Qualche anno or sono, passeggiando nel centro storico di Mantova, si rischiava di venire travolti da un emulo di Learco Guerra, ciclista inventore della posizione a proiettile. Il centauro a pedali era Enzo Dara che, senza rallentare il velocipede, rispondeva con un cenno gioviale e un sorriso radioso al “canchero” – in vernacolo equivalente a un saluto affettuoso – lanciato dall’amico, scampata vittima di turno. E via, verso la casa sita alle spalle del Duomo, in un vicolo cieco che affaccia sui laghi, verso la Rocca di Sparafucile. Personaggio verdiano di casa a Mantova, ma non per il Maestro. Tutt’altro repertorio. Enzo Dara era un basso buffo e al buffo nell’opera riuscì a dettare nuovi canoni, innovando gli stereotipi che volevano questo genere di ruoli “sporcato” da marcature vocali e sceniche. Dara si impose grazie alla comicità esilarante e al contempo elegante, dagli accenti calibrati senza eccessi, senza tracimare nel macchiettistico.

A impostargli la voce fu il M° Sutti, sempre ricordato con riconoscenza. Per pagarsi le lezioni di canto, il giovane Dara collaborava come giornalista pubblicista con il Resto del Carlino, sulle cui pagine si firmava con lo pseudonimo di Enzo Morini. Una passione, per lo scrivere, mai abbandonata e in seguito sfociata in alcune spassose pubblicazioni autografe, come “Anche il buffo nel suo piccolo”. Poi gli “anni di galera”, ovvero la gavetta in ruoli da comprimario. Ventiquattrenne, ebbe la sua prima audizione importante, con il Maestro Claudio Abbado che gli aprì le porte del successo, sfolgorante. Al Metropolitan di New York riscosse un applauso prima ancora di aver cantato, per il saltello, che divenne in seguito una delle sue caratteristiche attoriali, con cui in quella occasione scansò il “dono” lasciato sul palco da un asinello emozionato dalle luci della ribalta. Enzo Dara fu osannato alla Scala di Milano, al Festival dei Due Mondi di Spoleto e nella Rossiniana Pesaro, al Bol’šoj di Mosca, alla Staatsoper di Vienna, all’Opéra di Parigi, al Covent Garden di Londra, al Liceu di Barcellona, al Colón di Buenos Aires, all’Opéra di Montecarlo, a Huston e in Giappone, per un totale stimato di millecinquecento recite.

«Le parti del basso buffo sono quasi tutte cattive: i grandi buffi fanno anche piangere, vedi Totò. I personaggi carogne sono nobilitati dalla musica e per questo il pubblico li ama» dichiarò il Maestro durante l’omaggio che gli fu dedicato nel 2010, in occasione dei suoi 50 anni di teatro. Le gag non bastano, bisogna filtrarle attraverso l’introspezione del personaggio. Enzo Dara possedeva il dono di blasonare il ruolo con la propria personalità e la tecnica, insuperabile nei sillabati veloci, nelle agilità, nella luminosità che sprigionava la voce. Fu oltre quattrocento volte Don Bartolo, poi Dulcamara, Geronio, Don Annibale Pistacchio, Don Pasquale. Sostenne, in vari momenti della carriera, ruoli diversi di una medesima opera: sia Don Magnifico che Dandini in Cenerentola; Mustafà e Taddeo nell’Italiana in Algeri. Fu un Barone Trombonok mitico, passato alla storia. Rimpianse solo i panni mai vestiti di Leporello e Falstaff. Più di settanta creature che, scrisse ne “I personaggi perduti”, sentiva come suoi veri figli.

«C’è differenza tra conoscere la musica e sentire la musica: la musicalità non si impara, è un dono» che il Maestro declinava con trasporto emotivo, compendio del suo pensiero artistico: «Ho amato il teatro quanto la musica». Negli ultimi anni, in cui si era dedicato alla regia, aveva regalato altre perle di saggezza: «non esistono regie tradizionali e regie moderne, ma regie belle e regie brutte», intendendo per queste ultime quelle irrispettose dell’espressività della musica.

Mantovano doc, era nato il 13 ottobre del 1938 e, non ancora ottantenne, è passato ad altra, certamente divertente vita, nell’afoso pomeriggio del 25 agosto 2017. Era sposato al soprano Ivana Cavallini, che per lui abbandonò la carriera e lo seguì ovunque. La genuinità padana emergeva nel privato, nell’uso del dialetto esibito come aulica lingua e intercalato con espressioni colorite, schiette, e sospiri agognanti una fetta di salame. Mantovanità di cuore e “di pancia”, per il fisique du role che tradiva l’amore per la buona tavola. Oltre alle risottate con Wally Toscanini, rimangono memorabili le spedizioni degli amici improvvisatisi fattorini per consegnare, a lui e Abbado, nei teatri di mezza Europa, una fornitura urgente di tortelli di zucca.

Addio caro Maestro. Aspetto domani la sua immancabile telefonata di complimenti, immeritati, per questo mio articolo, piccola cosa rispetto alle lodi tributatele dai più esigenti critici mondiali, ma che lei saprebbe come sempre gratificare, con animo grande quanto la sua immensa indimenticabile arte.

Maria Luisa Abate