“Aida” è il titolo areniano per eccellenza. Ed è una delle eccellenze dell’Arena di Verona riproporre periodicamente l’edizione firmata da Franco Zeffirelli, genio assoluto dall’incomparabile sensibilità teatrale. L’allestimento, debuttato nel 2002 e da allora molto amato dal pubblico, secondo titolo del 96° Opera Festival 2018, prevede una piramide centrale che occupa gran parte dello spazio scenico e lo proietta verso l’alto, alla ricerca di quella stessa elevazione materica al cielo e agli dei, al cui scopo queste costruzioni erano state edificate nell’antichità. Sulle sue rampe d’accesso trovano posto dignitari e sacerdoti, soldati e ancelle nei costumi sfarzosi di Anna Anni. Al contempo, Zeffirelli utilizza magistralmente tale grandiosità per indirizzare l’ottica verso una dimensione raccolta, attenta alla sfera intimistica dei personaggi. La struttura formata da elementi paralleli ruota mostrando le sue diverse facce, i varchi e le statue che li contornano: si incupisce di blu, riflette lo sfavillio dell’oro o, nell’ultimo atto, si accende all’interno delle sue viscere rossastre. La piramide imprigiona i sentimenti o, all’occorrenza, li svela. Partecipa, come un soggetto vivo, alla nostalgia per la patria lontana degli etiopi catturati oppure al giubilo della vittoria egiziana. È infine simbolo dell’amore che trionfa sulla morte e viene da essa sublimato. Dinamiche gradevoli ed equilibrate come anche i tempi per Jordi Bernàcer alla guida dell’Orchestra areniana, anche in questa occasione dimostratasi duttile nel seuire al meglio le indicazioni del podio. Nel ruolo del titolo, Anna Pirozzi è stata vocalmente ineccepibile, a iniziare dalla dizione eccellente, dalle morbidezze cristalline, dalle mezze voci emozionanti e capaci di “correre” nell’anfiteatro così come attraverso la tavolozza coloristica sfolgorante, messa in risalto dal fraseggio attento e dall’espressività rivolta all’introspezione di Aida. Analoghe caratteristiche, in special modo la facoltà di entrare all’interno del personaggio della rivale Amneris, ha denotato Violeta Urmana.
Nell’intervallo è stata resa nota una sua lieve quanto veritiera indisposizione. Dopo l’annuncio – ma per la verità anche prima – il soprano e mezzosoprano ha innestato la quinta ed è partita vocalmente a razzo, raggiungendo con scioltezza le consuete sublimi vette, ed entusiasmando per la perfezione tecnica, stilistica e interpretativa. Ce ne fossero, di malesseri così! Yusif Eyvazov ha dosato con intelligenza le proprie specificità artistiche, senza forzature negli squilli limpidi e saldi, con pienezza in ogni registro e una linea di canto onorevolmente sorretta anche nelle pagine finali di un ruolo, come quello di Radamès, che richiede un grande impiego di forze fin dalle prime battute dell’opera. Esiti ottimi per Luca Salsi, Amonasro tanto sensibile nell’espressività scenica, quanto pregnante nella voce fluida e ricca di sapienti sfumature. Bene Ramfis, Vitalij Kowaljow, come pure Romano Dal Zovo nei panni del Re e la Sacerdotessa Francesca Tiburzi. Una menzione speciale al Messaggero Antonello Ceron dai mezzi importanti e lodevolmente gestiti. Da segnalare la prestazione del Coro areniano istruito con la consueta precisione da Vito Lombardi. In questa edizione è stata ripresa l’originaria coreografia di Vladimir Vasiliev, che si è meritatamente ritagliata un lungo momento protagonistico, impegnando oltre cinquanta danzatori del Corpo di Ballo preparato da Gaetano Petrosino. Le impervie difficoltà tersicoree sono state splendidamente risolte da Beatrice Carbone, nel ruolo di Akmen ideato dallo stesso Zeffirelli. Accanto a lei, gli altrettanto validi primi ballerini Petra Conti e Gabriele Corrado.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 23 giugno 2018
Foto Ennevi per gentile concessione di Fondazione Arena di Verona