Gigantesche rose fiabesche sono tornate a sbocciare all’Arena di Verona, spiritoso omaggio al nome della protagonista Rosina. Il bucolico allestimento de “Il barbiere di Siviglia”, giocoso e all’insegna della leggerezza, ha visto la luce nel 2007 a firma del regista scenografo e costumista Hugo de Ana, mossosi in perfetta sintonia con lo spirito buffo di Gioachino Rossini, di cui si sono omaggiati i centocinquant’anni dalla scomparsa, assieme alla ricorrenza dei settant’anni dalla prima rappresentazione di questo titolo in Arena.
Le vermiglie corolle frequentate da farfalle hanno delimitato un settecentesco e ludico hortus conclusus, un labirinto girevole di siepi di bosso che ha svelato fontane con puttini e marmi ornamentali, e che, mutando forma, ha dipanato l’intrico amoroso dell’esilarante commedia degli equivoci che Sterbini trasse da Beaumarchais. È stata così incanalata in un’aura trasognata e agreste la macchinazione ordita dal barbiere e factotum Figaro per condurre a felice conclusione il sogno d’amore tra la bella Rosina e il Conte d’Almaviva, presentatosi prima come il servitore Lindoro, in seguito sotto le mentite spoglie di un ufficiale ubriaco, poi fintosi maestro di canto. I costumi hanno inneggiato allo sfarzo del Settecento, osando moderni ombrelli multicolori aperti durante un improvviso temporale sopra argentee incerate. Il ritmo scenico era tenuto vivo dall’incessante susseguirsi di controscene garbatamente spassose: l’affacciarsi tra le frasche di personaggi mutuati dalla commedia dell’arte, i tableau vivant oppure i lazzi acrobatici degli avventori dell’oasi verde, il passaggio di mano in mano di una lunga fila di sedie rosse, i ventagli del medesimo colore agitati ritmicamente, il fazzolettone cremisi che ha dato forma svolazzante al venticello della calunnia, infine le voliere vuote che hanno beffeggiato Don Bartolo, tutore vanamente speranzoso di ingabbiare la sua scaltra protetta. Conclusione con spari di fuochi d’artificio, efficace spettacolarizzazione dei festeggiamenti nuziali. Il cast ha annoverato nomi stratosferici: amici che hanno risposto alla chiamata del Sovrintendente Cecilia Gasdia. La loro affabilità – «cerchiamo di non far piangere: un po’ di allegria in musica non può che giovare» – ha reso la conferenza stampa di presentazione un momento di divertimento corale in puro stile rossiniano, meritevole di essere raccontato al pari della recita. Presenza fissa nell’anfiteatro fin dal 1984 è il direttore Daniel Oren, cheall’edizione critica di Zedda del 1969 ha preferito la partitura originale, ricca di auto-prestiti e ripulita da ciò che l’autore spostò altrove. La tradizione, ha motivato citando Mahler, non è culto delle ceneri ma essere custodi del fuoco. Alla domanda del perché sia solito saltare sul podio, ha risposto con prontezza: «perché mi fa male la schiena». La verità è che il direttore di Tel Aviv, le cui dinamiche raffinate hanno dimostrato come anche Barbiere si adatti perfettamente ai difficili spazi dell’anfiteatro, vive con intensità fisica oltre che emotiva il momento musicale, in questo caso tradotto in una fantasmagoria di colori cangianti sprigionati sia dal golfo mistico, con l’orchestra areniana che ha risposto con ariosa freschezza, sia dal palcoscenico che ha avuto spazio, in giusta misura, per le infiorettature del canto e per la personalizzazione interpretativa. «Non capita spesso un dialogo così profondo con un cantante: io do a lui e lui dà a me» ha argomentato Oren riferendosi a Leo Nucci. Super Leo è stato accolto al suo ingresso in scena da una ovazione che lo ha commosso. Ilbaritono, entrato nella leggenda, porta i suoi settant’anni abbondanti con una generosità vocale stupefacente. Aveva dichiarato che non avrebbe più vestito i panni di Figaro «invece sono qua: mi hanno tirato fuori dal sarcofago». La voce non invecchia mai ma tutto il resto sì, a iniziare dal diaframma, ha spiegato ai giornalisti affermando che continuerà finché i mezzi saranno saldi. «È vero, già trent’anni fa ho annunciato il mio ritiro. Però non ho mai specificato quando… smetterò davvero quando sentirò la voce che “traballa”. Ho la coscienza di essere in forma, ma sefarò schifo – ha chiesto alla stampa senza usare mezzi termini – per favore scrivetelo, non tiratemi barattoli di pomodoro perché fanno male!». Una simpatia prorompente tradotta sulla scena e che, assieme al fraseggio magistrale, ha donato molto all’espressività attorale, senza eccessi, con eleganza. La lunga cavatina “Largo al factotum” è stata bissata a furor di popolo ed eseguita, anche la seconda volta, senza il minimo affaticamento nonostante il caldo della serata, tale da stroncare il fiato a chi si trovava comodamente seduto in platea. Accanto a lui nell’empireo, a gareggiare amichevolmente in signorilità della linea stilistica, Ferruccio Furlanetto, altrettanto mitico, altrettanto grande nel confermare ogni più rosea aspettativa. Il suo Don Basilio ha toccato il vertice ne “La calunnia”, eseguita con voce di basso perfettamente timbrata: un capolavoro di nobiltà interpretativa. Il trucco, ha sottolineato Dmitry Korchak Almaviva/Lindoro è non farsi intimorire dalla distanza dell’Arena e “spingere” eccessivamente, ma usare la voce normalmente come in un teatro al chiuso. Intento pienamente riuscito. Il tenore ha rinverdito le magnificenze dello stile del passato, oggigiorno merce rara, nel modo di porgere, nella pronuncia di cristallina intelligibilità, nella ricercatezza d’emissione nelle mezze voci e nei “filati” morbidi. Nino Machaidze, già stimata Juliette in Arena e non solo, possiede voce rotonda e gradevolmente scura che si illumina nello squillo e che, utilizzata con la duttilità derivante dalla padronanza tecnica, è risultata strumento efficace per delineare la personalità decisa di Rosina. Carlo Lepore ha fatto doverosamente di Don Bartolo un “buffo” senza abusi esagerati, eccellendo nel sillabato veloce scandito con precisione nei tempi e nella dizione. Berta di razza era Manuela Custer che alla vocalità importante, avvezza a prove impegnative, ha unito la scoppiettante caratterizzazione del personaggio afflitto da attacchi di starnuti. Nicolò Ceriani ha sostenuto i ruoli caricaturali, anch’essi ben tarati, diFiorello e Ambrogio; corretto Gocha Abuladzecome Ufficiale. Impegnativa la presenza scenica oltre che musicale richiesta al Coro diretto da Vito Lombardi, mentre Gaetano Petrosino ha coordinato il Corpo di Ballo sulle coreografie descrittive di Leda Lojodice, elemento indispensabile e di prim’ordine in questo disegno registico. Al termine, nel tripudio generale, un insolito bis di gruppo delle ultime pagine dell’opera che ha sancito l’eccezionalità della serata. Con una sola nota dolente: la recita era dedicata al direttore marketing di Fondazione Arena Corrado Ferraro, tragicamente scomparso pochi giorni prima.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 4 agosto 2018 Foto Ennevi, per gentile concessione di Fondazione Arena di Verona.