Fedra ha il volto di Isabella Ferrari; l’anima e la forza drammatica di Ghiannis Ritsos. Il poeta greco, uno dei più grandi della nostra epoca – scomparso nel 1990, impegnato politicamente, perseguitato, deportato, le sue opere messe al bando e censurate, per nove volte candidato al Nobel – era affascinato dalle figure classiche che vedeva come emblemi di un’attualità senza tempo, di una cultura millenaria dalla quale è scaturita la società odierna. E moderni appaiono i miti da lui rielaborati. Fedra è un testo magnifico, poetico e allusivo, che andrebbe non solo ascoltato in contesti teatrali come questo ma letto, meditato, assaporato in ogni singola parola, incisiva come una pennellata sull’intonaco di un affresco. Non a caso il poemetto, scritto nel ’74-’75 e facente parte del ciclo “Quarta dimensione”, è dedicato al pittore Yannis Tsarouchis. Cromatismo letterario: il linguaggio di Ritsos è un intreccio di echi, rimandi e anacronismi che cancella ogni condizione spazio temporale e ricolloca la protagonista nella contemporaneità dell’anima, pure questa densa di simboli attinti al passato come alla quotidianità. Fedra è una donna posta a tu per tu con la complessità del proprio mondo interiore, che si trova in solitudine a misurarsi con l’amore e con la morte.
“Ti ho convocato. Non so come cominciare. Aspetto che faccia sera,
che s’allunghino le ombre nel parco, ch’entrino in casa
le ombre degli alberi e delle statue, a nascondermi il viso, le mani,
a nascondermi le parole che, ancora informi, indugiano; le parole che non conosco,
che temo”.
Così Fedra accoglie Ippolito di cui è innamorata, il figlio del suo sposo Teseo. In realtà si rivolge a se stessa, in un monologo introspettivo che Isabella Ferrari ha declinato in una lettura drammatizzata davanti al leggio, avvolta in una veste rossa inno alla “porpora segreta” che avvampa nel personaggio. La didascalia che Ritsos ha posto come prologo descrive una luce bianca e soffusa benché si stia approssimando il tramonto; similmente sui gradoni in pietra del Teatro Romano di Verona il giorno ha piano piano ceduto il passo alla notte. Sul palcoscenico, il fondale nero e null’altro, illuminazione parca giostrata su toni vermigli, mentre a dar corpo impalpabile all’interlocutore era la voce graffiante e centellinata a pochi interventi del violoncello di Aline Privitera. Un minimalismo registico, di Vittoria Bellingeri, apprezzabile per la capacità di circoscrivere la tensione drammatica all’interno di una dimensione personale; se non fosse per questo periodo di covid che, assieme alle norme di sicurezza, fa ingiustamente percepire in modo diverso l’asciuttezza formale.
Fedra è preda di turbamenti emotivi, di dubbi e illusioni, di desiderio di vendetta e di passioni libere eppure cariche di sensi di colpa. Una donna abituata a fare i conti con quelle maschere che da millenni l’umanità suole indossare per esprimersi schiettamente, per disquisire di democrazia e di conflitti sociali e individuali. Isabella Ferrari ha inserito parentesi venate di dolore in una linea stilistica improntata alla “calma abituale accentuata all’eccesso” di Ritsos, all’esternazione di un sentimento vissuto prevalentemente con gioia. Al di là di un disturbante intercalare, l’attrice si è soffermata sulla natura evocativa del testo, cui ha donato respiri e una sensualità elegante. La mano dalle dita affusolate era impegnata a tracciare invisibili disegni nell’aria e l’espressività del viso, giostrata su intensi “primi piani”, ha completato il quadro di una recitazione sospesa nella “bella notte incorruttibile”.
Visto al Teatro Romano di Verona, Estate Teatrale Veronese, il 24 luglio 2020
Contributi Fotografici: Estate Teatrale Veronese
Recensione Maria Luisa Abate