“Sola, perduta, abbandonata” canta Manon Lescaut nella landa desolata delle Americhe dove è stata deportata. Su queste tre parole chiave si dipana il disegno registico ideato da Graham Vick nel 2010, ripreso da Marina Bianchi al Teatro Filarmonico di Verona nel corso della Stagione lirica 2017-2018, coproduzione di Fondazione Arena e Teatro La Fenice di Venezia. Nel libretto, che risente delle molte mani che vi hanno lavorato, la vita della sedicenne Manon è scandita in fasi, a indicare una personalità multiforme, contraddittoria come quella di qualsiasi adolescente. Puccini è solito raggiungere vette sublimi nel musicare la complessità dell’indole umana, e la poesia che queste note sprigionano è tradotta scenicamente in un lirismo crudo, affilato, disincantato. Vick non inventa, ma progetta una rielaborazione dalle tinte forti, in cui i sentimenti pucciniani abbandonano la loro originaria leggerezza e diventano materici.
Il regista britannico immagina una piattaforma sospesa sopra una voragine scavata nel terreno (scene di Andrew Hays). Un baratro pronto a fagocitare i protagonisti, sul quale si erge un’aula scolastica, con studenti in calzoncini corti e calzettoni accanto a studentesse con le treccine e il fiocco al collo (costumi di Kimm Kovac), intenti a scrivere sulla lavagna e fare scherzi. Irrompono le carrozze a forma di cigno di una giostra, alcuni clown, un grande orsacchiotto di peluche rosa. Per la giovane destinata al monastero è il tempo di transizione dalla fanciullezza, dal gioco, dalla spensieratezza all’età adulta e inquieta. Dopo una breve fuga d’amore, Manon abbandona Des Grieux per gli agi offerti da Geronte, per una vita frivola di noia e sregolatezza, che per Vick equivale al miraggio dell’effimero con il quale ella si illude di appagare la passionalità bulimica di ogni eccesso, di colmare quel vuoto interiore che occupa la scena e sopra al quale tutto è in bilico. Un’indole ribelle, che rifugge dai freni imposti dalla società osando tradurre le pulsioni in una libertà di azioni che le verrà imputata.
Il lusso per il regista coincide con la depravazione, descritta in termini allusivi all’interno di un teatrino sulle cui quinte è scomposto un nudo di donna, dove si svolgono droga party, sedute di tatuaggio, lezioni di portamento da passerella, fino a un set fotografico dalle pose esplicite sotto gli occhi di blasonati guardoni. L’amore si avvilisce nell’erotismo di routine. Poi la svolta, brutale, del terz’atto, in cui emerge il talento di Vick, il suo conoscere l’opera e farla propria rimanendo entro i contorni autorali. Manon, dallo sguardo allucinato di chi rimane spiazzato dalla fine devastante della propria illusione, si dondola incatenata a un’altalena retaggio di tempi migliori. Accanto a lei, sopra la concavità della pancia della nave pronta a salpare, sono appese come carne da macello altre ragazze, con le crinoline degli abiti, un tempo belli e ora scheletriti, rovesciate all’insù a ingabbiarle. Nell’ultimo atto, Manon e Des Grieux si trovano ad affrontare le asperità di una terra lontana e sconosciuta. Per il regista, l’amore tra i due è anch’esso solitudine, abbandono: è lo squallido buco nel terreno dove si perdono i rifiuti della società. Vick chiude abilmente il cerchio narrativo aperto nel prim’atto, per ricongiungersi infine alla poetica pucciniana. Dall’alto, affacciati al parapetto, alcuni studenti assistono con distacco alla lezione di morale. Una sola ragazza, alter ego del passato con la funzione di Parca, rimane fino alla tragica conclusione e lancia in direzione della morente un’ultima stella filante rossa: il cordone della giovinezza si spezza per sempre.
Il direttore Francesco Ivan Ciampa si è prodigato nella ricerca dinamica, in appoggio al palcoscenico con il quale si sono registrate poche incomprensioni, senza mai porre in subordine le esigenze orchestrali. È emersa la ricchezza di sfumature pucciniane e la vividezza con cui il compositore lucchese trasla in musica i sentimenti nel loro incessante mutare, trasformarsi, dar vita a emozioni contrastanti. Francesca Tiburzi ha vocalità interessante, impetuosa come il carattere di Manon, mentre è risultata più timida nella resa scenica. Ottima prova di Sung Kyu Park che, nei panni del cavalier Des Grieux, ha coronato il canto appassionato con squillo potente e limpido, tornito dalla ricerca delle mezze voci e dei chiaroscuri interpretativi, anche attraverso il calore emanato dal fraseggio. Qualche disomogeneità ha venato la bella timbrica di Elia Fabbian, Lescaut. Il basso veronese Romano Dal Zovo ha debuttato egregiamente il ruolo di Geronte de Ravoir. Bene Andrea Giovannini come Edmondo. Puntuali Giovanni Bellavia, Oste e Sergente degli arcieri; Alessia Nadin, Musico, Bruno Lazzaretti Lampionaio e Maestro di ballo; Alessandro Busi, Comandante di Marina. Come sempre all’altezza del compito, il Coro diretto da Vito Lombardi.
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 6 marzo 2018
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona
Recensione Maria Luisa Abate