottima puntata è dedicata al Mondo Nuovo di Giandomenico Tiepolo, accuratamente raccontato da un intrigante Valter Curzi, docente di Storia dell’Arte moderna alla Sapienza. Si ascolta nel sito di RaiPlayRadio.
NUDI DI DONNA: GIULIA LAMA
Di mestiere era ricamatrice, ma dipingeva e disegnava. Di lei non sappiamo molto, se non che era figlia d’arte, essendo suo padre Agostino un pittore locale, come il suo padrino di battesimo, e che nacque nel 1681 dietro Santa Maria Formosa, dove dopo il 1720 ha poi dipinto la pala dell’altare maggiore, una delle sue opere più conosciute con la Crocifissione a San Vidal.
Nel Settecento non erano rare le donne che dipingevano, ma Giulia Lama lo faceva discostandosi dalla media in due modi: praticando la pittura storica e dipingendo grandi scene religiose invece di ritratti, nature morte, miniature, più usuali nell’arte pittorica domestica femminile, e andando a competere su un mercato feroce a predominanza maschile, quello delle commissioni ecclesiastiche e di palazzo.
Di mestiere Giulia Lama era ricamatrice e merlettaia, e mai si iscrisse alla Fraglia dei Pittori, ma nella scena cittadina si muoveva con gli stessi committenti che a quella corporazione attingevano. Sulla scena internazionale si muoveva invece la sua contemporanea Rosalba Carriera, che ritraeva a pastello personalità e regnanti d’Europa con risultati eccelsi. Giulia Lama non si mosse mai da Venezia. Non era bella, anche all’epoca non mancava il notista di costume che lo facesse notare. Da altre scarne notizie sappiamo ch’era erudita in filosofia e matematica e frequentava circoli scientifici e umanistici e che scriveva apprezzate poesie. Non era amata, fu anzi molto osteggiata. Suo sodale fu però il quasi coetaneo Giambattista Piazzetta, che dirigeva l’Accademia di Nudo che la stessa Giulia frequentò nei primi anni del Settecento.
Nel complesso sistema delle corporazioni veneziane gli artisti furono originariamente parte dell’Arte dei Depentori, che comprendeva molte declinazioni. Nel 1436 ebbero un loro ordinamento statuario che confluì nella mariegola redatta nel 1517, dal 1679 chiesero al Doge di scorporarsi definitivamente e di creare un’Accademia. Nel 1682 era istituita l’Arte dei Pittori e finalmente nel 1750 è concessa una sede alla gioventù per lo studio del disegno. Nasce così la Veneta academia di pittura, scultura e architettura il cui primo direttore è un già anziano Giambattista Piazzetta, che morirà nel 1754 a 71 anni, un po’ più giovane è il presidente Giambattista Tiepolo. Il Settecento è il secolo dell’istituzione dei primi musei pubblici, delle istituzioni scientifiche, delle accademie, in cui talvolta, molto raramente, entrano anche le donne.
Piazzetta, pittore e disegnatore eccellente, come altri artisti aveva a Venezia una scuola di disegno dal vero, dove anche una Giulia Lama almeno trentenne si esercitò con nudi maschili e femminili. Il suo segno è influenzato da quello del maestro, non è lineare e analitico ma definisce bruscamente le figure contrastando luce e ombra. Massa e movimento, resi con forti chiaroscuri, contano più dell’anatomia, che in Giulia Lama si fa inesatta, la mano talvolta indecisa, forse ancora inesperta.
Nel Gabinetto Stampe e Disegni della Fondazione Musei Civici di Venezia ci sono molti lavori degli allievi dell’accademia di Piazzetta e nei fasci di carte spesse e ruvide si trovano anche 12 fogli di Giulia Lama, oggetto nel 2018 di una mostra nel Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico che conserva anche il suo dipinto con decapitazione Il martirio di Sant’Eurosia. Tracciati con gesso nero e rosso e lumeggiature bianche, talvolta dopo aver acquarellato la carta, per la maggior parte sono nudi maschili, anche in questo Giulia Lama si distingue dalle sue contemporanee colleghe. Artista con qualità e abilità specifiche, tra i pittori veneziani si distinguerà per il suo tenebrismo e la pittura essenziale con violenti contrasti di luce. La sua arte ha avuto storicamente giudizi contrastanti, la sua riscoperta più recente è dovuta a Rodolfo Pallucchini nel 1933, che ne ha esaltato la modernità, sia artistica che biografica.
Di Giulia Lama restano diverse attribuzioni, molte opere sono andate perdute, e un suo bel ritratto dipinto da Giambattista Piazzetta (oggi nel museo Thyssen-Bornemisza a Madrid, è stato esposto in Canaletto & Venezia, mostra del 2019 a Palazzo Ducale. C’è anche un suo autoritratto (oggi nella Galleria degli Uffizi ) che Giulia Lama dipinse nel 1725, ritraendosi con tanto di pennelli in mano, e chissà se i suoi colleghi e concorrenti l’accusarono anche per questo di sfacciataggine. Se n’è andata nel 1747, nella stessa casa in cui era nata 66 anni prima.
C.S.
Fonte: Muve Newsletter- Canali Social
Contenuti: Musei Civici
Fondazione Musei Civici di Venezia
Piazza San Marco 52
30124 Venezia
T +39 041 2405211
https://www.facebook.com/visitmuve
https://www.instagram.com/visitmuve/