La prima alla Scala è un evento atteso in tutto il mondo, ancor più in questo anno speciale. Il Teatro alla Scala è un punto di riferimento e fa testo, nel male della pandemia e nel bene dello spettacolo che non si ferma. Si è detto e ripetuto di una Scala come mai si era vista e come mai la si desidererebbe rivedere, nella speranza di lasciarci presto il covid alle spalle. Concordiamo in parte perché, pur ovviamente auspicando un ripristino delle condizioni basilari per fare musica, ossia la vicinanza tra i musicisti e il calore del pubblico, una Scala così la vorremmo rivedere anche un domani, non in maniera sostitutiva bensì parallela a quella consueta. Crediamo infatti che il 7 dicembre 2020 abbia segnato l’inizio di un nuovo corso, abbia gettato un ponte tra passato e futuro utilizzando i moderni mezzi tecnologici e una nuova inventiva per far arrivare a un pubblico il più vasto possibile il messaggio universale dell’arte: dalla musica, al balletto, alla prosa, al cinema, alla televisione, alla moda.
Nella situazione attuale pare superfluo indulgere alle consuete descrizioni della serata. Gli interpreti erano quanto di meglio potesse offrire il panorama attuale, in una carrellata entusiasmante, rispondente a canoni qualitativi d’eccellenza che per la Scala sono conditio sine qua non. Pare invece il caso di soffermarsi su un extra, meno visibile e altrettanto sostanziale: una felice intuizione, concreta, sul Teatro stesso e sull’evoluzione della modalità di fare Teatro. L’idea che ha permesso di non mancare all’appuntamento più atteso dell’anno è venuta a una triade di divini (ci sia scusato il sostantivo di callasiana memoria): il sovrintendente e direttore artistico Dominique Meyer, il direttore musicale Riccardo Chailly, il regista e drammaturgo Davide Livermore. Triunviri di una città nella città, popolata da lavoratori dello spettacolo che ogni giorno tramutano l’edificio di mattoni in teatro vero, dandogli la vita.
A chi non è scappata una lacrima di commozione durante quei cinque minuti iniziali in cui Livermore si è giocato l’intera serata? Un incipit da stretta al cuore in cui la personificazione della musica ha assunto le sembianze di una donna intenta a pulire il palcoscenico e che ha intonato l’Inno d’Italia nel buio e nel silenzio dell’ambiente deserto. I riflettori si sono accesi, il vuoto si è riempito e al suo canto solitario si è unito, a cappella, quello dei lavoratori, in rappresentanza del Teatro universale. E assieme a esso, dell’intera umanità che soffre ma continua a far sentire la propria voce.
La Scala, da sempre, oltre alla natura che le è propria di culla delle arti, svolge la funzione di essere specchio dei tempi, bifronte, capace di riflettere sia il dietro le quinte sia quanto avviene fuori, nelle strade. Citiamo a titolo esplicativo due episodi di un passato non troppo recente né troppo remoto: la discrepanza verificatasi molti anni or sono tra le luci sceniche e l’illuminazione richiesta dalle telecamere di allora, e l’anno in cui le signore impellicciate furono bersagliate con secchiate di vernice dagli animalisti. Entrambi gli episodi paiono oggi preistoria, perché la tecnologia si è rapidamente evoluta così come la coscienza ecologista, ma hanno scandito i periodi storici di cui erano figli. Il tempio della musica, orgoglio italiano nel mondo, è sempre stato testimone attivo di ogni epoca, di ogni costume, di ogni urgenza sociale.
Anche questo compito la Scala ha svolto il 7 dicembre e non sarà dimenticato. Affermare che la sala del Piermarini senza pubblico non sia la stessa è lapalissiano. È necessario accettare questa come la normalità dei nostri giorni ed è doveroso rendere merito alla nuova via che è stata imboccata. Certo non sarà l’unica, non potrà mai soppiantare lo spettacolo dal vivo e le emozioni che esso solo sa regalare, ma alla magia tradizionale se ne potrà affiancare una nuova, diversa ma sempre magia, in un surplus emozionale. Al momento, la normalità è il plexiglass tra i fiati in orchestra, è la mascherina sul volto del direttore, sono le romanze cantate senza nessuno ad applaudire. È la prassi del distanziamento personale seguito alla lettera per tre ore e poi per un attimo dimenticato, quando i due conduttori televisivi, al termine, sono usciti dalla porta prendendosi a braccetto, e facendo capire quanto sia facile e involontaria la distrazione di un momento, come accade a tutti noi nel vivere quotidiano. La Scala ha documentato anche la difficoltà pratica di convivenza con il virus.
Se l’orchestra, i cantanti, i danzatori, gli attori, gli stilisti hanno consentito un risultato degno delle migliori inaugurazioni scaligere, non meno significativa è stata la lungimirante inventiva di Livermore, il quale per ogni romanza, per ogni aria, per ogni duetto, ha proposto una mini regia a se stante, confezionata con cura e rispondente alle più alte aspettative, tecniche ed emozionali. Così, il regista ha lasciato intuire che se il coronavirus, nel suo riproporsi altalenante, avesse concesso maggior tempo per organizzare, si sarebbe forse potuto osare di più sfruttando l’ingegnoso sistema narrativo a mosaico, i cui tasselli hanno preso una forma unitaria. Il tempo è forse l’elemento che più di ogni altro il covid ci ha tolto. Livermore ha compiuto un’impresa straordinaria anche sotto questo profilo e, al contempo, ha tracciato una nuova rotta dimostrando nei fatti che sia percorribile. Ha detto, usando come tramite l’allestimento che in se racchiudeva molti allestimenti, che l’opera lirica è capace di percorrere infinite strade, restando al passo con i tempi, seguendone l’evoluzione, coniugando tradizione e innovazione. Queste in fondo sono sempre state le sue carte vincenti nei secoli.
Tra i vari quadri, sono apparse le immagini di Papi, di personaggi politici e di uomini di pace, e la Casa Bianca preda di un incendio e poi ricondotta alla sua integrità; invece il boccascena, per buona parte della serata, è stato tramutato in lago. Fuoco e acqua: elementi catartici per antonomasia riuniti nel magnifico spezzone di Lucia (l’opera che avrebbe dovuto inaugurare la Stagione), in cui la risacca del mare ha assunto il colore aranciato delle fiamme. Il messaggio purificatorio è stato chiaro: l’opera c’è, è viva, sa rinascere dalle macerie del mondo e ha un futuro, che l’illuminato precursore Livermore ha già iniziato a scrivere. Un percorso catartico per la Scala, per il Teatro e per il pianeta, che invita a non rimpiangere ciò che era e che presto o tardi tornerà a essere. Ed esorta a non fermare il nostro procedere, a guardare con fiducia più avanti, a volgere lo sguardo in alto, verso quelle stelle di dantesca reminiscenza che hanno dato il titolo alla serata e che da sempre rischiarano il cammino dell’umanità.
Recensione Maria Luisa Abate per DeArtes
Visto in diretta televisiva Rai, il 7 dicembre 2020