Salome è un dramma di passioni estreme e scabrose, dalle tinte talmente forti da essere all’epoca incappato nella censura della Chiesa e tuttora trattato con le pinze da taluni teatri. Per il libretto, Richard Strauss si affidò alla traduzione tedesca di Hedwig Lachmann che ricalcò con fedeltà il poema scritto in francese da Oscar Wilde. Con altrettanta corrispondenza, mediata dalla propria personalità registica, si è mossa Marina Bianchi tornata a Verona, dopo aver curato la ripresa della Manon ideata Graham Vick, per firmare il nuovo allestimento di Salome, andato in scena in lingua originale come titolo conclusivo della Stagione di Fondazione Arena al Teatro Filarmonico.
Alcune colonne neoclassiche, rischiarate da lampadari liberty (lighting designer Paolo Mazzon), delimitano il pronao della reggia di Erode a Gerusalemme (scene di Michele Olcese), popolata da cortigiani e soldati dalla sessualità ambigua, impegnati in una profusione di controscene. Sulla sinistra, una scalinata rugginosa conduce all’ingresso sopraelevato della cisterna dove è rinchiuso Jochanaan, Giovanni Battista, che dalla cella profetizza a gran voce la venuta del Messia. Marina Bianchi ne fa una presenza incombente proiettandone il volto ingigantito sul muro del palazzo (videomaker Matilde Sambo).
La testa, già separata dal corpo, anticipa come un presagio la decapitazione. Delle labbra del Battista si innamora morbosamente Salome, degna figlia di mamma Erodiade, che si muove per il salotto en plein air con schiavi scodinzolanti al seguito. La testa evocata cede il posto a una luna butterata, poi a un caos celeste corrispondente alla tumultuosa interiorità umana, non univoca. Concetto, quest’ultimo, visivamente rafforzato dai costumi (di Giada Masi) che miscelano in un cocktail gradevole una ridda di stili, dal classico al militare, al punk-dark, all’erotico-seduttivo. Salome rappresenta l’esasperazione, il portare ai limiti estremi e psicotici le contraddizioni che attanagliano qualsiasi adolescente. È sfacciata, immorale e a-morale, preda di ossessioni soddisfatte senza ritegno alcuno. La perversa giovane rimane affascinata dalla purezza del Battista, che vuole possedere a ogni costo, e quando egli è tratto fuori dalla prigione ne impugna i vincoli a mo’ di briglie.
Marina Bianchi tratteggia l’impudicizia della protagonista con pudica eleganza, senza volgarità, e le affianca un alter ego appellato Anima, che ne pone in luce la natura nascosta e rivela una personalità dicotomica malata, bipolare. Il doppio replica come un’eco l’originale, oppure lo spia da dietro le colonne, anche durante la celeberrima Danza dei sette veli (movimenti mimici di Riccardo Meneghini) risolti con lunghi nastri che si annodano alle persone e si sciolgono, in un rito di seduzione e possesso sfociato nell’amplesso lussurioso con il patrigno. A Salome non interessano i tesori a lei offerti in cambio della vita di Jochanaan. Salome è bulimica di pulsioni erotiche, di carnalità animalesche; è bramosa del binomio amore-morte. Quando ella bacia sulla bocca la testa mozza del Battista, si sofferma a centellinare goduriosa il sapore del sangue, dopo aver danzato sopra quello dell’innamorato suicida Narraboth, e prima di versare il proprio, emulando involontariamente Floria Tosca con un insolito tuffo nel pozzo fumoso. E il rosso, come una nuvola fluida e vitale, intorbidisce il pallore della luna.
Il giovane direttore tedesco Michael Balke, al debutto in questo titolo ma assai avvezzo a Strauss, ha dettato dinamiche energiche, di una grandiosità capace di espandersi spazialmente, che hanno splendidamente accentuato la fantasmagoria di colori presenti nella partitura, tra melodie perlacee scosse da fremiti (come la veste della protagonista) e da boati emozionali, tra turbinose dissonanze e impasti magmatici di timbriche. La sezione delle percussioni dell’orchestra areniana, sempre all’altezza del compito, era sistemata nei palchi di barcaccia e, per quanto riguarda il palcoscenico, sarebbe riduttivo parlare di interazione, tanto Balke ha sputo fondere i settori in uno sfarzoso unicum.
Madina Karbeli si è dimostrata padrona del ruolo di Salome, aiutata dal fisico snello e dalle movenze, andate in magnifico parallelo con il fraseggio, insinuanti e lascive, aggressive e ferine, con le cosce adescatrici messe in mostra e i piedi inguainati in anfibi neri. Jochanaan era Fredrik Zetterström. Il baritono svedese, dal canto nobile che ha sovrastato senza fatica le esuberanze orchestrali, ha ben risolto la tessitura impervia che richiedeva sfoggio di registri acuti. Meno incisiva la sua presenza, non solo per una certa staticità comunque ascetica, ma per l’aspetto florido e poco “consunto”, per i capelli ravviati, la barba curata, la veste da guru fresca di bucato: elementi difficilmente conciliabili con uno stato di prigionia e privazioni.
Kor-Jan Dusseljee si è destreggiato egregiamente nelle pagine ricche di insidie, grazie alla padronanza tecnica e all’espressività, facendo di Erode un pavido paranoico, succube del potere esercitato su di lui dalle donne della sua vita. Ha confermato enorme caratura Anna Maria Chiuri, sontuosa Erodiade, dal carisma da regina sia nella recitazione che nella linea stilistica del canto, eccelsa sotto ogni punto di vista. Notevole la prova del giovane tenore Enrico Casari che, con la voce chiara, ha messo a fuoco il capitano Narraboth, innamorato di Salome ma impegnato in una tresca con il Paggio, Belén Elvira. Completavano onorevolmente il cast i Cinque Giudei Nicola Pamio, Pietro Picone, Giovanni Maria Palmia, Paolo Antognetti, Oliver Pürckhauer; i Due Nazareni Romano Dal Zovo e Stefano Consolini, i Due soldati Costantino Finucci e Gianfranco Montresor, l’Uomo della Cappadocia Alessandro Abis e lo Schiavo Cristiano Olivieri.
Un allestimento ottimo sotto tutti i punti di vista, che ha sostituito l’inizialmente annunciata coproduzione del Comunale di Bologna e del Verdi di Trieste, con la regia di Gabriele Lavia, che era stata programmata dalla gestione precedente e che presentava necessità tecniche inconciliabili con lo spazio del sottopalco veronese.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 22 maggio 2018