La musica è come una barzelletta: se la devi spiegare significa che c’è qualcosa che non va. Stefano Bollani dissente bonariamente sulla forma colloquiale che caratterizza il concerto al Teatro Romano di Verona, perché la musica fa vibrare corde che abbiamo in noi, senza passare dal cervello. Dire che sia uno sfolgorante genio camaleontico appare scontato. È una persona curiosa che cerca incessantemente, senza paura o preconcetti riguardo ciò che potrà trovare. Si potrebbe definire, con una brutta espressione oggi in voga, un artista a tutto tondo, se non fosse che i consueti trecentosessanta gradi gli vanno stretti. Sembra riduttivo persino il titolo “Summertime in jazz” dato all’appuntamento conclusivo, ennesimo sold out, del Festival della Bellezza.
La bravura come pianista e compositore è pari alla simpatia, in colui che è unanimemente considerato uno dei maggiori jazzisti della scena contemporanea. «Diciamo pure il più grande di tutti, tanto qui non c’è nessuno a sentirci» scherza con il “contrappunto dialogante” Marco Ongaro, strappando al pubblico la prima di una lunga serie di risate. L’intento dichiarato è quello di non divertire con le battute, che pure fioccano, ma con la musica stessa. E ci riesce, compiendo al pianoforte un entusiasmante prodigio che per lui è normale metodo. Un approccio filosofico senza pedanterie, un modo di pensare che rivela la cultura del musicista-compositore-cantante-autore-scrittore-conduttore milanese, nonché commendatore e insignito di un alloro honoris causa alla Berkeley. «È pleonastico avere una laurea in jazz, anzi è pleonastico avere una laurea». Meglio essere ambasciatore di Topolino, si schernisce; avere un canale privilegiato, e spiritoso, di comunicazione con gli ascoltatori di domani.
La sua apertura mentale spazia sullo scibile come su una tastiera, con scioltezza mai banale, raziocinante. Una visione personale anch’essa jazzistica, che non è solo scelta musicale ma, per l’appunto, una filosofia. Il concerto-conversazione si apre con il pezzo che dà il titolo al programma, Summertime di George e Ira Gershwin. La mano sinistra segue un ritmo ripetitivo, che ricorda il coro presente nella versione originale dell’opera, e che si fa sinuoso offrendo un appiglio sul quale la mano destra si inerpica per compiere variazioni, al solito ardite. Il brano, così come è stato eseguito, traccia la linea conduttrice della serata, ovvero una riflessione sulla musica e sulla poesia o, si affretta a specificare il teoreta, sulla poesia in musica. Sempre jazz, anche nel parlare: parte da un concetto o da un’affermazione per poi riarrangiarla con intelligenza. Dando per scontato che ci sia qualcosa che connette Vivaldi Beethoven e Gershwin, come domanda l’interlocutore. «Sono tre musicisti» risponde pronto l’interrogato, che racconta la sua visione del Novecento musicale, epoca dei primi grandi viaggi che permettevano ai compositori di ascoltare melodie afgane oppure percussioni coreane. Per quanto, ammette, a sentire le percussioni coreane siano principalmente i coreani. Gershwin risentiva quindi di influenze diverse da quelle che avevano vissuto Vivaldi e Beethoven. Concetto lapalissiano, non così semplice da tradurre sul pentagramma. Lui lo fa. Inizia a eseguire i classici in modo scolastico, come si devono presentare agli esami di conservatorio, cioè suonando ogni singola nota. Una noia da sbadiglio! Così, “Per Elisa” o la “Marcia alla turca” vengono potate come bonsai, moncate di battute e di «inutili ripetizioni», condensate alla loro essenza. Suscitano risate pur mantenendo un senso logico.
Come Miles Davis, che ha cambiato pelle, musicisti e suono del gruppo restando sempre protagonista, mai impallato, Stefano Bollani si contorce sullo sgabello, alza una gamba come a spingere su un invisibile acceleratore, canticchia seguendo i propri pensieri. Soprattutto si diverte e fa divertire. Frank Zappa, uno che sapeva mescolare i generi, si chiedeva se l’umorismo appartenesse alla musica. Per forza, perché l’ironia fa parte dell’esistenza. È una scelta stilistica l’essere sulla Terra per divertirsi: vuol dire essere vivi. Vuol dire che bisogna godersi quello che sta accadendo nel presente. Questo – è il Bollani-pensiero – significa aver capito tutto della vita.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romani di Verona, Festival della Bellezza, il 10 giugno 2018.