Una carrellata su un mito vivente. Un’occasione per rapportarsi direttamente a uno tra i maggiori autori dell’evoluzione della modern dance del secolo scorso, le cui innovazioni dagli States si sono espanse in ogni emisfero. Ha infatti vocazione itinerante la Compagnia newyorkese fondata da Paul Taylor nel 1954, per la prima volta giunta al Teatro Romano di Verona.


Colpisce subito il movimento incessante, senza pause, che compone racconti a perdifiato, brevi e intensi, ricchi di sostanza. Si percepisce a pelle, senza necessità di complicate decodifiche, la profondità del significato narrativo dipanato attraverso le coreografie, che coniugano tinte scure a una gioiosa ironia e non vengono mai meno alla ricerca della bellezza, di valenza anche estetica.
L’armonia delle linee balza all’occhio nel pezzo di apertura, Cloven Kingdom, creazione del ’76 all’insegna della contaminazione, del dualismo. Le sonorità barocche di Arcangelo Corelli vengono inquinate dal ritmo dei tamburi che poco a poco diventa predominante. Le donne hanno i piedi fasciati da cinturini argentei e fanno ondeggiare sinuosamente le vesti mentre gli uomini, in smoking, sono alla ricerca di una convivenza di gruppo. La musica e parallelamente la coreografia passano dalla morbidezza dei tratti classici al rigore geometrico, evidenziato dai copricapi lucidi o a specchio, che riflettono lampi di luce. Ma su ogni inquadramento formale prende il sopravvento l’uomo scimmia, che riconduce a una socialità primordiale.
I momenti declinati al maschile sono molti durante l’intero spettacolo e trasmettono forza muscolare e potenza intellettuale. Vengono calati piccoli lampadari, unici elementi a guarnire la scena altrimenti spoglia, e prende il via Piazzolla Caldera, del ’97. La parte femminile emerge nella sensualità sfacciata che assume contorni inediti. Il tango viene rielaborato nei singoli passi e nel suo stesso significato, dettando nuovi canoni alla seduzione ricondotta alla vigoria e all’istintività.
L’ultimo brano, Promethean Fire, di toccante intensità espressiva, si apre con un lungo passo a due, indi allarga l’ottica dal singolo all’umanità, che cade e si rialza per poi andare avanti. Datato 2002, può ricondursi all’attentato delle torri gemelle dell’anno prima oppure, secondo altri, no. Fatto sta che Taylor, inerpicandosi sulle note di Bach, edifica architetture umane che esprimono, con subitanea evidenza, un senso di ricostruzione dopo lo sfascio delle avversità. Un inno poetico all’uomo, capace di riassorbire e rielaborare i dolori e trasformarli in energia costruttiva che eleva lo spirito. Un cantico alla vita stessa.
Colui che Martha Graham definì “bad boy”, che venne accolto sul Dance Observer da una epocale colonna di recensione bianca, che venne insignito di otto lauree ad honorem, dopo sessant’anni di attività nei quali si è stemperata la dirompenza rivoluzionaria e a ottantotto candeline appena spente, certamente ha ancora molto da dire.

Recensione Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Romano di Verona il 17 agosto 2018
Contributi fotografici forniti da Estate Teatrale Veronese