Festivaletteratura è tornato e, per il venticinquesimo anno, ha animato le vie di Mantova, superando le 30mila presenze durante i cinque giorni, secondo i dati ufficiali. Un numero lusinghiero visto che si è trattato della ripartenza dei grandi eventi in presenza, ma a capienza ridotta dalle normative. Lo scorso anno il covid aveva imposto un cambiamento di rotta verso diversi metodi di fruizione, come accessi web, dirette streaming, collegamenti a distanza, contenuti digitali, una radio grandemente ascoltata. L’ambito virtuale è stato mantenuto come via di accesso parallela alla ritrovata dimensione umana che da sempre caratterizza la kermesse, dove i grandi nomi della letteratura e della cultura mondiale si pongono in contatto diretto e ravvicinato con il pubblico. Un festoso riaccendere i motori per la città di Mantova e per Festivaletteratura che, è giusto ricordarlo, un quarto di secolo fa ha dato il via ai festival letterari che sono poi proliferati in tutta la penisola, costituendo un modello emulato e imitato.
Complici le calde giornate di sole, il cuore di Festivaletteratura è tornato a battere, forte dei suoi elementi imprescindibili: la qualità delle 300 proposte, la notorietà dei 400 autori da tutto il mondo, la varietà degli argomenti trattati, rivolti a ogni genere di pubblico di tutte le età, una crescente attenzione per la sostenibilità. E la capacità di saper cambiare se stesso, adeguandosi ai tempi che stiamo vivendo.
L’appuntamento è per il 2022, dal 7 all’11 settembre. Dal prossimo dicembre 2021 si potranno trovare nel sito gli interventi di quest’anno, oltre che delle precedenti edizioni.
NARRARE È UNA FORMA DI ESORCISMO
ANTONIO SCURATI IN DIALOGO CON MARCELLO FLORES
Come può essere venuto in mente di parlare di un episodio della storia italiana così controverso, non accettato? Sul fascismo si è scritto tantissimo. Si sentiva il bisogno di aggiungere altro? Le domande di Marcello Flores sono dirette e vanno subito al punto. «Certo che sì: è qualcosa di nuovo» è la prevedibile risposta di Antonio Scurati, autore di una tetralogia in divenire sulla figura di Benito Mussolini. I due primi volumi (M. Il figlio del secolo e M. L’uomo della provvidenza) hanno venduto mezzo milione di copie e dall’opera nascerà uno sceneggiato televisivo. Un romanzo-documentario che narra questa cupa pagina italiana con rigore storico, e con il linguaggio discorsivo proprio dei grandi romanzieri che sono capaci di far parlare i personaggi.
L’autore spiega che ancora non esistevano romanzi sul fascismo scritti dalle generazioni del “dopo”, da coloro che non hanno vissuto quel periodo. L’argomento era una sorta di tabù, un «interdetto atmosferico». Finora le narrazioni provenivano da antifascisti militanti, politicamente orientati. I tempi sono adesso mutati. Così, nella «testa bacata» di Scurati (sue spiritose parole), nato nel 1969 e appartenente all’ultima generazione formata nella cultura antifascista, è nata l’idea di mettersi al lavoro su una «saga romanzesca» e di «raccontare la storia senza esserne preso in ostaggio».
«Piaccia o non piaccia, viviamo in un tempo in cui l’antifascismo militante non risponde più alla domanda: chi siamo noi, come collettività? Noi non affermiamo più che siamo ideocratici, repubblicani, antifascisti, ma diamo risposte completamente diverse. Queste sono argomentazioni tramontate» spiega Scurati che perciò, addentrandosi nel «territorio di caccia narrativa», si è preso la libertà di ripercorrere questo segmento del passato d’Italia tramite i gerarchi, le figure minori, i personaggi pubblici. Tutti descritti con precisione storica e fornendo dettagli psicologici anche dei carnefici: caratteristica che manca alle pubblicazioni preesistenti. «No, qui i buoni non ci sono» precisa Scurati. «La scommessa è raccontare il fascismo attraverso i suoi protagonisti, attraverso elementi concreti. Ci sono riuscito? Giudicatelo voi».
«In fondo, cosa è la Storia? E ciò che ci dice che ciascuno di noi non è il primo e non sarà l’ultimo; che assieme a ognuno marcia una schiera di non viventi: gli estinti e quelli che ancora non sono nati». Scurati non domanda al lettore come sia schierato. Chiede invece dove ci troviamo noi, nella schiera dei non ancora morti. Una domanda che «genera sapienza esistenziale» perché l’interrogativo si allarga alla contemporaneità. Il libro è una specie di «mappa cognitiva» per orientarsi nel presente, che entra in risonanza con l’ieri. Questo è il senso della Storia: «far entrare in quel luogo delle risonanze dove ci sei tu, il tuo bisnonno mai conosciuto, il nipote non ancora venuto al mondo. Entrare nel sentimento vasto del tempo, dà un senso alla vita».
DANTE, IL TEATRO E L’AMORE
LELLA COSTA E GABRIELE VACIS
L’attrice e il drammaturgo nonché regista vantano una proficua collaborazione artistica di lunga data. L’incontro dedicato alla figura femminile, che da Dante prevedibilmente si aggancia alla nostra epoca, all’apparenza non era stato codificato dai due, che sono sembrati parlare agilmente a braccio. La spontaneità è stato il pregio più evidente della dissertazione, basata sull’ironia e sulla presa magnetica verso il pubblico di Lella Costa, e sulla profondità di pensiero unita alla leggerezza narrativa di Gabriele Vacis.
La serata ha preso spunto dal libro intitolato “Intelletto d’amore. Dante e le donne” che, viene più volte precisato, non è il testo teatrale dello spettacolo attualmente in tournee incentrato sul Sommo Poeta. «Sommo…. con quella berretta che gli hanno messo in testa!» fa notare Lella Costa scatenando la prima di molte risate tra il pubblico, favorite da una serie di battute del tipo «Fatti non foste a viver come Drupi: se la capisci, riveli la tua età».
Vacis spiega che i professori, ai quali è deputato il compito di far scoprire Dante agli alunni, si dividono in due categorie: i dantomani e i dantofili: i primi sono gli invasati, i secondi quelli che amano Dante e che hanno capito cosa sia per lui l’amore, che non ha a che fare con la possessione. Infatti Beatrice, interviene Lella Costa, è una donna che non appartiene alla sua vita ma alla sua mente. «In tutti noi il primo amore resta perfetto. Un amore idealizzato, che diventa la via di fuga quando la vita si fa deprimente».
Nella pubblicazione, l’indagine sul mondo femminile avviene tramite quattro figure: Gemma Donati, Bice Portinari da la Vita Nuova, mentre dalla Commedia provengono Francesca da Rimini e la meno conosciuta Taide, che disse una menzogna a fin di bene, per liberare una schiava. Dante, che la colloca all’Inferno «cade in un equivoco. La memoria di Taide è condannata per sempre e noi abbiamo voluto riscattarla» spiega l’attrice, che si domanda: «perché Beatrice mostra tanta gentilezza quando saluta? Cosa dice? Ahò raga, ce se vede dopo»?
Come mai non sono stati scelti i più celebri Paolo e Francesca? Perché «la loro è una punizione per modo di dire. Sono collocati lontano dall’antro di Satana, dove tira un vento fresco che, all’Inferno, è un po’ come avere l’aria condizionata. E possiamo immaginare cosa facciano, al venticello, abbracciati tutti nudi per l’eternità».
Lella Costa è inarrestabile. Riguardo Gemma Donati fa notare che «dietro ogni grande uomo c’è sempre una donna che soffre. Ché poi a noi ragazze ci vien da dire: guarda, non importa neanche che sia un grande uomo». Oppure il detto può essere «dietro un grande uomo c’è una grande donna, basta che stia dietro». Dallo scherzo, si passa a una ipotesi avanzata seriamente, ossia che la Commedia sia stata scritta a quattro mani da Dante e dalla moglie Gemma. Ad avvalorare la deduzione, alcuni fatti quanto mai sospetti, come i 13 canti mancanti e misteriosamente “trovati” dopo anni.
L’incontro volge al termine e Vacis invita a cercare Dante dentro di noi, nel modo più semplice e divertente. E, di Dante, cercare le parole e capire cosa significhino per noi ai nostri giorni. Dante racconta il «nucleo pensante dei sentimenti» che sono gli stessi di oggi.
BIANCOROSSO VERDONE
CARLO VERDONE IN DIALOGO CON PAOLA SALUZZI
Un giornale locale in cerca di facile sensazionalismo aveva annunciato, con un sostantivo che non ammetteva repliche, l’assenza di Carlo Verdone, rimasto evidentemente spiaciuto dall’episodio. «Vi chiedo umilmente scusa: in 44 anni non ho mai mancato a un appuntamento» esordisce in collegamento video, dettagliando il serio problema di salute che gli ha impedito il viaggio. I fan sono subito tranquillizzati: il regista promette di tornare a Mantova, firmare tutti i libri acquistati in questa occasione, e salutare la città.
Da questo esordio e dalla piega che prende l’incontro emerge, oltre al Verdone autore e regista, il Verdone uomo, attento osservatore delle persone e del mondo. Una sensibilità personale che è alla radice dei suoi film e che si può ritrovare nel libro di recente pubblicazione La carezza della memoria, scritto «per la paura che venga quel giorno in cui non riesci a ricordare più nulla». E poi, continua Verdone con un tono sempre mantenuto a cavallo tra il veritiero e lo scherzoso, «avevo esaurito i ricordi più importanti nei libri precedenti».
Nelle pagine, si susseguono alcune storie uscite da un baule: non quello metaforico dei teatranti, ma uno scatolone ritrovato durante i giorni del lockdown, con sopra scritto “Oggetti da mettere in ordine”. L’ha sollevato ma è caduto per terra e gli oggetti sono finiti sparsi sul pavimento: foto in bianco e nero, polaroid, provini, occhiali da sole, un rosario, uno scritto del padre… Dietro ognuno c’era un racconto, e anche tanti personaggi, alcuni tristi altri esilaranti, tutti dalle tinte brillanti, per nulla scolorite dal tempo.
«Maria F: di lei non so più nulla. Speravo si facesse viva dopo questo libro, invece no». Era una prostituta molto bella, dall’aspetto fine, che riceveva in un appartamento in Via Panisperna. Per Verdone fu un amore platonico. Lei «parlava poco e ascoltava molto» e lui l’accompagnava in giro in motorino per farle scoprire Roma e leggere lo stupore nei suoi occhi. Una storia da cui potrebbe nascere un film. «Chissà se mai lo farò».
E poi i due figli che il maestro del genere comico non era mai riuscito a far ridere. «Se facevo le imitazioni, le voci, mi guardavano come un pazzo. Non riuscivano a capire quale lavoro facesse il padre». La prima risata dei bambini al papà fu il giorno in cui, al circo dell’amica Liana Orfei, un elefante invitato a salutare l’illustre ospite alzò la proboscide, emanò un barrito «e fece pure uno scaracchio grosso come un’ostrica. Mi prese in pieno in fronte. Disinfettante… collirio… e questa cosa che iniziava a colare mentre tutti si sbellicavano».
Un capitolo toccante è dedicato alla signora Stella. Un giorno una donna avvicinò Verdone in un bar e gli chiese il piacere di fare visita alla sorella, malata terminale, che durante le giornate di dolore trovava distrazione e sollievo nel guardare i suoi film su videocassetta. La casa era ben tenuta, elegante, dignitosa. La signora aveva una flebo e fece un grande sorriso. Verdone rimase tre ore a parlare. «Io dimenticai che lei fosse malata e lei dimenticò che io fossi Verdone». Aprì un cassetto. C’era un pacco di lettere legate con un fiocco rosso e invitò il regista a prenderne una. Era una lettera d’amore struggente scritta da una delle persone più importanti della cultura e dello spettacolo. Un grande amore mai concretizzato, perché lui era sposato e lei non voleva fargli perdere l’autorevolezza. «Un segreto che terrò tutta la vita, perché non rivelerò mai il nome», assicura Verdone. Congedandosi, restarono d’accordo che lui le avrebbe portato un libro, dopo tre o quattro giorni. “Non vada oltre,” pregò lei. Quando Verdone telefonò per fissare l’appuntamento, la signora non c’era più.
COME CAPIRE LA TRAMA DELLE OPERE LIRICHE
MARCELLO FOIS E I SOLISTI DEL TEATRO LA FENICE DI VENEZIA
Se pensavate, partecipando a un incontro su come capire la trama delle opere liriche, di comprendere quale ne sia la chiave d’accesso, vi sbagliavate di grosso! Ciò detto con l’intento di lodare un appuntamento avvincente, che nulla ha avuto di didascalico o di pedante, e che ha presentato l’argomento con toni leggeri nondimeno eruditi, utili per addentrarsi nel modo dell’opera, che è semplice e allo stesso tempo complicato. L’obiettivo, dichiaratamente non rivolto ai melomani, era favorire una divulgazione il più capillare possibile: lo stesso scopo per cui in passato si dipingevano i cicli affrescati nelle chiese. L’unico neo imputabile all’anfitrione Marcello Fois è di aver letto la dissertazione. Un testo davvero bello e che ha riscosso in più occasioni meritati applausi, ma che dalla lettura è stato privato di quella spontaneità d’eloquio che invece hanno avuto le esecuzioni musicali dal vivo dei Solisti del Teatro la Fenice di Venezia, il cui nome è di per sé bastevole ad attestarne l’elevata qualità, e che si sono prodigati in lunghi momenti concertistici sui quali si è ancorato saldamente l’appuntamento.
«Il melodramma è una delle espressioni topiche dell’italianità: è italiano per genetica». Prosegue Fois: «Noi siamo portatori sani di tragedia» perché la musica raggiunge una complessità che le parole non hanno. La narrazione, al Teatro Bibiena di Mantova, si dipana su due binari paralleli, apparentemente inconciliabili eppure così ben armonizzati tra loro. L’uno, spiritoso, riconduce le vicende ispiratrici delle opere a uno schema ricorrente: il tenore è buono, il baritono cattivo, il basso ancora più cattivo e nessuno muore subito, ma canta per circa altri quindici minuti. L’altro binario, dotto, insiste su una miriade di citazioni, di affascinanti collegamenti che attraversano i secoli e i compositori.
Tutto ebbe inizio con L’Orfeo di Monteverdi che fu rappresentato per la prima volta proprio a Mantova, nel 1607. È riconosciuto come la prima opera lirica, che dettò nuovi canoni, che impostò un «sistema» riscontrabile nelle opere scritte nei secoli a venire, fino alla produzione contemporanea. «L’Orfeo è un paradigma ed è un enzima che costituisce le fondamenta di un palazzo, rappresentando quello che si vede e quello che non si vede». Da qui il discorso si espande a macchia d’olio, iniziando con un esempio che né un melomane né un curioso di sarebbe mai aspettato: Il pipistrello di Strauss, che non è melodramma ma un’operetta. Poi La traviata di Verdi, attraverso la quale «è possibile decriptare molte opere del passato e del futuro». Ancora, il Rossini da intenditori del Guglielmo Tell, di cui è nota solo l’overture utilizzata da Fois per far comprendere «il potere dell’introduzione» appreso dalla lezione di Monteverdi e dalla sua ‘toccata’. Poi Aida «una ipotesi verdiana in cui l’Egitto c’entra poco» e ancora una variante dell’overture, ossia l’intermezzo come quello della Manon di Puccini. Lui, Mascagni, Leoncavallo sono tutti eredi di Monteverdi.
A conclusione dell’incontro, unendo ironia e verità, Fois riassume i punti salienti in un vademecum:
1) L’ambientazione tratta dalla letteratura europea.
2) Il melodramma è italiano anche se è composto da stranieri.
3) Parla di faccende di corna.
4) C’è sempre un amore incompreso.
5) I tenori sono buoni, i baritoni cattivi, i bassi cattivissimi, i soprani muoiono.
6) Accorpa incompresi, gioiosi, livorosi.
7) Non lasciatevi mai ingannare dalla morte del protagonista pensando che stia per calare il sipario.
Maria Luisa Abate for DeArtes
Mantova, Festivaletteratura nelle giornate di Venerdì 10 e Sabato 11 Settembre 2021
Contributi fotografici: MiLùMediA for DeArtes