Se la stagione estiva di Fondazione Arena di Verona punta sulla qualità ma fisiologicamente ruota, per lo più, attorno a titoli di richiamo per il grande pubblico, il cartellone invernale al Teatro Filarmonico vira apprezzabilmente verso una programmazione che, accanto a titoli arcinoti, propone opere di più rara esecuzione, di sicuro interesse anche solo per questo motivo. A inaugurare l’annata 2022 è andato in scena un dittico dall’abbinamento inusuale: Il segreto di Susanna, intermezzo di Ermanno Wolf-Ferrari, e Suor Angelica di Giacomo Puccini. Sono stati spesi fiumi di parole per giustificarne le affinità. Certo, le protagoniste sono due donne, entrambe alla ricerca della propria libertà, sia pure in ambiti e modi agli antipodi. Ma forse, azzardiamo umilmente, il filo conduttore potrebbe essere ravvisato nella parola leggerezza, declinata in differenti accezioni.Briosa e scanzonata, ricca di citazioni musicali, per Wolf-Ferrari. Invece, per Puccini, levità come chiave d’accesso alla profondità; capacità del sublime dettato musicale di librarsi dal terreno all’ultraterreno, nell’affrontare un dramma che trasfigura in elevazione spirituale, che conduce dal buio di un convento alla luminosità estatica dell’amore e del divino.

Il sipario si è aperto su Il segreto di Susanna, nell’impostazione registica di Federica Zagatti Wolf-Ferrari, il cui cognome rivela la discendenza dal compositore. Una regia quindi che si è avvalsa di accurati studi, risultata aggraziata nell’esposizione, a tinte pastello giostrate tra color panna e rosa come i costumi (Lorena Marin, dal Teatro Regio di Parma) e come la scenografia (Serena Rocco) ricreante un salotto che lasciava intuire l’esterno attraverso grandi vetrate (luci Andrea Tocchio). Sopra la parete domestica, faceva capolino il cielo screziato di nubi stemperate dal vento, assai simili alle scie di fumo di una sigaretta, vizio occulto della protagonista.

La regista ha trattato con apprezzabile parsimonia l’ironia che, specialmente agli occhi contemporanei, pervade la trama, ossia quel segreto gelosamente custodito dalla padrona di casa, la quale preferisce far credere al marito di avere una relazione extraconiugale piuttosto che confessare la propensione all’uso del tabacco: l’”amante” dunque è una sigaretta. La regista fa proprio il clima degli anni in cui l’opera debuttò, il 1909. La sua Susanna è una donna emancipata per l’inizio del vecchio secolo, ma non troppo: il suo timore di non compiacere il marito è tangibile e si placa solo dopo aver ricevuto l’approvazione al passatempo del fumo da parte del consorte. 

Alla Contessa Susanna Lavinia Bini ha dato voce fine e garbata, adatta alla parte, piena di verve. Prova più che positiva per Vittorio Prato, Conte Gil, dalla timbrica naturalmente bella oltre che dalla dizione intelligibile come un libro stampato. Spazio alla caratterizzazione spiritosa per il Sante di Roberto Moro, dalle spiccate doti attoriali nel ruolo muto di mimo.

Dopo l’intervallo, deciso cambio di atmosfera avvenuto in analogia visiva, grazie alla bella pulizia delle linee che ha caratterizzato anche l’opera pucciniana, dove, per scene costumi e luci, sono state mantenute le firme anzidette. Un colonnato spigoloso, nero lucido, ha delimitato il raggio di azione delle monache del convento. Suor Angelica è una nobildonna costretta a prendere i voti per aver dato alla luce un bambino, strappatole subito dopo la nascita. A farle visita per farle firmare la cessione del patrimonio, e comunicarle che la sua creatura è morta ormai da due anni, la zia Principessa. Figura che la regista Giorgia Guerra ha voluto d’animo meno glaciale del consueto, piuttosto rigidamente asservita alla necessità di salvaguardare quello che un tempo veniva considerato un imperativo sociale. Di forte impatto emotivo la scena conclusiva, quando Suor Angelica, spinta dal desiderio di rivedere in Paradiso il proprio bimbo, decide di darsi la morte. È mancato in questo allestimento il miracolo finale: il piccino non è stato spinto dalla Madonna tra le braccia della mamma mai conosciuta, ma invece l’effige nera raffigurante la Vergine si è frantumata al suolo. Suor Angelica, che un attimo prima di bere la pozione velenosa aveva rigettato la sua condizione monacale – togliendosi il velo e liberando i capelli, per poi spogliarsi dalla tonaca e tornare a vestire abiti civili – è morta accanto al piedistallo della statua, immolata sull’altare di una vita subita, cui il gesto estremo ha costituito atto liberatorio.

Nel ruolo del titolo, chiamata all’ultimo momento a sostituire una collega indisposta, Chiara Isotton, dal bagaglio vocale, tecnico e interpretativo, di tutto rispetto, capace di toccare le corde più profonde dell’animo degli spettatori con spiccata sensibilità. Commovente il suo “Senza mamma” cantato con il pensiero rivolto al frutto del suo ventre, al quale era stata negata una sua carezza. Appropriatamente distaccata Graziella DeBattista, la zia Principessa, ruolo giostrato su toni volutamente freddi, correttamente cupi.

Nelle vesti delle altre suore, compresa la Badessa Tiziana Realdini, erano artiste alcune delle quali provenienti dalle prestigiose fila del Coro areniano: Alessandra Adreetti, Alice Marini, Rosanna Lo Greco, Sonia Bianchetti, Jessica Zizioli, Elisa Fortunati, Manuela Schenale, Grazia Montanari, Emanuela Simonetto, Mirca Molinari, Cecilia Rizzetto. Maestro del coro Ulisse Trabacchin.

In entrambi i titoli, sul podio dell’orchestra (innalzata a livello della platea da quando il covid ha imposto il distanziamento e giocoforza dal maggior impatto sui volumi) si è ottimamente distinta la giovane Gianna Fratta, dal gesto sicuro, attento, preciso. Una direzione dapprima propensa ai contrasti dinamici di Wolf-Ferrari, alle aperture briose stemperate in pagine di note rarefatte. In Puccini, Fratta ha spalancato le porte al lirismo, a un pathos vibrante nell’aria fino all’implosione finale. Il dramma è stato tratteggiato dando risalto alla cantabilità e agli impasti timbrici, culminati nel finale dove Puccini intreccia magistralmente reale e soprannaturale, verità e allucinazione, tenebre e luce, disperazione e serenità.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 4 febbraio 2022
Contributi fotografici: Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona