Il reperto di archeologia industriale convertito nel 2001 in moderno auditorium dall’archistar Renzo Piano, presenta una parete a vetro rientrante rispetto ai muri laterali, che lascia una zona aperta sormontata dal tetto. Una specie di bersò, termine che, in terra emiliana, assume una ‘a’. “Rigoletto al barsò” ha beneficiato sia della gradevolezza paesaggistica, sia dell’acustica: decisamente buona per i cantanti sul palco collocato entro le tre pareti, e discreta per l’organico orchestrale posto fuori dalla struttura.
Il Teatro Regio di Parma ha dato un lodevole segnale di ripartenza dopo il lockdown varando un nuovo allestimento d’opera, decisione oltremodo coraggiosa in questo periodo in cui dilagano “produzioni covid” ridimensionate. Lo ha fatto portando la musica nel cuore della città – capacità in cui il Regio eccelle, vedasi il Festival Verdi Off – e restituendo Giuseppe Verdi a quella popolarità a largo raggio di cui godeva alla sua epoca, rivolta a chiunque e non solo a un élite. Tutto, nel rispetto delle regole che prevedono distanziamento non solo tra il pubblico ma anche tra gli artisti sul palco e nella buca.
Un Rigoletto in forma scenica minimale che si è rivelata efficace nel dimostrare come la musica e la qualità possano risultare bastevoli. Certo, qualche rinuncia si è dovuta compiere. Il coro era assente fisicamente, per quanto non musicalmente. Infatti, con pochi tagli (“Zitti zitti”) le pagine corali sono state affidate a un comprimariato di lusso che, oltre a sostenere con puntualità e belle doti vocali gli specifici ruoli, si è fatto carico degli interventi normalmente affidati alla massa, con una resa acustica superiore a ogni aspettativa per la corposità di suono. Nota di merito extra quindi a Daniele Lettieri, Matteo Borsa; Claudio Levantino, Marullo; Gianni Giuga, Il Conte di Ceprano. A loro si sono aggiunti gli allievi dell’Accademia Verdiana Chiara Notarnicola, Paggio, ed Emil Abdullaiev, Usciere. Gradevole la vocalità di Italo Proferisce, forse un poco chiara per il ruolo di Monterone, risolto con la necessaria incisività. Di magnifica pasta i mezzi di Andrea Pellegrini, che ha donato a Sparafucile un intrigante fascino noir: non un rozzo sicario ma un raffinato giustiziere. Emissione calda e personaggio ben centrato per Mariangela Marini, uno dei nomi di spicco dell’Accademia Verdiana, che ha vestito i doppi panni di Maddalena e di Giovanna.
Qualche disomogeneità tradotta in un bel crescendo, nella prova del tenore David Astorga, il quale ha pienamente persuaso nelle vesti spavalde, non sfacciate anzi aristocratiche, del Duca. La giovanissima Giulia Bolcato, dal physique du rôle piuccheperfetto per Gilda, candida interiormente quanto esteriormente, ha brillato per l’intonazione, per la padronanza della tessitura alta e per la limpidezza nei flautati, in cui ha dato il meglio di sé rispetto ai momenti lirici.
Sono piovuti una serie di “bravo” su Federico Longhi, mattatore della serata per la grande padronanza del personaggio principale, solido tecnicamente quanto espressivo nell’interpretazione, intesa sia dal punto di vista attoriale che vocale. Oltre al timbro naturalmente bello e all’emissione potente sempre controllata con eleganza, al baritono va ascritto il merito di aver sfoggiato una ragguardevole gamma di colori. Caratteristica non facile da far emergere in un ambiente all’aperto. Nobile la sua linea stilistica calibrata su diverse sfaccettature psicologiche, a seconda che si trattasse della dolcezza riservata alla figlia o alla drammaticità conseguente agli intrighi di corte. Dopo un magistrale “Cortigiani vil razza dannata”, Longhi ha spiccato il volo in “Vendetta tremenda vendetta”, che forse avrebbe meritato un ausilio ancora maggiore da parte del direttore Alessandro Palumbo. Il quale ha svolto il proprio compito alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini a ranghi leggermente ridotti, privilegiando la correttezza della lettura, la fedeltà e il rispetto per ogni segno verdiano.
Roberto Catalano ha avuto l’interessante intuizione di fondare l’ideazione registica su alcuni proiettori, utilizzati come prolungamento fisico dei personaggi e dei loro sentimenti. Collocati in mezzo alla scena e giostrati dagli interpreti, sono diventati essi stessi protagonisti dei moti d’affetto (Rigoletto – Gilda) e dei gesti di sfida (Cortigiani – Rigoletto). Questo, nelle intenzioni espresse nei libretti di sala, perché le difficoltà oggettive del luogo hanno reso non sempre ottimale la traduzione scenica. Assente qualsivoglia elemento di guarnizione, tranne i ricchi costumi (di repertorio del Regio), la vetrata dell’auditorium alle spalle del palco ha dapprima riflesso la luce dei proiettori (luci Fiammetta Baldiserri) come si trattasse di una prosecuzione del cielo punteggiato di stelle tecnologiche, per poi lasciar intravedere la fuga prospettica del suo interno: un’apertura, uno sguardo verso un altro orizzonte che è lecito supporre fosse voluto dalla regia.
Una visione pertanto allargata, derivante dalla spoliazione degli elementi buffoneschi (limitata al cappello e alla gorgiera) da parte del protagonista, che però non riuscirà mai, neanche nella scena conclusiva assai intima e privata, a liberarsi del ghigno da clown, parte indissolubile del suo volto. Un personaggio, quindi, che per il regista Catalano si è mostrato alla ricerca della propria essenza di uomo senza tuttavia riuscirvi completamente, restando ingabbiato nel cliché da giullare. Dopo l’uccisione di Gilda (che di certo non ha peccato per fantasiosità) nell’ultimo quadro Rigoletto, con ancora impressa sulle labbra la smorfia da pagliaccio triste, si punterà in viso il faro, nell’estremo tentativo di mettere a nudo la propria anima e al contempo seguendo l’istinto di addossare su di sé ogni colpa della tragedia, come farebbe qualsiasi padre amorevole.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto a Parma, parco
dell’Auditorium Paganini, il 2 luglio 2020
Contributi fotografici: Roberto Ricci