“Sangue e arena” è il titolo di un celebre film del 1941, dove arena sta per sabbia. In un’altra Arena, l’anfiteatro di Verona, è andata in scena una Carmen immersa nell’immaginario pulviscolo sollevato dal vento della guerra civile spagnola, quale titolo inaugurale del 96° Opera Festival. È dichiaratamente una donna “terra” Carmen riletta da Hugo de Ana, regista dalle intuizioni geniali, dettate da intelligenza, cultura e padronanza del mezzo teatrale. Questo allestimento, nuovo di zecca, si rivela lineare, senza particolari sorprese, compendiate nell’idea di fondo di posporre di un secolo, ricollocandola nella Spagna del 1930, la vicenda che già i librettisti Henri Meilhac e Ludovic Halévy avevano mutato d’atmosfera rispetto alla novella di Prosper Mérimée. Il folklore, comunque necessario e pertinente, occhieggia nei manifesti delle corride che arredano la locanda ingombra di sedie di Lillas Pastia, con un effetto deja-vu rispetto all’ambientazione firmata oltre vent’anni fa da Franco Zeffirelli. Prosegue nelle proiezioni didascaliche sulle gradinate (Sergio Metalli) e ancora nel recinto per i tori, smontato e rimontato nelle parentesi delle schermaglie tra franchisti e repubblicani.

I rivoluzionari fanno irruzione a bordo di camioncini vecchi e arrugginiti (dai motori silenziosissimi e rispettosi della musica) sui quali sventolano bandiere rosse. Sul tetto di uno di questi mezzi sale per fare propaganda Carmen, mentre la dolce Micaela fa il suo ingresso su una bicicletta nel piazzale ingombro dalle barricate. La sigaraia nelle cui vene scorre sangue gitano non seduce il sergente con il fascino che le è tradizionalmente attribuito, sfacciatamente sensuale. A questa Carmen non interessa il sentimento d’affetto in generale, né quello di Don José in particolare. L’amore privo di legami è un mezzo per conquistare la libertà. Carmen, e questa è la bella intuizione di de Ana, non è sinonimo di carnalità o cuore, ma di cervello e pragmatismo. Una pasionaria dagli ideali rivoluzionari che impaurisce l’uomo costretto a rapportarsi a una femmina su un piano paritario, e al contempo lo affascina per l’autodeterminazione. Come diceva un vecchio slogan: “io sono mia”. Nell’ultima scena, Carmen tiene tra le mani il cappello dell’innamorato di turno, per poi scagliarlo lontano come inutile mercanzia. È fedele solo a se stessa e a ciò in cui crede, in un concetto d’indipendenza vissuto fino alle estreme conseguenze, fino a venire infilzata dal coltello di Don José all’interno della Plaza de Toros, contro le paratie di legno come un animale ribelle. Durante l’ouverture si è visto un non meglio identificato prigioniero malmenato e fucilato. Forse, lo stesso Don José punito per aver tradito i compagni ed essersi unito ai sovversivi, la cui storia è narrata in un flashback? Ciò potrebbe spiegare la preannunciata sorpresa in questa regia giostrata sui toni del grigio, della “terra”, innovativa nell’ideazione e descrittiva nello svolgimento, con le nacchere e le danze, le gonne roteanti e gli scialli frangiati annodati in vita, i toreri impettiti e i cavalli scalpitanti. E con la solita esplosione di lustrini, doveroso tributo a quella spettacolarità che richiede il luogo, così particolare e magico.

Sul podio è salito Francesco Ivan Ciampa per dettare una lettura attenta alle preziosità della partitura, con dinamiche gradevolmente delicate i cui colori sono stati sfumati nei tempi generalmente larghi. La serata inaugurale del Festival 2018 resterà nella memoria collettiva per il vento gelido e sferzante che ha certamente messo a dura prova le voci, per la maggioranza al debutto areniano, comunque comportatesi onestamente. Anna Goryachova presentava ragguardevole materiale vocale, ben centrato sul ruolo non come è tradizionalmente inteso di capacità seduttiva, né come suggerito dalla regia di forza intellettuale, declinato con personalità interpretativa verso un lascivo languore scenico e del canto dai respiri assai ampi. Ragguardevoli le prove di Micaela e Don José. Mariangela Sicilia ha brillato per i legati morbidi, per la leggerezza della voce che “correva”, per l’espressività accorata; mentre Brian Jagde ha mostrato una linea stilistica di estrema raffinatezza per la ricerca coloristica, per non avere mai dovuto “spingere” la voce, per la naturale luminosità nello squillo. Alexander Vinogradov era a proprio agio nei panni di Escamillo, dal timbro gradevole e ben proiettato, che potrà esprimere al meglio curando i lievi accenni di nasalità. Di valore se considerate singolarmente così come in bella sinergia d’insieme Frasquita Ruth Iniesta, Mercédès Arina Alexeeva con i due contrabbandieri, Dancairo Davide Fersini e Remendado Enrico Casari. Hanno correttamente completato il cast Zuniga Luca Dall’Amico e Moralès Biagio Pizzuti. Intimiditi dall’importanza della serata pur sempre meritevoli di applausi, i giovanissimi e bravi componenti del Coro di Voci bianche A.Li.Ve diretto da Paolo Facincani. Sfoggio dei ben noti “pianissimo” per il Coro preparato da Vito Lombardi. Da segnalare il Corpo di ballo coordinato da Gaetano Petrosino, con le sevillane coreografate da Leda Lojodice.

Alla serata inaugurale, introdotta dal Sovrintendente Cecilia Gasdia al microfono sul palcoscenico, ha presenziato il Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. I saluti del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sono stati letti in due lingue, italiano e tedesco (le soprascritte all’opera sono invece in italiano e inglese) e l’Inno di Mameli è stato eseguito da Orchestra e Coro areniani davanti all’anfiteatro esaurito in ogni ordine.

Un altro momento significativo si è avuto con la posa, su una poltroncina al centro della platea, di un mazzo di trentadue rose scarlatte a ricordo delle donne che, come Carmen, sono state uccise dall’inizio di quest’anno dai loro compagni. La serata è stata dedicata alla memoria del grande direttore d’orchestra Tullio Serafin.

Recensione Maria Luisa Abate

Visto all’Arena di Verona il 22 giugno 2018
Foto Ennevi per gentile concessione di Fondazione Arena di Verona.