Tutto in una notte. Una sola notte in cui Cassandra torna in vita per parlare all’umanità un’ultima volta. Un breve lasso di tempo perché le sue parole non cadano nuovamente inascoltate. Si perpetua il mito della sacerdotessa capace di predire sciagure, di vedere oltre il presente e oltre la propria interiorità. È magnifico, poetico, forte e incisivo il testo di Ruggero Cappuccio utilizzato dal regista Jan Fabre nella sua visionaria creazione “Resurrexit Cassandra”, con cui è arrivato per la prima volta nel Settembre Classico dell’Estate Teatrale Veronese, al Teatro Romano. La Terra è sull’orlo del baratro, devastata da calamità naturali o provocate dall’uomo, dall’innalzamento dei mari e dalle guerre, da tornado e inquinamento, cambiamenti climatici e ideologie politiche spinte alle estreme conseguenze. È l’anteprima del funerale del mondo.

Sonia Bergamasco è a dir poco splendida nei cinque quadri che si susseguono senza interruzione, con un ritmo ciclico, inesorabile nel suo divenire che ricalca quello della natura, e che alla natura in questo senso inneggia, pur parlando di distruzione della stessa. Dopo il prologo affidato alla voce registrata dell’autore del testo, Cassandra entra in scena con incedere impercettibile. È appena uscita dalla propria tomba, parla a fatica, strascica le parole perché ha la bocca ancora impastata della terra di Micene che l’aveva seppellita. I movimenti dell’attrice rasentano l’immobilità e l’espressività, di alta caratura, è affidata all’uso sapiente del mezzo verbale. La figlia del re di Troia indossa un ingombrante abito nero e un velo di lutto le copre il volto. Il percorso di resurrezione è impervio, il palcoscenico è costellato da sculture di legno raffiguranti serpenti. Quelli che, secondo una delle versioni del mito, nel tempio di Apollo le donarono le doti profetiche, e gli stessi che, nei secoli, rappresentano esseri tentatori e sono simbolo del male. Il suo è un viaggio catartico sui generis, la rinascita non prevede purificazione, perché il globo terracqueo appare ormai insalvabile. Tuttavia il protendersi verso la redenzione è prepotentemente tangibile.

La solitudine derivante dall’essere inascoltata ingloba Cassandra, che reagisce sdoppiandosi, vivendo due vite in due corpi: uno fisico, sul palcoscenico, e uno virtuale, proiettato su uno schermo che il regista fiammingo utilizza come fosse una sfera di cristallo in cui scrutare per esercitare l’arte divinatoria, e attraverso la quale la veggente ha accesso al suo subconscio. Lei è la coscienza del mondo, ma anche la coscienza ha una propria coscienza.

Come il linguaggio di Cappuccio si modula e rimodula in infinite forme, Sonia/Cassandra cambia timbro e intonazione della voce. Come le serpi che la attorniano muta la pelle a ogni vaticinio, spurgandosi delle vesti indossate le une sopra le altre, al ritmo di un refrain che l’attrice/sacerdotessa recita, cadenzandolo come fosse una litania funebre, seguendo il ticchettio del tempo che scorre rumorosamente. Alcune parti sono estrapolate da canzoni dei Beatles quasi irriconoscibili, eviscerate dalle note e circoscritte alla valenza delle parole scandite una a una, e contrappuntate dalle musiche originali evocative di Stef Kamil Carlens.

Dal nero cupo del primo paludamento la veggente mostra le brillanti paillettes di un abito rosso fuoco, dove fuoco sta per spari e sangue e clangore di spade che cozzano in duello, passa al blu intenso della notte e svela le verdi vesti di una speranza marina soffocata nella plastica, dell’ossigeno boschivo sradicato. L’attrice incarna un dolore atavico di cui, con ultimo moto di speranza, si spoglia restando infine con una livrea bianca: un inno all’amore, tenacemente gioioso, che si solleva dal terreno sotto forma di nebbia dorata sospinta in alto dalla dolce brezza della sera.

Uno spettacolo bellissimo, che irretisce magneticamente l’osservatore. Il personaggio resta concluso nel ruolo tramandato dal mito: l’onere della conoscenza, il fardello dei mali del mondo continua a pesare sulle spalle della protagonista, senza che il pubblico se ne senta lì per lì caricato in maniera diretta, ancora assuefatto da quello che Fabre chiama autoinganno con cui l’umanità illude se stessa. Ma il tempo continua a ticchettare e il grido disperato dell’indovina è come una bomba a orologeria pronta a deflagrare con onda d’urto salvifica. Le parole di Cassandra scavano nel profondo delle coscienze con la nitidezza di contorni di un taglio eseguito al laser. “Non resterà né un edificio né la pietà”. Sta all’umanità aggiungere un sesto quadro, non ancora scritto, al monologo. Sta al singolo spettatore ascoltare l’avvertimento e sentirsi coinvolto in prima persona nella salvaguardia del pianeta, agire nella vita vera motivato da una messa in scena. La funzione del mezzo teatrale è proprio questa: scuotere gli animi con un significato, o come in questo caso un monito, durevole, che rimanga anche dopo che i riflettori si sono spenti.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona il 7 settembre 2021
Contributi fotografici: Estate Teatrale Veronese