Uno spettacolo in cui l’eleganza di un apparente nulla ha evocato la concretezza materica di un tutto. Il ritmo è stato l’elemento caratterizzante de “Il muro trasparente – Delirio di un tennista sentimentale”. Sul refrain di un vecchio successo da hit parade che ripeteva insistentemente «ricominciamo», si è innestata la scansione irregolare del tempo data dalla pallina da tennis che Paolo Valerio, senza fallire un colpo (lui è un 3.4 secondo i parametri FIT) ha rimbalzato contro un muro di plexiglass collocato in proscenio, tra il palco e la platea. Non (solo) mezzo di distanziamento sociale, bensì un’evidente metafora del presente, del teatro e della vita. Un omaggio, hanno ricordato le note di presentazione, alla quarta parete immaginaria teorizzata nel 1758 in De la poésie dramatique da Denis Diderot ma che, aggiungiamo, già era un concetto presente nel teatro di Plauto o di Terenzio e poi fu ampiamente praticato nel teatro dell’assurdo. La quarta inesistente parete divide simbolicamente il mondo reale da quello fittizio; ambiti che si sono sovrapposti nel presente caso.
Una trasparenza resa tangibile da segni di finestratura (scena di Antonio Panzuto), che ha separato i gesti ma unito gli sguardi, che ha schiuso un diverso orizzonte semplicemente mutando la prospettiva consueta. La pallina scagliata con forza verso i palchi vuoti (in rispetto delle norme anticontagio) si è candidata a essere mezzo di interazione tra attore e pubblico; e per chiunque si trovi, come il personaggio Max, sballottato tra giornate belle e brutte, tra comprensioni e incomprensioni, cercando di conquistare una donna. O due! O piuttosto, attraverso esse, a cercare l’amore, che sembra a portata di mano ma è irraggiungibile per quanti non siano capaci di valicare l’invisibile divisoria e vincere il match. La donna: «è lei, la tua gara». La partita di tennis ha sottaciuto con eleganza un amplesso amoroso. Il ritmo dell’agone tennistico ha rallentato e accelerato, ha alternato tiri lunghi e ravvicinati scanditi da irruzioni sonore (fonica di Nicola Fasoli) accompagnate da prepotenti luci aranciate (Marco Spagnolli) che hanno tinto il fondale sul quale erano proiettate immagini in bianco e nero dei campioni del passato.
Il tennis è un rimando per eccellenza all’attualità: è uno sport che si gioca da soli, tenendo l’avversario a distanza, senza un contatto diretto con il “nemico”. Dove il nemico nella vita vera è il virus, mentre nella piéce l’avversario eravamo noi. Una sfida disputata contro se stessi. Il sentimento d’amore altro non è che un rimpallo con il proprio “io”, contro la barriera interiore. Senza dimenticare che in campo erano scesi da una parte il teatro, dall’altra la pandemia e il trofeo in palio era la ripartenza. Lo ha detto esplicitamente un passo del testo (spettacolo a cura di Monica Codena, Marco Ongaro e dello stesso Paolo Valerio): «bisogna cambiare il modo di giocare, fare tutto in modo diverso». Cosa che Valerio ha realizzato con una straordinaria tenuta atletica e più che straordinaria capacità di coordinazione tra il gesto sportivo e la recitazione attoriale.
In questi giorni quasi ogni Teatro in Italia ha vantato di essere il primo a riaprire dopo la chiusura. Il Teatro Nuovo è per davvero stato il primo nel Veneto e in pole position nella Penisola, per il desiderio granitico, potremmo dire per l’indomito spirito agonistico, di tornare alla normalità preparandosi in anticipo e facendosi trovare pronto all’appuntamento con questa nuova produzione al debutto. Tutto il possibile è stato fatto per esorcizzare la paura senza dimenticare la necessaria dose di prudenza. Ingressi bene ordinati con mascherina, platea occupata “a macchia di leopardo” dai sessanta spettatori consentiti dalle normative, cuffie sanificate distribuite entro buste di plastica. Il monologo infatti si è svolto sulla falsariga di altre produzioni di successo dello Stabile di Verona, in silenzio, con l’audio in cuffia e la sala in penombra dove occhieggiavano le luci azzurre dei led.
Un risultato quindi andato ben oltre la sua valenza artistica, testimonianza di un momento storico da ricordare grazie anche al vettore teatrale. A ulteriore riprova della funzione principalmente metaforica del plexiglass è stato il finale, in cui le glorie del tennis veronese, presenti in platea, sono state invitate a qualche racchettata sotto i riflettori: «avanti, salite sul palco, non siate timidi. Quando più vi ricapiterà un’occasione come questa?»
La recensione di Maria Luisa Abate
Visto al teatro Nuovo di Verona il 17 giugno 2020
Contributi fotografici: Luciano Perbellini