Ho vissuto parecchi anni a Milano: in quel periodo le occasioni di contatto con l’ambito del jazz e dei suoi esponenti erano spontanee, numerose e di variegata natura. C’era, per esempio, un’edicola in fondo alla Galleria, proprio in vista della Scala che aveva tutte, ma proprio tutte le riviste di jazz, anche americane. E c’era un negozio di dischi gestito da un mio amico a nome Giacomo: appassionato di jazz lui stesso, aveva scelto per il suo esercizio commerciale, in via Vincenzo Monti, un nome tratto da un’opera di Charles Mingus “The Black Saint and the Sinner Lady”. Il negozio si chiamava dunque “The Black Saint” ed era dedicato esclusivamente al jazz, con dischi di tutto il mondo: mia meta obbligatoria per almeno una visita settimanale. Il jazz suonato dal vivo lo trovavo al Teatro Lirico, al Teatro dell’Arte al Parco e in un jazz club che se ben ricordo si chiamava Jazz Power e aveva sede all’ultimo piano del Palazzo della Rinascente. Ho in quel periodo ascoltato e visto dal vivo molti grandi maestri, da Ellington a Count Basie, da Miles Davis a Coleman Hawkins, da Mingus a Lionel Hampton, da Roy Eldridge a Lennie Tristano. E chissà quanti altri ancora, ma mi fermo qui, prima che la nostalgia e il rimpianto di quella stagione magica, mi commuovano troppo.
Ci furono anche alcune occasioni d’incontro vis-a-vis, ma non numerose: io non mi fidavo troppo del mio inglese e poi ero (sono) portato a pensare che quei musicisti erano lì per lavorare e che dare retta ai fans non fosse proprio la massima delle loro aspirazioni del momento.
Però, nonostante la mia ritrosia, qualche fuggevole incontro di persona l’ho avuto.
Il primo fu con un grandissimo, un illustre maestro. Una sera al crepuscolo atterro a Linate, di ritorno da un viaggio di lavoro. C’è una macchina dell’azienda per cui lavoro che mi aspetta, salgo, saluto l’autista e poi guardo fuori e d’improvviso si materializza e mi appare, sul marciapiede, una figura e una faccia famigliare: c’era, tenetevi forte, Dizzy Gillespie in persona, inconfondibile, riconoscibile tra mille. Era solo, sembrava che stesse aspettando qualcuno, con una borsa da viaggio appoggiata a terra ai suoi piedi. Se mi mettessi d’impegno a scartabellare nell’archivio riuscirei probabilmente a ricostruire con precisione la data di quell’incontro fatidico, ma preferisco lasciare la storia com’è, nella nebbia d’un sogno e nella lontananza della memoria: ma era lui, lui, lì sul marciapiede in quella sera milanese, Diz il grande. Faccio fermare la macchina e, emozionato, mi avvicino e gli porgo la mano, dicendo che non posso perdere l’occasione di un saluto a The Greatest Trumpet of Them All. Il complimento in inglese mi venne facile: era il titolo di un LP che il grande Dizzy aveva inciso per la Verve e che stava, e ancora sta, nella mia discoteca. Lui mi sorrise, sembrava divertito, mi abbracciò e pronunciò parole di saluto che non riuscii a interpretare fino in fondo, ma che esprimevano comunque compiacimento e soddisfazione. Era come se una devota, avesse incontrato Padre Pio al bar, un napoletano tifoso di calcio si fosse trovato Maradona dal barbiere, o un fan della musica avesse scoperto di essere in coda al supermercato con Madonna, o Freddie Mercury.
L’altro incontro di cui vorrei condividere con voi qualche ricordo è quello con il sassofonista tenore Albert “Budd” Johnson (1910-1984), un tipico e molto poliedrico esponente di quello che si è soliti classificare come jazz di mezzo, intendendo riferirsi a una posizione temporale in qualche misura intermedia tra il jazz delle origini (“tradizionale”) e quello del dopoguerra (“moderno”). Io amo molto l’equilibrio e la ricchezza espressiva di questo periodo o scuola o stile: il suo solido ancoraggio alla tradizione classica convive con una ricchezza di fermenti e di visioni che poi porteranno alla rivoluzione del bop, con Charlie Parker e con quell’altro signore che mi apparse all’improvviso nel parcheggio di Linate. Tornando alla definizione di questa forma di jazz, c’è un efficace termine inglese che serve allo scopo ed è “mainstream jazz”: il jazz della corrente principale, il filone più classico. Del mainstream Budd Johnson è un insigne esponente: ha inciso con Louis Armstrong nelle sedute Victor del 1933; ha svolto il ruolo di arrangiatore per un gran numero di grandi orchestre, da quella anteguerra di Earl Hines a quella del dopoguerra di Boyd Raerbun (arrangiatore e capo orchestra bianco di grandi ambizioni: uno dei suoi dischi s’intitola pomposamente Boyd Meets Stravinsky); appare in alcune registrazioni dal vivo con Charlie Parker. Ma soprattutto Budd ha diretto diverse sedute a suo nome alla testa di piccoli complessi di classico equilibrio e compostezza in cui si esprime al sax tenore con un tono morbido e carico di swing.
Ma torniamo all’incontro ravvicinato. Avevo un amico a Milano, un giornalista storico e critico di jazz: Gianni Tollara. Non ricordo in quale occasione lo conobbi, ma ci si vedeva ogni tanto ai concerti e molto spesso leggevo la sua firma in calce ad articoli o alle note di copertina di dischi. In una di queste occasioni mi parlò di un prossimo concerto a Bologna di un gruppo di musicisti mainstream in tournee dagli USA e tra essi c’era appunto Johnson. Gianni aveva lavorato molto su Budd e la sua musica: tra i due si era costruito un rapporto sempre più stretto, tale da consentire a Gianni di pubblicare “Budd Johnson racconta” una intervista rievocativa su Musica Jazz del marzo 1969. La data del concerto incrociava fortunatamente un mio viaggio di lavoro a Bologna negli stessi giorni e con facilità organizzai le cose: partenza in treno per Bologna con Tollara al mattino, riunione di lavoro, concerto, rientro il giorno dopo. Durante il trasferimento a Bologna, Gianni mi disse che se volevo, alla fine della riunione anziché andare direttamente al concerto, potevo passare con lui al Jolly Hotel a salutare Budd Johnson, in arrivo via aereo dalla Germania assieme al resto dei musicisti. Come no, chi avrebbe perso un’occasione del genere? La scena si sposta nella hall dell’albergo, io e Gianni in attesa, io un po’ nervoso. Eccoli…eccolo…c’è anche lui, Budd Johnson. Si guarda attorno con l’aria un po’ smarrita, il suo sguardo incontra Gianni, lo riconosce e …”Oh! Gianniiii!…My friend Gianniii”; voce stridente e acuta, sorriso largo e stampato. Ecco che si avvicina a braccia aperte, passo ondeggiante e incerto; Gianni viene soffocato in un abbraccio impetuoso da cui con fatica si libera per presentarmi: “This is Gianfranco, a friend of mine” dice a Budd; la scena si ripete e sono io questa volta ad essere abbracciato affettuosamente dal grande Budd. Puzza di whisky lontano un miglio e si muove in modo un po’ scoordinato, a scatti. Gianni mi guarda con aria d’intesa: sì, ci diciamo senza parole, è ciucco duro. Gianni cerca di ricordargli il concerto, forse spera che ci sia il tempo di rimetterlo in sesto prima dell’inizio, ma no: “Gianniiii, Gianfranco. My Italian friends!” e del concerto, del teatro, di suonare non si parla proprio. Infatti al concerto non lo si è visto. Tornando in treno, Gianni commentò l’accaduto: lo stress della tournee, i lunghissimi trasferimenti, l’età non più verde. Io ero soddisfatto e dispiaciuto assieme, mi sembrava di essere penetrato in un territorio appartato e segreto, di avere violato aree private e infernali: ma anche quello è il jazz, mi dicevo. Se fosse stato sobrio, mi dicevo, avrei potuto chiedergli di suonare un suo blues, a cui mi ero molto affezionato.
Voglio, infatti, indicare anche in quest’occasione un brano, per non venir meno alle regole che mi sono date: anche se in questo caso l’esperienza più forte riguarda non un disco, ma un incontro irripetibile. Ma, ripeto, per chi vuole farsi un’idea del Johnson musicista, propongo un brano inciso in Francia (Bourdeaux) nel febbraio del 1970, con un quintetto di musicisti francesi e americani: si intitola “Ya! Ya!”. Il disco ha una partenza singolare: Johnson lo presenta recitando una storia, quella di un ragazzo un po’ balordo che per il suo comportamento ha perso tutti i suoi amici e soffre di una desolata solitudine. La musica che segue vuole essere la rappresentazione di questa personale sofferenza, un lungo e doloroso cammino solitario, con qualche nota di speranza qua e là. Nella sua recensione del disco per Jazz Journal del gennaio 2001, il critico inglese John Postgate sintetizza così il suo parere: “L’introduzione parlata a Ya Ya è un tocco di teatro rischioso, ma poi il tenore è così convincente che anche un vecchio cinico come me può perdonarla”.
Anche il vostro cronista la pensa così.
JazzFranco for DeArtes