Visse a cavallo tra Sette e Ottocento e divenne famoso per il binomio genio e sregolatezza. Riempì le sale di pubblico idolatrante ma ebbe un carattere difficile, un mix di ambizione e di alcool, di arte sublime e di vizi che lo portarono a morte prematura. Edmund Kean ruppe con le tradizioni e contribuì alla grandezza di Shakespeare con le sue interpretazioni “moderne”. Rivoluzionò il teatro inglese, togliendolo dall’enfasi impaludata che allora lo caratterizzava per dargli spontaneità e naturalezza senza limiti.
Raymund FitzSimons ha tratto dalla sua biografia un famoso testo teatrale che è un tributo non convenzionale al Bardo e, in quanto tale, diventa un omaggio alle specificità di ogni attore che, vestendo i panni di Kean, può esprimersi liberamente. Ed è anche un temibile banco di prova. Ha inaugurato la sezione prosa della 70a edizione dell’Estate Teatrale Veronese, la versione di successo di “Edmund Kean” di Gigi Proietti, regista e interprete.
Rievocando i tempi in cui il palcoscenico del Teatro Romano non era ancora coperto, il fondale era aperto come una finestra sullo scenario naturale e lasciava vedere le chiome degli alberi che separano l’anfiteatro dall’Adige. La celebre coppia di scenografi Cappellini e Licheri hanno affollato lo spazio di elementi descrittivi, primo fra tutti l’immancabile baule da cui ogni teatrante estrae i costumi, dal quale prendono vita le figure e, in senso lato, l’arte scenica. Un manichino, arredi antichi e un camerino da trucco, nel cui specchio si sono riflessi personaggio e interprete. Sulla balconata in legno, che simulava la struttura del teatro elisabettiano, stava un grande libro le cui pagine erano girate dal vento, facendo fuoriuscire i protagonisti shakespeariani. Riccardo, Otello, Shylock si sono confusi sia con Edmund che con Gigi, nella sovrapposizione tra finzione e realtà. Dapprima i sogni di una futura carriera, poi i ricordi di una passata grandezza: quella contraddizione di sentimenti senza tempo, di paure e speranze, di illusioni sorrette dalla forza della musa che vive dentro ogni teatrante.
Per Kean gli esordi difficili e la necessità di procurare il sostentamento alla moglie rimasta a casa, il dolore per la perdita del figlioletto di quattro anni, il periodo entusiasmante del Drury Lane, poi l’alcool tracannato come cura alle sofferenze, le amanti, le capacità recitative appannate assieme al successo. E quella corona shakespeariana di re che, forse, alla fine schiacciava l’attore ottocentesco sotto il peso dell’arte, come un fardello da portare.
Gigi Proietti si è mosso con consapevolezza scenica e forza comunicativa. Al culmine della maturità artistica, l’attore romano ha padroneggiato i propri mezzi con una sorta di tranquillità interpretativa che non è equivalsa a piattezza espressiva, ma si è cinta di accenti personali che hanno incarnato le possibilità di adattamento offerte dal testo.
Come dovuto, Proietti ha utilizzato Shakespeare e Kean da vettori per portare in scena se stesso, legittimato dalla corona che, su di lui, ha ricordato che il re/attore è nudo dinanzi al pubblico. Non una nudità stolta come nella fiaba di Andersen, ma piuttosto lo svelare, senza sovrastrutture, la propria sensibilità più profonda. Gigi Proietti è un eterno Arlecchino, personaggio che Kean detestava mentre invece per l’attore dei giorni nostri è un modo di vivere il teatro con la genuinità tipica della Commedia dell’Arte. Istrionico, gigionesco, sarcastico, malinconico, esuberante, dolente, splendidamente grottesco, sempre carismatico, Proietti ha tenuto saldamente il timone dello spettacolo, rendendolo pienamente suo.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona il 6 luglio 2018
Contributi fotografici: Studio Brenzoni