La ARCHIV PRODUCTION – DEUTSCHE GRAMMOPHON ha edito CONTRAFACTA, con il Collegium vocale et instrumentale “Nova Ars Cantandi” diretto dal M° Giovanni Acciai, il quale ha compiuto un’operazione di riscoperta e ricostruzione inerente i madrigali di Claudio Monteverdi riscritti, ovvero “contrafacta”, da Aquilino Coppini nel Seicento. Il M° Acciai ha approfondito il tema in occasione del concerto tenuto a Mantova nella basilica palatina di santa Barbara: il medesimo luogo prescelto per la registrazione del CD, in virtù dell’acustica straordinaria.
Maestro Acciai, lei è un punto di riferimento per la musica antica
Vengo da un substrato di umilissime origini che mi rende orgoglioso, come diceva Pascoli, di essere salito con la piccozza dove sono arrivato. Per me è un’esigenza profonda dello spirito mettermi in contatto con gli altri, così come io sono, nel posto del cuore calmo. I maestri del passato, come punto di riferimento per scrivere la musica, avevano il cuore. Cosa potrebbe esserci di meglio di ciò che la natura ci ha dato? Il cuore è il nostro regolatore e dalla pulsazione cardiaca loro basavano la pulsazione musicale. I teorici raccomandavano a certi sprovveduto di non eseguire musica quando avevano la febbre e anche quando avevano giaciuto con donne: dovendo assumere il pulsus cordis, che è un elemento volubile, bisogna farlo quando il cuore batte regolarmente.
La naturalità della musica è oggetto di studio?
Gli studi di biologia musicale compiuti in ambito americano sono impressionanti. Sono state compiute delle ricerche che hanno portato a valutare il tempo di emissione nelle principali lingue europee, indipendentemente da ciò che si dice. Il tempo medio di pronuncia di una sillaba è sempre di un secondo, in qualsiasi lingua europea si pronunci, che corrisponde alla pulsazione musicale. Il cuore è poco di più. La media è convincente ed è un tempo naturale. Quando interpretiamo un brano, vocale o strumentale, quando qualcosa non entra in empatia con noi, vuol dire che possono esserci delle remore a partire dal ritmo naturale, biologico. L’ho verificato nell’ambito specifico della musica vocale, e vale sia per Monteverdi che per Verdi: non c’entra lo stile musicale. È inconscio nell’uomo, governato dal cervello, che è il nostro computer. È il tempo della parola che governa e quando si sbaglia questo tempo, risultano valori doppi e si percepisce che c’è qualcosa che non va. Nei musicisti il primo punto è stato calcolare il tempo prosodico con quello musicale. Un percorso che collega tasselli di grandezza incommensurabile, dimenticati in questo nostro tempo distratto e insensibile a recuperare i tesori che abbiamo nelle biblioteche e negli archivi, che porti i testi antichi a non rimanere inerti. La musica ha sempre bisogno di un demiurgo che la porti da uno stato di inerzia a uno stato di ebbrezza, cioè l’esecutore. Senza l’esecutore ci sono segni sulla carta che rimangono incomprensibili, che non sono la musica, ma semmai il suo simulacro. Perché la musica sia tale ci vuole l’interprete o l’esecutore.
La musica vive nel tempo dell’esecuzione?
Questo è il dramma. La musica viva, ossia l’ultima vibrazione che si è persa nella mirabile acustica della basilica di santa Barbara a Mantova durante il concerto, si è persa. La musica è tornata al suo livello di non fruibilità finché qualcuno non la ridesti e la doni a quelli che la ascoltano.
La musica è esigenza interiore?
Io ho l’esigenza insopprimibile di riesumare gli scritti musicali dai luoghi dove sono custoditi, perché ritengo sia un oltraggio che non siano conosciuti, anche solo da una persona, che si renda conto di questa incommensurabilità, che viene ridestata come la bella addormentata. Ciò nasce da una considerazione di ordine estetico. Dobbiamo considerare che la musica a noi più lontana nei secoli, è stata costretta a rimanere nel limbo in quanto fino all’epoca romantica non vi era, nella concezione estetica musicale del tempo, l’idea di musica del passato. La musica del medioevo, del rinascimento, del barocco era hic et nunc. Si viveva un desiderio di musica sempre nuova per qualsiasi evento si dovesse celebrare, fosse un sollazzo di corte come un matrimonio o un evento diplomatico. Ogni evento aveva bisogno di una celebrazione in cui la musica fosse al centro, ma doveva essere sempre nuova, mai già fatta.
Ciò accadeva anche a Mantova, alla Corte dei Gonzaga?
Quando Francesco IV Gonzaga sposò Margherita di Savoia nel 1608, Monteverdi scrisse “L’Arianna”. E il nostro Coppini fu tra coloro i quali ebbero il privilegio di ascoltare questo capolavoro, che a dire di tutti destò un’emozione indicibile. Era la seconda opera di Monteverdi, dopo “L’Orfeo”, e andò perduta tranne il “Lamento”, pagina di bellezza incontaminata che Monteverdi ha trattato in varie modi: un madrigale a cinque voci, un’opera monodica, un travestimento spirituale nei Contrafacta che si trova nella “Selva morale e spirituale” pubblicata nel 1641. Ciò permette di considerare un altro aspetto. Arianna è una figura tragica, abbandonata da Teseo e lacerata tra l’amore e la volontà di vendetta, sulla quale vincerà l’amore. Per interpretare questo ruolo Monteverdi accolse nella sua casa Caterina Martinelli, un’attrice romana. La accolse tre anni prima della rappresentazione dell’opera e le insegnò a cantare. Intuizione di questo grande uomo di teatro che sapeva scandagliare l’animo umano come nessun altro e che ha cambiato la musica, che dopo lui non sarà mai più quella di prima. Caterinuccia da attrice divenne cantante ma tre mesi prima dell’andata in scena de “L’Arianna” morì di vaiolo, gettando nello sconcerto la Corte. Monteverdi compose la pagina più intensa di cordoglio, di disperazione, di tristezza: “Lagrime d’amante al sepolcro dell’amata” scritte dal poeta di corte di Scipione Anelli. Non sono versi sublimi, ma musicati fanno gelare il sangue nelle vene, per la capacità di Monteverdi di trasmettere il dramma a chi avrebbe ascoltato, con una forza descrittiva impressionante. Monteverdi rese palpabile la disperazione. Per Monteverdi era più di una semplice allieva. E per il Duca anche, visto che fece affiggere un’epigrafe su marmo nella chiesa di santa Barbara, che ora non c’è più, ma che aveva un significato evidente.
Quindi la musica di Monteverdi rafforzava il significato delle parole?
La retorica era un veicolo semantico fondamentale non solo per l’arte oratoria. La musica, a partire da Monteverdi, assunse importanza per lo scibile umano e assieme con la dialettica e la grammatica costituiva il fondamento organizzativo del pensiero. La grammatica portava alla conoscenza della metrica, qualora si verseggiasse in poesia, ma anche la prosa doveva avere parole che suonassero bene, che avessero toni che si accostassero bene. Noi sottovalutiamo sempre questo aspetto. Se pensiamo alle parole di Monteverdi e la resa che ne fa Coppini con la traduzione, abbiamo un esempio mirabile.
Coppini prese i testi amorosi di Monteverdi e diede loro nuove parole a tema sacro
“Luce serena lucent” (Luci serene e chiare) descrive gli occhi dell’amata e lo straniamento dell’amato nel considerarli. L’antitesi così cara alla poesia: l’incendio che dovrebbe devastare il cuore è invece un diletto. Coppini dice: “luce serena luce, animae sanctae in pura gloria”: è altrettanto melodico. Sentendo il travestimento si ha uno sbandamento. Suonano quasi uguali nell’intonazione e invece il carico dei due significati è diametralmente opposto, ma lo straniamento è lo stesso. L’epigramma, cioè la sintesi, dagli occhi che incendiano il cuore per la loro bellezza e per la loro spietatezza (abbiamo una donna che si nega all’amato, o dice parole non gradevoli all’amato) giunge alla fine: “La mia anima che è tutta fuoco e tutta sangue si strugge, non si duol, muore e non langue”. In tre minuti di musica c’è un gesto drammatico completo. Chi ascolta ha godimento estetico e anche erotico, in taluni casi. Queste parole ciascuno le interpretava nel suo intimo, le addestrava al suo vissuto.
I contrafacta erano operazioni ardite. Quale era lo scopo?
Pareva impensabile poter convertire un tema erotico al divino, metterlo sul versante spirituale. Invece Coppini sapeva bene che l’operazione non solo era possibile, ma non pregiudicava l’equilibrio espressivo del madrigale originale, e lo indirizzava verso una diversa area emotiva. Una maniera elegante e raffinata per far gustare alla società ecclesiastica del tempo il fascino e la bellezza di un repertorio amoroso come il madrigale, che altrimenti sarebbe stato precluso, o che avrebbe potuto ascoltare solo di nascosto, magari commettendo peccato, perché i religiosi non potevano ascoltare madrigali così spinti. Coppini è legittimato, non di sua volontà ma per rispondere a un’esigenza, che potesse essere lecita ma che allo stesso tempo permettesse godere di quella musica che invece su un altro versante di spostava sul piano spinto dell’ars amatoria. “O Jesu mea vita” è il contrafacta di “Sì ch’io vorrei morire”, un madrigale di Mauro Moro molto spinto. I versi sono una sorta di prontuario sul come si fa… Non pago, gli altri versi “ah vita mia a questo bianco seno…” sono espliciti. “Ahi bocca, ahi baci, ahi lingua, io torno a dire sì, ch’io vorrei morire”. Volgere allo spirituale un madrigale del genere è quasi impossibile, perché il madrigale non è ermetico, è esplicito e ardito e per rendere musicalmente questa sfrontatezza Monteverdi scrive dissonanze e progressioni armoniche in funzione di rappresentare retoricamente il testo di Moro.
Sembra un giallo. E quindi Coppini cosa fa?
Per conservare il pathos del madrigale e il carattere intimo di questa forza comunicativa, il pezzo in latino cambia completamente la scena e diventa Gesù, la vita. Non c’entra niente! “Si ch’io vorrei morire” – “Oh Jesu mea vita”. La forza espressiva della parola è immutata. Ci sta bene, questa intonazione. Coppini non rovina nulla. Coppini era amico intimo di Monteverdi e Monteverdi gli ha dato il permesso di fare questa operazione. Era una sorta di consenso tacito.
Non c’erano diritti d’autore nemmeno da parte del committente?
La stampa musicale funzionava così: facevano una media di cinquecento copie e metà venivano pagate dal dedicatario dell’opera, che dava i famosi cinquanta scudi, l’altra metà li metteva lo stampatore. Il mercato faceva il resto. Nel caso di Monteverdi, erano molto stampate e molto divulgate. Il sesto libro dei madrigali non presenta dedica, fatto di una modernità sorprendente. La cosa nuova di questo libro (1614 a Venezia) è l’ego sum monteverdiano, un atto di modernità anche sul piano sociale. Equivale a quello che fece Mozart quando nel primo atto cantava “viva la libertà”, quando si era ancora sotto il dominio illuministico, foriero dell’arrivo di Napoleone. Monteverdi lancia un messaggio: non ho bisogno della dedica perché non ho bisogno dei cinquanta scudi.
Torniamo alla retorica
La retorica aveva questa funzione di coinvolgere e di portare l’ascoltatore a essere un unicum con l’oratore, e in musica è una captatio benevolenziae esplicita. Il compito dell’esecutore è portare all’ascoltatore a immedesimarsi completamente nel brano che gli viene proposto e negli affetti che il brano trasmette e che toccano nella profondità. È per questo che dopo Monteverdi la musica viene costruita secondo il progetto retorico con il quale si costruiva l’orazione classica. E di conseguenza la retorica aveva delle parti – inventio, dispositio, elocutio, memoriae, gestus – che erano una sorta di prontuario al quale il compositore e l’esecutore dovevano attenersi scrupolosamente. Le prime tre asserivano il compositore, le ultime due l’esecutore. Di conseguenza il compositore, quando scriveva doveva avere una traccia che permettesse a chi ascoltava di comprendere bene il percorso che il compositore stesso aveva compiuto. Cioè il suo iter compositivo si doveva attenere il più possibile a queste parti.
Partiamo dall’inventio, dall’avere l’idea
Pensiamo oggi come è cambiata la comunicazione verbale. Ci sono stuoli di persone che parlano in attesa che venga loro un’idea: è inammissibile! È pesante, ma questa è la mia opinione. Tornando a Coppini il gesto erotico diviene l’ardore verso Gesù. La lingua che è piacere e fonte di godimento nella bocca dell’amata, diventa “concedimi la tua dolcezza”. La dolcezza del piacere erotico diventa quella della grazia divina e diventa il miele di Gesù, che io lo gusti. Il ritmo verbale doveva andare d’accordo. Coppini raggiunge lo stesso risultato di un godimento erotico, in un contesto devozionale.
Poi vengono la dispositio e l’elocutio
Mettere giù bene quello che hai trovato. Trovo l’idea di trasferire tutto sulla figura dispensatrice di grazia, che è Gesù, poi, come sviluppo questa idea? È l’elocutio, è la capacità di adornare, di usare le iperboli e i sistemi che la retorica offre all’infinito, in modo da poter fare analogo risultato con un testo completamente diverso dall’origine. Questo ha dello straordinario, perché funziona. Del resto Coppini era insegnane di retorica all’Università e faceva tutto in un latino assolutamente di grande valore.
Come è nato questo compact disc?
Il progetto Coppini mi frullava in testa da anni e la molla è venuta in occasione dei 450 anni dalla nascita di Monteverdi. Mi sono detto: se dobbiamo onorarlo fino in fondo, bisogna fare qualcosa che non sia un deja-vu, così ho pensato a Coppini e a un lavoro di ricostruzione. Il terzo libero di Coppini è tutto su Monteverdi (altri libri sono su altri autori, il secondo, perduto, su Monteverdi e altri). Io ho fatto in modo che funzionasse, laddove mancavano delle parti. Bisognava che il disegno delle voci, quando mancante, corrispondesse a quello delle parti a noi giunte. Il terzo è mutilo: cinque parti vocali più l’organo. A quell’epoca le voci non venivano messe in partitura, come si fa oggi, ma ciascuna voce aveva la sua parte completa. Non vi era l’abitudine, anche se Coppini fece una partitura. Del primo libro si è salvata, mentre del terzo no, e sarebbe stata d’aiuto. Di queste cinque parti, tre sono superstiti e due sono perdute.
Si spieghi meglio per favore: in cosa ha influito, nel suo lavoro, la mancanza di alcune parti?
Tre brani, su venti, non possono essere ricostruiti perché le linee di testo dal profano al divino non vengono riprese dalle voci superstiti, e dunque non si possono ricostruire. Il mio lavoro di ricostruzione, durato circa un anno, conoscendo io bene i madrigali, non è stato laboriosissimo ma impegnativo. Mi sono sentito autorizzato a fare questa versione, dove tutto funziona, è corretto, non ci sono barbarismi. Per fortuna, per queste due linee, avere la parte o non averla è ininfluente.
Si è così giunti alla fase finale di questo lungo lavoro
Con Nova Ars Cantandi, a cinque voci maschili, ho registrato e realizzato il CD, dal titolo molto emblematico, per chi non conosce come siano andate le cose. Contrafacta vuol dire “quasi falso”, invece il termine era usato per indicare un’altra versione rispetto al testo originale. Aveva un significato emblematico registrarlo e poi presentarlo nella basilica di Santa Barbara, anche se non possiamo sapere se qualche contrafacta fosse stato veramente eseguito in questo luogo. A Milano abbiamo le prove, a Mantova nessun documento ci autorizza ad affermarlo.
Intervista Maria Luisa Abate 2017
Foto Toni Lodigiani
Giovanni Acciai ha studiato organo, composizione, direzione di coro e si è specializzato in filologia musicale, presso l’Università degli studi di Pavia. Già direttore del Coro da camera della RAI di Roma, è docente di Paleografia musicale presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. È autore di saggi musicologici e di edizioni critiche di musica vocale e strumentale. pubblicate da case editrici italiane e straniere.
Svolge un’intensa attività concertistica e discografica alla guida dei “Solisti del Madrigale” e del Collegium vocale et instrumentale “Nova ars cantandi”. È rappresentante ufficiale per l’Italia del “Choir Olympic Council”, organismo internazionale sotto l’egida dell’Unesco e fa parte del Réseau Européen de Musique Ancienne.