Gioventù freschezza e brio nella farsa rossiniana, nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona al Teatro Filarmonico.
Un cast giovane ma esperto nel repertorio rossiniano. Soluzione ideale per il compositore pesarese che, in ambito buffo, necessita di vitalità, dinamismo, spontaneità e voglia di mettersi scenicamente in gioco: caratteristiche che il verde anagrafico degli interpreti, per quanto non indispensabile, indubbiamente favorisce ed esalta. La Scala di seta vista al Filarmonico di Verona, dove non era mai stata rappresentata prima, ha brillato principalmente, ma non solo, per l’entusiasmo sprizzato dal cast, che ha farcito i personaggi di effervescenza “ripulita” da quegli eccessi comici, attoriali e canori, cui aveva abituato una certa tradizione: gloriosa sì, indimenticabile altrettanto, forse irripetibile (purtroppo), non più in linea con il gusto attuale e con i recenti studi. In questa produzione l’ironia ha mostrato il suo volto più fine e delicato, centrando l’obiettivo con sottigliezza e garbo.
Con bella intuizione, la regista Stefania Bonfadelli, che vanta importanti trascorsi da cantante, ha ricollocato la trama (è il caso di dirlo!) all’interno di un negozio di stoffe, da cui veniva quella striscia di pregiato tessuto utilizzata come scala per gli incontri tra i due sposi che nessuno sapeva essere tali. Gli avventori dell’atelier di moda sono stati incessantemente impegnati in spassose controscene, che hanno avuto un ruolo determinante nel condire con un pizzico di spezie aromatiche il pot-pourri di relazioni amorose, fraintendimenti, equivoci, scaltrezze, escamotage e segreti infine svelati. Ciò, in un contesto scenografico (Serena Rocco) contraddistinto dal rigore delle linee. Una piccola vetrina, un camerino di prova rivelatosi ideale per ascoltare non visti, e le austere geometrie degli scaffali dove erano meticolosamente allineate stoffe parcamente variegate, per porre ancor più l’accento sul colore sprigionato dai personaggi. Un ambiente che ha avuto il pregio di evocare alla mente il seppiato tipico degli albori del cinema (luci di Fiammetta Baldiserri). La regista infatti ha prescelto gli anni ‘30 del Novecento (costumi Valeria Donata Bettella): un’epoca a noi sufficientemente vicina perché il pubblico si sentisse partecipe, e abbastanza lontana perché i sentimenti teneri e ingenui musicati da Rossini risultassero credibili.
Alla guida dell’Orchestra areniana era il giovane maestro Nikolas Nägele, che ha ottimamente fatta propria la tavolozza coloristica rossiniana, senza calcare la mano e senza sottovalutare l’alternanza tra le pagine spumeggianti e quelle liriche. Un suono di ariosa e briosa freschezza, che ha fatto nuovamente spirare quella ventata travolgente di novità che Rossini portò nel teatro d’opera quando, solo ventenne, compose questa farsa comica andata in scena la prima volta nel 1812.
Eleonora Bellocci, la protagonista Giulia, possiede un bagaglio vocale di valore, ricco in colore dinamico con cui ha egregiamente risolto fiorettature e agilità. Il suo consorte Dorvil, che si incontra con la mogliettina di nascosto calandosi e risalendo, almeno nell’immaginazione, da una scala improvvisata con un drappo di seta rossa, era impersonato da Matteo Roma, dallo squillo onesto e dal carattere romantico.
Blansac, seduttore incallito che, alla fine, convolerà a nozze con la cugina di colei che inizialmente era la sua promessa sposa, ha beneficiato dell’esperienza e della maestria di Carlo Lepore, punta di diamante di questa produzione. La sua affinità al repertorio rossiniano è parsa evidente, sommata al timbro fascinoso, al fraseggio di classe e alla ricercatezza espressa tanto nella linea di canto quanto nella parte attoriale. La cugina Lucilla, che riuscirà con lui a coronare il proprio sogno d’amore, ha avuto la dolcezza da innamorata e la voce morbida e degna di nota di Caterina Piva. Cagione dei risvolti imprevedibili e dell’intricarsi della vicenda, il servo pasticcione e impiccione ma d’irresistibile simpatia Germano, che Emmanuel Franco ha dotato di una serie di divertenti gag, sempre ben misurate, così come priva di eccessi o “sporcature” buffe è stata la sua vocalità di razza, usata con saggezza. Infine Manuel Amati, che ha reso significativo il ruolo assai breve del tutore Dormont, qui titolare della ditta di tessuti.
Uno spettacolo gradevole, nell’accezione migliore del termine, ossia spiritoso e non forzato, all’insegna dello stile e del buon gusto. E la proposta di questa operina, come si diceva inedita per il pubblico veronese, ha nuovamente premiato l’illuminata scelta artistica di porre fianco a fianco nel cartellone titoli arcinoti e altri di raro ascolto.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 30 marzo 2022
Contributi fotografici: Foto Ennevi