Come astronauti esposti alla radiazione della musica. Il vagabondaggio artistico guidato da Nicola Piovani, garbato affabulatore, ha i toni di un colloquio amichevole e la capacità di volare alto. Il compositore Premio Oscar porta in tournée due spettacoli complementari. L’uno, ripercorre la carriera a fianco di personalità illustri, con intento di cronaca mai autocelebrativa. L’altro, sofisticato, evidenzia senza sfacciataggine gli stimoli culturali dai quali scaturisce l’invenzione musicale. Entrambi confermano il Piovani/pensiero: la musica è una grande lingua che non ha sostantivi, ma solo aggettivi e verbi, con i quali arricchire il racconto. Lessico e pentagramma si rincorrono, si intersecano, confluiscono l’uno nell’altro dando vita a un concertato vivace, che smentisce l’affermazione secondo la quale le parole non contano, ma conta la musica. È questa la parafrasi di un verso, in cui a valere è invece l’amore, nato come una burla fatta a Benigni e a Cerami. Una boutade suggerita come finale a una canzone dal refrain scontato, “Quanto t’ho amato”, e poi rimasta, per ironia della sorte.
La musica è allegria. Anzi, “La musica è pericolosa” recita il titolo omaggiante Fellini, che allude agli incontri spericolati e gioiosi con la bellezza, non di tipo consumistico bensì quella profonda che ti cambia, che ti fa non essere più lo stesso di prima; quella legata al batticuore e al brivido come l’innamoramento adolescenziale. Il periglio per cui la vita vale la pena di essere vissuta. Così fu l’incontro con la musica. La radio della mamma che trasmetteva le canzoni di San Remo e la villeggiatura in un paese di campagna dove l’arrivo della banda era preannunciato dal suono lontanano, che creava attesa per la festa che sarebbe esplosa di lì a poco. Spunto in seguito servito alla sigla di ingresso in scena di Benigni. Il rintocco delle campane su tre note – mi fa sol – che si combinavano in modi casuali che il piccolo Nicola appuntava nella mente, per rispolverarle anni dopo per De André. Poi vennero Monicelli e Mastroianni, Luzzati e Manara, e assieme scrissero pagine gloriose, irripetibili, entusiasmanti.
Quando Nicola Piovani poggia il microfono e siede al pianoforte, le note sgorgano limpide e incisive. L’autore è anche un valente esecutore. Lo sguardo rimane fisso sui tasti mentre la mano destra si leva a disegnare nell’aria un cenno direttoriale, che innerva con una pennellata di colore la sobria eleganza del suono in bianco e nero. La melodia sale malinconica, poi esplode in esuberanza jazzistica. A dar vita alla polifonia non serve un’orchestra dai grandi numeri, ma è bastevole il raffinato ensemble (Marina Cesari, Pasquale Filastò, Ivan Gambini, Marco Loddo, Rossano Baldini) di eclettica bravura anche quando il tragitto tocca Prokof’ev, Chopin e Debussy, ritrascritti in giovane età per farli propri, per impossessarsene.
La serata segue una forma teatrale che si perpetua da millenni e che per altri millenni rimarrà viva. Ben altro, rispetto alla definizione musica dal vivo che non va giù al Maestro, il quale, abituato a sentirsi ripetere che ciò che non passa in TV non esiste, ringrazia per le due ore di inesistenza trascorse con il pubblico. Prima del bis – tanto prevedibile quanto inevitabile, riservato alla colonna sonora de “La vita è bella” in una versione che orbita attorno al tema prima di atterrarvi con leggerezza dimentica della forza di gravità – lungo il percorso affiorano le Sirene, visitate dagli Argonauti e da Orfeo armato solo della sua cetra, ossia della sua musica.
Le stesse Sirene, anteriori al misunderstanding medievale, con il corpo metà di donna e metà di uccello, si ritrovano nel concerto mitologico “I viaggi di Ulisse”. Le creature affascinanti e terribili possiedono voci surreali, ipnotiche ed enigmatiche echeggianti da luoghi indefiniti, e le sembianze conturbanti tratteggiate da Milo Manara. Grazie al disegnatore, Pierpaolo Pasolini presta le fattezze all’eroe cantato da Omero, uomo di pensiero e d’azione proteso ad andare oltre gli orizzonti, che incarna il bisogno di superare i limiti, di guardare oltre il perimetro assegnato, al di là delle apparenze. Un personaggio forse nemmeno esistito che ha ispirato poeti, pittori e musicisti. Ulisse polytropos, dal multiforme ingegno e dai mille volti, che Piovani descrive tra i Lotofagi con note sinuose e avvolgenti, monito a non dimenticare mai la terra natia. Il clima si fa teso, potente, inquietante, a tu per tu con il muscoloso Polifemo.
Da uno schermo, molti protagonisti di spicco del teatro contemporaneo danno voce ai versi di Omero e Kavafis, di Tasso e Pindaro. A loro, i Solisti dell’Orchestra dell’Ara Coeli (Andrea Avena, Marina Cesari, Pasquale Filastò, Ivan Gambini, Aidan Zammitt) cedono spazio seguendo il ritmo ciclico del moto ondoso che conduce la barca di Odisseo agli approdi. Non può mancare Penelope, malvista dalle femministe per il suo aspettare un uomo appena incontrato e subito partito, sconosciuto al punto da avergli dovuto chiedere, al ritorno, una prova di essere davvero lui. Penelope non attende il marito, ma un’idea. Piovani la vede come la Molly Bloom raccontata da Joyce in un flusso continuo, senza respiro. Infine l’Ulisse celebrato da Cicerone, che tenta l’impresa di attraversare le colonne d’Ercole, valicando i confini della conoscenza come dopo di lui fecero Margherita Hack, Samantha Cristoforetti, Fabiola Giannotti. “…al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore”, scrive Saba. Quando il mare si alza e inghiotte l’eroe temerario, Piovani immagina che il suo ultimo pensiero vada alle Sirene, a quel canto bellissimo che solo lui aveva udito. La musica tempestosa si acquieta, si fa dolce nenia cullata dal vento, che pacifica durante l’epico viaggio dell’uomo, e della musica, verso l’empireo.
M.A.
Visto al Teatro Comunale di Gonzaga (Mantova) il 26 gennaio 2018
Visto al Teatro Sociale di Mantova il 7 febbraio 2018.