Un “monologo a due”. Un testo che affascina, una regia incalzante, due interpreti che rendono veri i personaggi.

Potremmo definire questo dialogo un “monologo a due”, tanta è la forza dell’eloquio. Siamo nel ‘700 benché lo si dimentichi presto. “L’attesa” si svolge in un contesto omni-temporale, ma non a-temporale. Le vesti rimandano al passato, come anche talune consuetudini e certi modi di pensare che il drammaturgo Remo Binosi (scomparso prematuramente nel 2002) sapientemente coglie nella loro valenza attuale, senza lesinare le ispirazioni ad altri autori declinate con originalità. Non a caso il testo, pubblicato nel marzo 2022 da Elisabetta Sgarbi per La Nave di Teseo, aveva ricevuto nel 1994 il “Biglietto d’oro Agis” come miglior novità teatrale italiana, e da esso era scaturito un film, oltre che una precedente produzione teatrale. Il plot scorre come un fiume, con le sue anse e le sue polle d’acqua sorgiva; poi arrivano le rapide che tengono costantemente viva la tensione drammatica. Si innestano come affluenti i colpi di scena narrativi, e stupiscono, spiazzano, sorprendono lo spettatore.

L’attesa ©Fabio Lovino

L’azione è racchiusa entro una camera arredata con un letto e due sedie (scene Dario Gessati) ed è scandita dal ripetitivo ritmo giorno/notte (disegno luci Pasquale Mari) eppure risulta vivacissima. La regista Michela Cescon (che usa la prima stesura del testo del 1992 ed elimina il personaggio della nutrice) dirige sapientemente le due interpreti fino a far diventare la stanza come fosse la pagina di un diario intimo, scritto minuto per minuto a quattro mani. La nobildonna Cornelia e la sua servitrice Rosa, con intrigante efficacia letteraria, si muovono in contrasto, poi in parallelo, si sovvertono vicendevolmente, si scambiano emozioni, condividono paure e speranze, diventano amiche non senza qualche risvolto intrigante e, alla fine, paiono un tutt’uno. Si scontrano e scoprono di essere simili, empatiche, complementari. Un doppio che diviene sovrapponibile.

L’una è vestita di rosso, l’altra di azzurro (costumi Giovanna Buzzi), i colori tradizionali di Carmen e Micaela, famose e opposte facce dell’universo femmineo. Qui, diversamente rispetto a Bizet, l’antagonismo si gioca tra una compassata signora dell’alta società e una schietta popolana di goldoniana genuinità. Ed è la seconda che spesso ha da insegnare alla prima. Entrambe sono relegate in una dimora di campagna per tenere nascoste le gravidanze inconfessabili, perché avute con uomini dei quali nulla si deve venire a sapere. La condizione è vissuta come una colpa, secondo la morale del secolo di Casanova, quando imperava un perbenismo sui generis.

foto Francesco Consolini

Anche la clausura risulta doppia: c’è quella fisica nella stanza, insormontabile, e quella, assai simile, piscologica, che le due donne faticano a valicare. La prigione domestica cela agli occhi del mondo la “vergogna” e regala uno spazio sovrano dove far scorrere libera la parola, al riparo da orecchie indiscrete: un italiano forbito per l’aristocratica e un veneto ruspante per la fantesca. Per Binosi, la reclusione è un luogo di libertà dove confessarsi l’un l’altra, dove abbandonarsi al confidarsi intimo, tra sé e sé. La gravidanza diventa l’attesa di partorire la parola. E la parola acquisirà l’intera sua valenza, materiale e simbolica, in quella lettera che la colta Cornelia consegnerà all’analfabeta Rosa, e che andrà a chiudere alla perfezione il cerchio narrativo. Al compiersi del quale, in maniera stupefacente e assumendo i contorni di una rivelazione, l’autore pone sullo stesso piano la vita e la morte.

L’attesa ©Fabio Lovino

Il tono del racconto passa fluidamente dal dramma alla commedia e viceversa, in un moto continuo. La tristezza che aleggia di sottofondo è attutita dagli sprazzi ironici. La leggerezza dell’una stempera la rigidezza dell’altra e l’incalzare narrativo trova il necessario corrispondente interpretativo. Va da sé infatti che, per tradurre scenicamente tale complessità e cingere di verità i personaggi, ci si sia dovuti avvalere di attrici di prim’ordine, per la prima volta assieme sul palcoscenico. Se Anna Foglietta ha confermato lo spessore e la profondità con cui porta avanti il testimone della migliore tradizione attoriale italiana, le medesime doti – spessore e profondità – sono state differentemente declinate da Paola Minaccioni, la quale ha compiuto un piccolo capolavoro nella misura, nel tarare con garbo le punteggiature divertenti con le quali ha pennellato una versione più raffinata della commedia dell’arte. Uno spettacolo che ha supportato la sua durata con la vivacità delle situazioni mutevoli, delle ottiche intercambiabili, dell’evoluzione degli stati d’animo. E se tutti gli elementi sono vincenti, felice non può che essere l’esito.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova per la stagione Mantova Teatro, l’8 marzo 2022
Immagine di copertina: foto Francesco Consolini.