Babilonesi ed ebrei come austriaci e italiani. A un anno dal debutto ha fatto ritorno all’Arena di Verona l’allestimento di “Nabucco” che Arnaud Bernard ha trasposto nel Regno Lombardo-Veneto di metà Ottocento. Periodo storico collocato, con libertà temporale, durante la guerriglia urbana delle Cinque Giornate di Milano tra oppressori e patrioti, colpi di moschetto e cannonate, incedere di carrozze e cavalli, accorrere di crocerossine e martinitt, sventolare di bandiere con l’aquila bicipite oppure bianco-rosso-verdi. Bernard ha mitizzato gli ideali patriottici e la concezione che vuole Giuseppe Verdi cantore del Risorgimento, attraverso un disegno registico in continuo movimento: di gente, descritta con dovizia di scene e controscene, e di ambientazione, per la struttura girevole di Alessandro Camera che ha raffigurato il Teatro alla Scala attorniato dalle barricate e con il tetto distrutto, inizialmente visto dall’esterno, poi nell’interno del foyer adibito a centro del comando, infine nella sala vera e propria, con i palchi affacciati sul palcoscenico posto al centro di quello areniano. Bernard ha traslitterato il Tempio di Salomone nel tempio milanese della musica, alla quale ha riconosciuto la funzione di inno universale alla libertà. A ciò, si è sovrapposta l’ispirazione al film Senso di Luchino Visconti. Così la Scala si è mostrata nel corso di una serata in cui si rappresentava proprio Nabucco, con la platea ingombra di austriaci e i palchi affollati di italiani, che si sono uniti al “Va pensiero” intonato sul palcoscenico fittizio con tripudio di tricolori e sconcerto degli invasori. Il Nabucco areniano si è duplicato nel Nabucco inscenato nella ricreata Scala e anche i personaggi si sono sdoppiati, con esiti metateatrali.
Sul podio Jordi Bernàcer ha scelto dinamiche efficaci nel delineare tanto le atmosfere epiche quanto il raccoglimento delle pagine intimistiche. Nabucco vestiva i panni di Francesco Giuseppe, colpito non dal fulmine scagliato dal Dio d’Israello bensì dallo sparo di un attentatore. A dargli volto e voce il baritono originario della Mongolia Amartuvshin Enkhbat, che nel suo gradito riaffacciarsi in Arena ha confermato l’attenzione al fraseggio, sempre più curato, una dizione impeccabile e la linea di canto nobile. Anche l’ “ussara” Abigaille non ha esitato a giustiziare di suo pugno qualche rivoltoso. Il ruolo era affidato a Susanna Branchini, che ha dato il giusto temperamento al personaggio. Morbidezza e dolcezza espressiva per Géraldine Chauvet, Fenena. Senza forzature, ha dosato i propri mezzi con gusto Luciano Ganci, Ismaele. Ha ben fraseggiato pure Rafał Siwek, Zaccaria. Come Gran Sacerdote di Belo era Nicolò Ceriani; Abdallo era Roberto Covatta, ed Elisabetta Zizzo, Anna. Immancabile il bis di “Va, pensiero”, simbolo dell’opera e uno dei punti di forza del Coro areniano diretto da Vito Lombardi.
Un plauso a Fondazione Arena per aver risolto il problema della gru che, finalmente smontata, ha lasciato libero lo sguardo alle spalle dell’anfiteatro senza inquinare la scenografia come accadeva da qualche anno, sinonimo di un periodo difficile ora superato. Grazie, Sovrintendente Gasdia, grazie.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto il 7 luglio 2018 all’Arena di Verona
Foto Ennevi per gentile concessione di Fondazione Arena di Verona