Abbiamo intervistato Federico Longhi durante lo svolgimento delle prove di “Rigoletto al barsò”. Il baritono è protagonista nel ruolo del titolo, che ha già interpretato quarantacinque volte in Italia e in Europa, e che debutta a Parma nella nuova produzione del Teatro Regio, al Parco della Musica dal 29 giugno al 16 luglio 2020. Ringraziamo il Maestro per la gentilezza e la generosità nelle risposte, pari alla generosità della sua splendida voce.
Dopo aver debuttato, lo scorso dicembre, il Conte di Luna in Trovatore, è tornato a un personaggio da lei molto frequentato, Rigoletto. Cosa significa cantare Verdi a Parma e debuttare qui in un ruolo così importante?
Significa tanto, significa molto, significa non dico tutto ma quasi. Perché Parma ovviamente è una terra verdiana e da diversi anni mi sto realizzando come baritono verdiano, con la giusta crescita psicologica e fisica, che è importante. È un compositore che mi porto dietro dall’inizio. Il discorso è un po’ lungo, perché anche ieri, trovandomi al Parco della Musica, all’auditorium dove c’è il famoso barsò (n.d.r. di cui il titolo della produzione) mi sono imbattuto nella statua di Toscanini, grandissimo direttore d’orchestra amante di Verdi, molto amico e Maestro del mio grande Maestro Giuseppe Valdengo. C’è Parma che mi parla di Verdi, mi sono trovato Toscanini davanti, e Valdengo. Sappiamo benissimo la storia e il lavoro e l’amicizia che era nata tra di loro, dal punto di vista vocale e umano. Verdi è stato quasi il mio primo compositore, perché ho debuttato in un concerto nel 1993 con Valdengo, con il famoso duetto Falstaff e Ford, dove io cantavo Ford. Un “duettone” famoso, stupendo, nel mezzo del quale c’è quest’aria bellissima. Quindi torniamo a Verdi e torniamo a Falstaff, opera che poi mi ha portato a lavorare col Maestro Muti, legato anche lui a Toscanini. Un grande piacere e un grande onore legato al fil rouge che c’è nella vita. Come ho detto un giorno al Maestro Muti a quattr’occhi: Verdi – Toscanini – Valdengo, poi ci sono io, solo cronologicamente. Dopo Valdengo è arrivato il maestro Muti con il quale ho fatto Falstaff e anche Aida, e poi è arrivata questa avventura nelle terre verdiane. È tutto un grande filo rosso, un legame che si corona con questo ruolo, con questo titolo ambitissimo da tanti baritoni, Rigoletto a Parma, dove mi riecheggia il grande Valdengo che mi ha fatto conoscere e vivere la storia delle terre verdiane con i suoi protagonisti. Ripeto: è un immenso piacere e un onore e mi viene spontaneo il gesto di inchinarmi, perché siamo qui.
Lei ha fatto tanti Rigoletto tra Austria e Germania, con regie innovative, travestito da joker o con una coda animalesca. Quali differenze ci sono tra il modo tedesco e quello italiano di lavorare sul personaggio?
Il mio primo Rigoletto è stato in forma scenica in Italia, a Verona, con la regia del grande Arnaud Bernard che mi ha portato al debutto di questo ruolo e mi ha seguito, curato e cullato dal punto di vista interpretativo e scenico. È stato un bellissimo lavoro, un debutto sudato perché abbiamo lavorato veramente tanto, sotto la bacchetta del Maestro Fabrizio Maria Carminati, che pure mi ha preso sotto la sua ala. Dopo la gavetta che ho fatto per tanti anni, li conoscevo tutti questi registi e questi direttori d’orchestra ma nei ruoli minori che facevo prima. Poi ci siamo trovati ad affrontare al Filarmonico di Verona nel 2016 questo grande ruolo, in una regia abbastanza particolare. Era una specie di grande libreria, di casa-studio. Rigoletto era un personaggio esaminato dal Duca di Mantova che era un po’ un antropologo e ne studiava la deformità. È stato molto interessante, un Rigoletto classico ma non troppo. Poi ci sono stati tanti altri Rigoletto. È arrivata Nizza con la regia di Ezio Toffolutti, abbastanza classica ma non del tutto, l’ambientazione era a Palazzo Ducale a Mantova, nella bellissima Camera degli Sposi di cui sono stati scenograficamente ripresi i dipinti. Rigoletto all’inizio del preludio arrivava con un carretto, da solo, schernito da tutti: un particolare incisivo a livello psicologico. In seguito, il Rigoletto in Austria ambientato nella Trump Tower di New York, il Duca di Mantova era per l’appunto il miliardario, io ero il suo giullare, il suo pusher, il suo factotum, un’impostazione molto particolare a livello scenico e registico (n.d.r. regia Andreas Baesler). Per poi arrivare alla mia ultima produzione in Germania finita lo scorso marzo (n.d.r. regia Markus Trabusch) dove addirittura entravo nella scena che precede i “cortigiani” a quattro zampe perché ero un coccodrillo, con tanto di coda attaccata dietro e il mio “la-la, la-la, la-la” corrispondeva al camminare come il rettile, col sincrono di mano destra gamba sinistra, e mano sinistra gamba destra. I primi venti giorni che si provava la presi un po’ strana come idea, poi mi sono detto: ascolta Federico, ritorna ad avere un foglio bianco, disegniamo qualcosa di nuovo, perché se no ti porti dietro tutta la storia che non c’entra in questo momento. Alla fine devo dire che questo modo di fare teatro molto fermo, molto secco, con pochi movimenti, ti fa forse ancor più entrare e scavare nella musica verdiana. Hai meno tempo per movimenti ed escamotage scenici ma hai un grande lavoro della partitura, dello spartito e della vocalità. Perché, detto tra virgolette, stando più fermi ovviamente si concentra di più la tensione dal punto di vista musicale. Alla fine è stato un bellissimo Rigoletto, ha avuto un grandissimo successo in Germania. Magari qui l’avrebbero fischiato perché non c’era nulla di classico.
In Austria ero un joker che però si toglieva la parrucca e se la rimetteva, si truccava e si struccava, mostrava le due facce. Con mia figlia apparivo borghese, giacca cravatta camicia, impomatato con gli occhialetti, entravo nella sua camera tutta rosa e le portavo dei peluche. Invece diventavo un joker quando ero alla corte del Duca, dove c’era anche una sfilata di miss, un plotone di fanciulle in bikini, io salivo sul bigliardo e avevo delle azioni anche abbastanza forti. Nascondevo a mia figlia un lato di me, della mia vita. In Germania invece non mi struccavo mai, ero un clown completamente bianco, pelato, calvo, dal viso tetro, un pierrot sempre molto triste, e a mia figlia apparivo così. Lei aveva una specie di bambola con le mie fattezze ed era come avere lì suo padre quando non c’era. Io a mia volta giocavo con una marionetta a forma di Duca, lo schiaffeggiavo, gli parlavo, gli infliggevo la maledizione…. Rigoletto in realtà ha la follia in mano, al posto del solito scettro da giullare che vediamo negli allestimenti storici io avevo invece questi pupazzi. La differenza è sostanziale perché non c’è Mantova, non c’è la storicità dei luoghi però c’è la grande musica di Verdi. Quella c’è sempre.
Come sono solito dire, noi raccontiamo una storia. Non siamo lì a fare dei grandi vocalizzi o un recital. Io sono molto attento alla dizione, alla pronuncia, al libretto che si lega alla musica. Per me in queste due produzioni o in quelle che ho fatto all’estero, c’è innanzitutto Verdi, il libretto, la storia, la parola. E l’italiano con l’incisività che dobbiamo dare noi italiani all’estero, per differenziarci un po’.
Per differenziarvi e anche per vanto di essere italiani, diciamolo…
Lo possiamo dire anche forte!! Perché è come se andassimo noi a cantare Wagner. Io sono molto felice da italiano d’avere portato all’estero l’opera italiana. Ho debuttato il ruolo di Falstaff in Austria, a Linz, dopo avere fatto Ford in Italia con Muti e con Valdengo. In Austria cercavano un Falstaff italiano. Il regista Guy Montavont voleva un Falstaff che avesse ancora un foglio bianco sul quale disegnare. Quindi, anche lì, la parola. Ricordo che Valdengo mi improntò tutto Falstaff, tutto. Io studiai per intero il ruolo di Falstaff e poi cantai con lui Ford. E mi ricordo che quando seguivo le musicali col Maestro Muti a Ravenna, mentre preparavamo la produzione, io avevo ancora delle annotazioni dello studio fatto con Valdengo risalenti agli anni dal ’91 al ’97-’98. Poi andai all’Accademia Arrigo Pola a Modena, con l’Accademia Toscanini. Quindi Toscanini ritorna anche in quegli anni. L’estro, la parola, l’Italia, il teatro, Falstaff, Trovatore, i Rigoletti. E i Vespri, opera verdiana che però ho fatto in francese, quindi in quel caso c’è stata una differenziazione a livello linguistico.
Tornando a Parma, la nuova produzione del Teatro Regio è caratterizzata dalle regole di distanziamento covid e la regia è affidata prevalentemente alle luci. Ha modo di far emergere la sua visone personale del personaggio?
Ci sono le luci ma c’è anche un grande lavoro di Roberto Catalano, giovane regista molto attento al libretto, alla psicologia. Non sto portando un mio Rigoletto in emergenza covid con un disegno luci e basta, assolutamente no. Dietro c’è un piano registico molto attento. Ci sono delle scelte studiate e pensate, anche assieme a me. Sono uscite delle idee a entrambi, perché è bello costruire assieme un personaggio. Anche qui un altro foglio bianco, perché ovviamente, mantenendo le distanze, certe azioni non si possono fare, come ad esempio gli abbracci. Ma c’è uno scavo ulteriore psicologico grazie a un’azione scenica diversa, con tutto quello che ci deve essere per la sicurezza tra di noi. Una bellissima operazione a livello registico, non è nulla di scontato anzi è nuova, interessante, e mi ha fatto ulteriormente approfondire il personaggio. È un po’ come dire: ti amo e te lo dimostro. Non ti posso stringere, ma sappi che io ci sono e in qualche modo ti abbraccio con la musica, ti abbraccio con Verdi, ti abbraccio con gli sguardi, con i gesti. Le luci vengono puntate anche da noi stessi. Una luce calda che va a illuminare come in un abbraccio mia figlia Gilda, come lei stessa fa con me. Il nostro regista Roberto ha fatto veramente un bel lavoro, condiviso appieno, e spero che venga capito.
Secondo lei Rigoletto è più vittima del potere o più padre protettivo?
Sicuramente padre protettivo, perché un padre è protettivo. Lui lo dimostra più volte, in questa occasione ancor più. In tutti i Rigoletti che ho fatto tutela la figlia, la tiene coccolata, raccomanda a Giovanna di controllarla perché è un fiore illibato, chiede se nessuno sia venuto in casa. È iperprotettivo e qui ciò avviene sempre con un cerchio di luce molto calda. Lui vive per sua figlia, lo vediamo anche nel romanzo di Victor Hugo, e alla fine pensa che a lui non resti più nulla, e di poter anche morire. Lo dicono nella realtà tanti padri. Io l’ho vissuto tramite persone vicine a me, che quando hanno perso dei figli nulla per loro è più esistito. Cos’altro può dire Rigoletto di fronte a una tragedia così? Per di più Gilda è morta ammazzata, non persa per una malattia o per un covid che adesso va di moda portare in scena. Anche qui emergerà la musica verdiana, perché la lettura del nostro Maestro Alessandro Palumbo, giovane anche lui attento, studioso e lettore della partitura, ci dà belle idee e bellissimi spunti. Soprattutto a uno come me che ne ho fatti tanti. Questa è la sesta produzione con più di quarantacinque recite alle spalle. Devo dire che è sempre bello togliersi un po’… come posso dire, diciamo alzarsi dalla poltrona e non rilassarsi troppo (n.d.r ride).
Ben quarantacinque recite nei panni di Rigoletto?
Oramai si, circa quarantacinque, perché all’estero si fanno tante repliche: una volta diciassette, un’altra tredici, un’altra cinque. A Parma ne farò sei (nd.r. in totale il Regio ha programmate dodici serate) ed è già un bel numero, per l’Italia. Trovare un teatro italiano che metta in cartellone così tante recite non è facile, generalmente se ne fanno tre o quattro al massimo per ogni produzione. Tornando a Verdi ho interpretato anche un altro padre verdiano, Amonasro, che ho avuto il piacere di debuttare in forma di concerto diretto dal Maestro Muti a Ravenna, e poi ho avuto la gioia di debuttarlo in scena a Verona con la regia di Franco Zeffirelli, storica, stupenda, in quell’anfiteatro unico, diretto dal grande Daniel Oren che per me è un grandissimo musicista, col quale ho realizzato tanti progetti. Ne ho fatte solo due recite, e mi piacerebbe cantarne molte altre.
Tornando al Rigoletto a Parma, anche la recitazione immagino abbia molto peso, pur mantenendo le distanze sulla scena. Oltre al gesto, molto sarà riposto sulla espressività del canto?
Assolutamente. L’espressività attraverso la parola: Verdi voleva la parola incisiva, la dizione pulita, far capire il testo, perché, continuo a dirlo, noi recitiamo una storia, non facciamo dei vocalizzi. In tutti i compositori, non solo in Verdi ma soprattutto in un dramma come questo, deve essere molto marcata la parola. Ad esempio, se parliamo di parola, ho trovato differenze nei Vespri italiani o nei Vespri in francese. Come adesso che sto studiando il Macbeth di cui io farà la copertura sempre qui a Parma, anch’esso in francese. Devo dire la verità, per quanto riguarda la parola verdiana mi viene in mente la frase di Macbeth “Ah! sol la bestemmia, ahi lasso!”: in francese è molto più elegante, anche se le parole sono meno incisive. Il francese è la mia seconda lingua, essendo valdostano. Dei Vespri ho fatto quattordici recite a Würzburg dove ho debuttato, poi tre recite a Monaco di Baviera alla Bayerische Staatsoper. Per quest’ultimo, la fortuna di averlo debuttato in francese a Würzburg mi ha portato a fare un jump in, una chiamata last minute. La musica è talmente bella, Verdi è talmente immenso… diciamolo: in tutte le lingue è grande. Anche se l’italiano ovviamente esalta la verdianità.
Non solo di Verdi: è la lingua dell’opera lirica
Assolutamente!
Per l’acustica come vi siete trovati, all’aperto, in una struttura non specificamente predisposta?
Non siamo in una conchiglia acustica ma lavoriamo in una struttura: il barsò. Per noi non è assolutamente uguale cantare in un palco all’aperto en plein air oppure in una tensostruttra “finta”. È un luogo molto bello, storico anche se certo non come il teatro. Devo dire la verità, dentro il barsò c’è una bella camera acustica che, anche girando per il palco, crea un aumento degli armonici e c’è una ottima proiezione. Non abbiamo ancora provato con l’orchestra e ancor meglio lo sapremo quando inizieremo gli assiemi, in quel momento vedremo come sarà il balance. Però già da adesso non è assolutamente male né risulta difficile. È stata una scelta indovinata anche dal punto di vista paesaggistico, è un edificio non antichissimo ma comunque bello (n.d.r. la ristrutturazione è stata firmata da Renzo Piano). Mi piace perché non siamo in un luogo contemporaneo e moderno, siamo comunque in un luogo storico. Poi c’è la statua di Toscanini, il parco, l’auditorum alle spalle, un contesto pensato e secondo me azzeccato anche all’esterno. Io spero che sia vincente ma sicuramente lo sarà: a Parma sanno il fatto loro.
Ricordiamo che, mentre gli altri teatri hanno attrezzato un luogo aperto come alternativa al chiuso, il Regio ne sfoggia due, dato che il Festival Verdi il prossimo autunno sarà nel Parco Ducale….
Dove appunto ci sarà Macbeth. È interessante che Parma e il Festival si aprano alla città e riportino Verdi, che era popolare, in mezzo al popolo. Però in modo ben studiato. È bello, in estate, soprattutto in questo momento storico che sappiamo difficile. E siamo gli unici! A me vien da ridere … Noi del teatro siamo gli unici che ogni giorno rispettiamo le normative: c’è grande attenzione. Complimenti a tutta l’organizzazione, veramente eccellente, per il distanziamento durante le prove, le sedute separate, appena entriamo in luoghi chiusi come i camerini o il teatro subito c’è la misurazione della febbre, gel ovunque, mascherine. Questo è molto importante perché ti fa sentire protetto. Da noi del teatro dovrebbe imparare quell’Italia che invece in questo momento sta facendo orecchie da mercante. In giro si vedono grandi assembramenti, hanno aperto locali e discoteche. Noi del teatro siamo gli unici ligi alle regole anche per rispettare il pubblico, invece il resto è una grande “fiesta”. Questo fa pensare: noi, mondo della cultura, mondo dell’arte, gli ultimi che siamo stati considerati durante il picco della pandemia, siamo i primi a livello comportamentale e di educazione. Capisco che tutto debba riprendere, però non capisco perché a noi impongano duecento persone anche all’aperto. Perché, se si mantengono le distanze, devono metterci dei limiti così penalizzanti, quando invece si vede che tutto il resto non ha limiti?
Molti artisti del cast provengono dall’Accademia verdiana. Come si trova a lavorare assieme a di giovani, molti dei quali al debutto?
Mi trovo benissimo perché li vedo molto attenti, volenterosi, con voglia di sapere, di studiare; chiedono, si informano, seguono, guardano, colgono e questo è significativo perché prelude ad un luminoso futuro. Addirittura una delle due interpreti di Gilda ha 22 anni: fantastico! Come è successo a me quando ho debuttato Barbiere nel ’95, a 22 anni! Adesso mi sembra strano, quando invece io stesso ero molto giovane quando debuttai, con Figaro oltretutto, neanche un “ruoletto”. È bello che la storia prosegua, vada avanti, è molto importante.
Lei ha iniziato giovane anche perché aveva basi molto solide. Ha un diploma in flauto. Le è servito anche per il canto?
Ho fatto studi da strumentista, mi è servito tantissimo per la lettura della partitura, per intuire quello che è scritto tra le righe, perché c’è un codice che forma un grande legame tra la musica e le parole. Questi compositori erano grandi, grandi, veramente grandi. È bellissimo il mondo che c’è dietro. Se sei strumentista e hai avuto una formazione musicale ma possiedi anche una tua sensibilità, secondo me puoi andare oltre. E se vai oltre scopri veramente tanti aspetti. A livello tecnico e musicale dietro al pentagramma c’è un mondo, dietro al testo c’è un mondo, testo – vocalità – musica unite sono un altro mondo. È un universo infinito. Prima di tutto viene lo studio dello spartito, come diceva il Maestro Muti. Se il nostro grande Verdi ha messo un puntino, una croma, una semicroma, beh, facciamola, no? Da lì scaturisce il mondo vocale legato alla parola che si traduce in musica: è un infinito stupendo che non si smette mai di scoprire. Mai, avere la presunzione di dire: fatto, l’ho studiato e sono arrivato. No! Perché, ripeto, dopo tante produzioni di Rigoletto, ogni volta devi farlo veramente nuovo, puoi sempre imparare, puoi sempre aggiungere, puoi sempre mettere quel qualcosa in più, e questo è magnifico. Accade solo se sei curioso, se hai voglia di approfondire sempre più un ruolo dal punto di vista vocale e musicale ma anche dal punto di vista psicologico, se hai desiderio di scoprire. Se hai questo istinto, vai avanti.
Come ha già anticipato, a Parma il prossimo settembre nel Festival Verdi sarà presente in Macbeth, nella versione francese, come cover. Ciò denota tanta umiltà nell’approccio al lavoro. Anche questa, è una dote che serve, per fare una carriera importante come la sua?
Serve assolutamente! Perché l’umiltà fa sì che il tuo foglio sia sempre bianco e su esso tu possa – con chi incontri, musicista o regista o direttore, colleghi cantanti – scrivere una nuova storia ogni volta. Da questo punto di vista in questa occasione ci sarà il grande Ludovic Tézier, baritono francese che io stimo tantissimo. Quando mi hanno proposto di fare questa copertura, mi ha spinto la curiosità di studiare un’opera nuova, non nella versione classica che viene proposta ogni giorno. Come successo per i Vespri, dove mi offrirono il debutto. C’è la stessa voglia di studiare un titolo nuovo, di metterlo in repertorio. Inoltre il piacere di trovarmi con il grande Maestro Roberto Abbado, di seguire le prove musicali, la gioia di poter studiare e lavorare con lui. Alla fine è sempre studio. Anni fa io dissi al Maestro Muti che Io ringraziavo, dopo Falstaff, spiegandogli questa storia del cerchio cui accennavo prima: Toscanini – Verdi – Valdengo – Muti e me. Per me in quell’anno si era chiuso un cerchio. Lo ringraziai perché non si era fatto un mese di produzione, ma era uno studio continuo, poter seguire con lui le letture, con l’orchestra fu straordinario. Come anche per Aida. Così veramente ti si aprono dei mondi. Quindi sono felicissimo di esserci per questa copertura a Parma. L’umiltà serve, perché di fronte a questi grandi, noi chi siamo? Studiamo. Se ci viene data la possibilità, è la cosa più bella. Non sempre bisogna stare in prima fila, ma fare un passo indietro, a volte, anche nella vita, è importante per andare avanti.
Il virus le ha fatto perdere tanto debutti: Roberto Devereux a Palermo, Nabucco in Germania, Lucia a Nizza. Invece ha avuto conferma del concerto conclusivo al Festival di Ertfurt. Occasioni cancellate o rimandate? Come si sta muovendo il panorama internazionale?
Il Festival di Ertufrt, come tanti in Italia, si è reinventato. In realtà mi avevano invitato al concerto di apertura, solo che io, essendo qui a Parma ho chiesto di potermi concentrare su questo Rigoletto. Quando l’avrò finito, prenderò l’aereo. Farò i tre concerti di chiusura del Festival e mi hanno riconfermato Nabucco, rinviato al 2022, un altro debutto verdiano. A Nizza stanno riprogrammando Lucia, per me una ripresa del ruolo che avevo già fatto in Italia, e debutterò un altro ruolo verdiano sempre nel ’22, Ernani a Bonn. Quindi sto vivendo bene l’estero, dove si è aperto un mercato molto importante per me, in Austria, Germania e Francia, dove ci sono begli sviluppi. Le cancellazioni non sono tali ma sono dei rinvii ed è una cosa positiva. Il mio motto è “Avanti tutta!”.
Ha accennato all’esperienza con il Maestro Muti e ha all’attivo diverse tournée con Cristina Mazzavillani Muti. Ha un episodio che ricorda in modo particolare?
Il primo ricordo è l’audizione fatta per la signora Muti a Ravenna, poi sono subentrato appunto come Ford nel loro Falstaff, a Reggio Emilia e a Ferrara dove il Maestro Muti era presente a una recita, così poi ci siamo ritrovati a Ravenna per l’allestimento. Lo stesso a livello registico, ma a Ravenna siamo stati diretti dal Maestro e subito dopo siamo andati a Oviedo e nel castello di Savonlinna, produzione del Ravenna Festival con l’orchestra Cherubini. La signora Cristina Mazzavillani è una grande donna, una grande artista, una grande moglie, una grande madre. Dico veramente, a lavorare con lei ti senti protetto, è attenta al personaggio. È molto bello perché non fa solo un intervento scenografico ma registico, abbiamo lavorato bene e dal punto di vista umano, è davvero una grande donna. Ripeto: l’ho vista essere mamma, essere moglie, essere artista, essere tutto, sempre con un sorriso, sempre pronta.
E del Maestro, cosa dire? È il Maestro! Ha questo lato molto severo che a me piace perché è estremamente attento alla partitura, allo spartito, alla voce. Allo stesso tempo è molto umano. Veniva a salutarci nei camerini per gli “in bocca al lupo”, per le ultime note. Non si diventa grandi per nulla. Quando uno ottiene questo riconoscimento a livello mondiale, artistico e non solo, ci sono tanti perché. Io lo ringrazierò sempre per lo studio, per l’approfondimento, per le ulteriori aperture mentali che mi ha dato nell’affrontare Verdi e lo studio stesso della musica. Sono stato fortunato di essere arrivato a questa esperienza già con un percorso solido alle spalle, adulto e quindi con una percezione, una visione del tutto molto più attenta, più matura. Fantastico! E sempre sotto al comune denominatore di Verdi, questo grande compositore da un po’ di anni è diventato il mio compagno di viaggio, un viaggio che mi porterà a nuovi debutti tra il ’21-’22. Ho lo stesso amore e la stessa attenzione anche per Puccini, Donizetti e Bellini, ma ora sono nelle terre verdiane e non posso che esprimere il mio amore per Verdi.
È giusto immedesimarsi in un ruolo ma anche in una situazione. È giusto a Parma adorare Verdi
Per noi baritoni, se puoi cantare Verdi, lo ami. Perché Puccini per noi baritoni non ha scritto le pagine che Verdi ci ha dedicato. Si, io ho lavorato anche nel pucciniano, adoro il ruolo di Ping e quello di Gianni Schicchi. Però Verdi ha scritto per i baritoni dei ruoli di vero protagonista. Sono “ruoloni” nei quali a livello psicofisico devi mettere tutto. Il grande Giacomo ci ha lasciati un po’ per contorno. Il contorno serve, intendiamoci: due buone patate, dei fagiolini, un’insalata non è che li butti, anzi li richiedi, però Verdi può essere un bel piatto di tortelli, un buon filetto, un pezzo importante di carne. Quindi è ovvio che se puoi cantare Verdi, e lo canti per di più a Parma e nelle terre verdiane, puoi dirti felice! Qui non è un caso, non è tant pour dire.
Il legame con la terra. A Pasqua, in pieno lockdown, ha tenuto un concerto nella chiesa del suo paese natale in Valle d’Aosta…
A Montjovet, comune dove vivo, nella mia casa natale, nella chiesa sono stato battezzato, ho fatto comunione e cresima, e ho iniziato a cantare nel coro quando avevo sei anni. Il concerto “Musica e parole per la santa Pasqua” è nato nel momento di chiusura, in un paese così piccolo. La mia casa è abbastanza isolata, avevo la fortuna di passeggiare fino al piazzale della chiesa, alla fontana, poi tornavo su e spesso incontravo il mio parroco, Don Candido, che era fuori al sole ed era triste. Mi diceva: «Federico, ci rendiamo conto? In ottantatré anni è la prima volta che il pastore è senza il suo gregge. Tutto bloccato, non c’è niente». Io pensavo: mamma mia è vero! La chiesa chiusa, nessun fedele, nessuna celebrazione o cerimonia, lui da solo. Eravamo su due panchine, distanti. Sono un ariete e mi sono detto: perché no? Io ho lavorato in valle per quasi dieci anni come consulente artistico, organizzando molti eventi. Ho smosso le mie conoscenze, ho fatto telefonate su telefonate, iniziando dal mio sindaco Jean-Christophe Nigra, che era anche il trombettista del concerto. Ho ottenuto tutti i permessi, della prefettura e del vescovo per poter accedere alla chiesa. Abbiamo avuto il via libera per il soprano Ilaria Quilico che arrivava da fuori regione, per l’organista Antonella Poli e anche per i tecnici di Bobine.tv, che è venuta a fare le riprese esterne e interne. Eravamo “schedati”, tutto a porte a chiuse, la chiesa completamente vuota. Abbiamo fatto una diretta streaming e in seguito un bellissimo montaggio registrato che si può trovare sul sito della tv. È stato molto bello perché dopo un mese di blocco totale ci siamo ritrovati, senza avere provato. Era stranissimo, non c’era in giro nessuno, tutto desolato e noi lì a fare musica. Era una preghiera in musica con due o tre interventi parlati di Manuel Bonjean. Io ho due credo nella vita: il credo religioso e il credo artistico, che vanno fondendosi. Così è stato quel giorno. Abbiamo detto: noi ci siamo, facciamo musica in modo professionale (e non in casa come spesso è successo). Musica sacra in un luogo sacro. È stato un segnale, un regalo per gli altri e per noi stessi.
Tirando le somme?
Sono felice di aver vissuto questa grande fetta di carriera, dal ’97. Ormai sono venticinque anni. Tanti. C’è già un futuro aperto, ci sono belle cose in vista, non chiedo di più. Chiedo di poter continuare, di andare avanti. Molto mi è stato dato e so che tanto mi verrà ancora dato e quindi ringrazio. È importante ringraziare, non tutto è scontato, non è tutto dovuto. Sempre grazie a tutte le persone che mi hanno voluto, dato, valorizzato. In questa parentesi verdiana abbiamo parlato di Muti e Valdengo, grande upgrade, ma molti mi hanno preso sotto la loro ala, come la grande Katia Ricciarelli, con la quale siamo tuttora amici. Ringrazierò sempre il Maestro Paolo Gavazzeni che nel momento in cui io avevo ruoli piccoli e meno piccoli mi fece debuttare in Rigoletto al Filarmonico di Verona. Da lì, si è composto un puzzle. Dopo Verona si è aperta subito Nizza, con il contratto firmato già un anno prima. Grazie a Ravenna è uscita l’audizione del Falstaff all’estero, in una escalation, e poi avanti, avanti, avanti. L’incontro con Alida Ferrarini è stato magico, ero già molto in là con lo studio e il lavoro ma anche in quella occasione mi misi davanti a lei come un foglio bianco. Poi avanti con i debutti, con le grandi personalità che mi hanno permesso di crescere. L’Arena di Verona è venuta grazie a Cecilia Gasdia, che dopo tanti anni di comprimariato, due estati fa mi ha fatto fare Ping e poi Amonasro. Sono tanti, i grazie che devo dire. In questo momento mi sento di ringraziare il Teatro Regio di Parma, il Maestro Cristiano Sandri, e tutta la squadra di questo meraviglioso teatro, per essere qui in Rigoletto. È sempre come un foglio bianco su cui c’è scritto qualcosa, ma devi continuare a scrivere la storia.
Intervista Maria Luisa Abate per DeArtes
24 giugno 2020