Il brano su cui mi propongo di intrattenervi è contenuto in un LP tra i più antichi della mia collezione: ma sarebbe più giusto dire tra i più malconci. Il vinile non ha graffi, ma la copertina è stata negli anni devastata da mille disavventure fino ad apparire oggi strappata, logora, sciupata, lacera, malconcia, sdrucita, spelacchiata, maldestramente riparata con del nastro adesivo che a sua volta non ha resistito a quelle che si è soliti chiamare le ingiurie del tempo e si è sfrangiato, scollato, disgiunto, lasciando su quello che resta della copertina ineleganti strisce giallastre. Il titolo di questo cimelio d’antiquariato è “The Best Of Max Roach And Clifford Brown In Concert”, https://youtu.be/-RN3uFAT2sk l’etichetta è quella della casa discografica GNP Crescendo Records, in cui GNP sta per Gene Norman Presents. Ma andiamo oltre il contenitore, apriamo lo scrigno: il contenuto è la registrazione di due concerti del quintetto di Max Roach (batteria) e Clifford Brown (tromba) nel 1954 a Los Angeles, uno in aprile (sul quale in particolare mi dilungherò) e l’altro in agosto. Di Max Roach, contitolare del quintetto, ho già cantato l’elogio in altri articoli di questa serie e forse lo ricorderete come uno dei componenti del trio (o triumvirato, o trinità?) di Money Jungle. Il quintetto ha il classico formato del complesso bop: tromba (Brown); sax tenore (Teddy Edwards); piano (Carl Perkins); contrabbasso (George Bledsoe); batteria (Roach). Roach è il fuoriclasse che abbiamo detto, Edward e Perkins sono solisti personali e interessanti, Bledsoe, per quanto la mediocre e sorda registrazione dal vivo lascia intendere, è competente e ordinato.
Ma qui e oggi il focus è su Clifford Brown e l’impatto che la sua breve carriera ha avuto sull’evoluzione del jazz: tutta una generazione è stata influenzata dalla combinazione di attacco potente e lirica tonalità che la sua musica rappresenta. Qualcuno l’ha voluto identificare come una sorta di punto di sintesi tra Fats Navarro e Miles Davis, ma come sempre queste formulette risultano banali e poco rispettose, come se bastasse combinare gli ingredienti per ottenere il risultato voluto, come se chi ha dato corpo e sostanza a queste sintesi non ci abbia messo niente di suo. Carriera breve, si diceva: nato il 30 ottobre del 1930 e morto il 26 giugno del 1956 in un incidente automobilistico durante un trasferimento da Philadelphia a Chicago. Una notte piovosa, una curva maledetta e l’auto che trasportava Clifford e il pianista Richie Powell (la cui moglie, Nancy, era alla guida) volò giù dal ponte dell’autostrada: tutti morti. Una vita breve e sfortunata, una storia senza nessuna delle pericolose, a volte fatali, deviazioni che hanno segnato vita e morte di tanti jazzmen: niente droga, niente alcool, nessuna frequentazione pericolosa. Ultimo di otto fratelli, una moglie, una figlia piccola, ventisei anni ancora da compiere.
Il suo debutto discografico (21.3.1952) avvenne con una band di Rhythm And Blues di Philadelphia (Chris Powell and His Blue Flames). La sua formazione come solista si sviluppa nei ranghi dell’orchestra di Lionel Hampton, la sua affermazione definitiva con Max Roach. C’è un’illuminante storia riferita al tour europeo dell’orchestra di Hampton nel 1953. L’orchestra, ancorata alla solida tradizione swing del leader, era in realtà una fucina di giovani talenti del jazz moderno: Clifford, Art Farmer, Gigi Gryce, Quincy Jones e Jimmy Cleveland. Durante la sosta a Parigi, la casa discografica Vogue trovò modo di organizzare una seduta d’incisione a suo modo clandestina che mise in una luce lo splendente talento di questi musicisti allora poco conosciuti. Il vecchio Hampton fu tenuto all’oscuro di questa scappatella: temevano che si sarebbe arrabbiato. Una storia illuminante, dicevo: il nuovo che si genera dall’antico, spontaneamente e senza fratture, un arricchimento che non rinnega il passato, ma ne trae nutrimento.
Ma torniamo al concerto del 1954, al mio disco. A un certo punto una voce (penso che sia quella di Max Roach) annuncia ai fortunati presenti all’evento: “…I have the pleasure to introduce Clifford Brown playing for you Tenderly”.
Due parole sul veicolo scelto per l’esibizione di Brown. Tenderly è una canzone popolare americana pubblicata nel 1946, con musica di Walter Gross e parole di Jack Lawrence: era in origine un valzer in ¾ ma poi è stata quasi sempre eseguita in 4/4 e nel tempo si è consolidata come un canonico standard del jazz. Il fatto che l’abbiano eseguita artisti tra i più grandi di ogni epoca (Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Chet Baker, Benny Carter, Nat King Cole, Miles Davis, Duke Ellington, Bud Powell e molti altri) non cancella il fatto che in origine si presentasse come un inoffensivo valzerino, un po’ scontato, da colonna sonora di un film romantico in Technicolor. I versi della canzone non contribuiscono a modificare questa sensazione. Sentite l’inizio
The evening breeze caressed the trees tenderly
The trembling trees embraced the breeze tenderly
e via di questo seguito. Ma nel “mio” disco, nel “Tenderly” di Clifford Brown si respira, ovvio, un’aria ben diversa. Qualche riferimento, come al solito, della critica più accreditata. Alun Morgan in “Jazz on Record” lo definisce, senza esitazioni, “la versione definitiva di Tenderly per tromba”. Michael Shera, in una recensione per Jazz Journal del giugno 1982 la iscrive autorevolmente “tra le vette più alte della musica incisa da Clifford Brown”. Un po’ meno entusiasta sembra Nick Catalano, un illustre paisà che insegna musica e letteratura alla Pace University e che al grande Clifford ha dedicato un libro di straordinaria completezza che s’intitola (“Clifford Brown: Life and Art of the Legendary Jazz Trumpeter” pubblicato dalla Oxford Univeristy Press). Si limita a dire che la seduta è ben riuscita e che Tenderly è il brano scelto per il solo di Brown. Grazie, paisà, ce ne eravamo accorti.
Adesso arriva il difficile e cioè spiegare che cosa mi affascinò e mi affascina ancora oggi con tanta intensità. Il brano inizia con un’introduzione del piano che accenna il tema e poi lascia spazio alla tromba. E’ un soliloquio appassionato e ad alta carica emotiva: Clifford trangugia gli accordi, danza tra le insidie della diteggiatura per una performance d’irresistibile energia, un flusso inarrestabile, che sembra senza soste e senza respiro. Una magniloquenza che rende impossibile l’analisi. Ho sempre associato questa performance memorabile a un’idea balzana che mi è venuta in mente fin dal primo ascolto. Mi sono immaginato il brano di partenza come una costruzione, un edificio un po’ pomposo e solenne e Clifford che dall’esterno, animato, con la tromba al collo e un lanciafiamme musicale in mano, va all’attacco di tutta quella grazia e compostezza ma, attenzione!, non per distruggerla, ma per riscaldarla, rinsanguarla, irrobustirla, tonificarla, rivitalizzarla. In altre parole, il tema non viene disgregato e polverizzato: sono frequenti i richiami melodici che lo ricordano, i giri di frase che lo suggeriscono o lo lasciano intravedere. Calore, rispetto e intensità sembrano essere le parole d’ordine, un grande fiume di musica benefica e risanatrice, uno dei miei dischi della vita.
Ho citato sopra la prima seduta di Clifford: quei titoli sono stati ristampati in un CD della Columbia, assieme a una registrazione dal vivo del suo ultimo concerto a Philadelphia il 25 giugno 1956. Il CD si intitola “The Beginning and the End”. L’ultimo concerto, proprio il giorno prima dello schianto fatale.
JazzFranco