Brockhaus immagina la città del vizio nell’atto di rappresentare se stessa. ‘Ascesa e caduta della città di Mahagonny’ al Teatro Regio di Parma: un allucinato Far West metropolitano, dove regna il dio denaro.

L’opera andò in scena la prima volta a Lipsia nel 1930, all’epoca della Repubblica di Weimar, prima della salita al potere di Hitler, e subito conquistò quello che potrebbe definirsi uno strano ‘primato’: essere caduta sotto la scure sia della propaganda nazista, che portò a bruciare le copie presenti nella casa editrice Universal, sia dalla critica marxista, che bloccò le rappresentazioni nei Paesi del blocco del socialismo reale. E ovviamente era mal vista dalla borghesia, qui associata ai vizi capitali e a una ostentata immoralità. L’opera in realtà non mira a una morale, ma descrive una società decaduta e destinata all’autodistruzione, dove non esiste possibilità di salvezza perché, semplicemente, la salvezza non è prevista nell’atto costitutivo della città. Una “città trappola” fondata da tre lestofanti in fuga, dove attirare danarosi polli da spennare in cerca di sesso sfrenato, di whiskey a fiumi, di cibo a dismisura e dalla possibilità di menare le mani: il tutto legalmente, perché la legge vieta solo il non essere ricchi.

Il nome Mahagonny viene ripetuto ossessivamente e pare anch’esso travolgere fondatori e avventori in un vortice di presunta libertà degenerata in anarchia, nell’assenza caotica di regole, in eccessi portati ai limiti estremi della depravazione, fino alla morte. Un turbine analogo al tornado che, da libretto, sembrava dover radere al suolo la città e invece l’ha risparmiata, in tal modo legittimandola oppure, volendo dare una diversa chiave di lettura, abbandonandola al proprio destino, al fallimento. Forse, paiono dirci Weill/Brecht, l’uragano non ha ragione d’essere, in un luogo già auto-sprofondato in un abisso.

Un altro tipo di “trappola”, questa volta virtuosa, ha irretito il pubblico del Teatro Regio di Parma, dove Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Aufstieg und fall der stadt Mahagonny) è stata rappresentata per la prima volta in assoluto, in un nuovo allestimento coprodotto con I Teatri di Reggio Emilia in occasione di Parma Capitale della Cultura 2020+21 (il secondo anno aggiunto dopo che il covid aveva cancellato ogni iniziativa prevista: ma si è dovuto attendere un altro anno ancora). Occasione davvero imperdibile poiché se arcinoto è lo straordinario rapporto artistico che legò Kurt Weill e Bertolt Brecht, il primo autore della musica e il secondo del libretto, la frequentazione concreta con questo titolo è assai rara, ancor più a questi livelli di qualità artistica.

Iniziando dalla messa in scena, a firma del regista Henning Brockhaus, mossosi in comunione di intenti con la scenografa Margherita Palli. Su ispirazione (molto) libera ai quadri di Edward Hopper, si è immaginato un ambiente dai pochi elementi, dove hanno dominato il buio e il fumo (luci Pasquale Mari), capaci di sfocare le menti di una umanità usa ad abbandonarsi a qualsivoglia vizio. Un luogo sempre ultra affollato, la cui vita Brockhaus ha reso frenetica con un susseguirsi incalzante di scene e controscene. La città si è tramutata subito da utopia a perdizione, da mecca del divertimento a culla di degenerazione, succube dei più bassi istinti e del dio denaro. “Un luogo dove i soldi possono tutto, ma alla fine non servono a niente: non si compra la felicità”, ha affermato lo stesso regista.

L’opera, suddivisa in venti quadri annunciati da didascalie declamate attraverso un megafono, si è aperta con le immagini filmate di una megalopoli contemporanea, dove il traffico correva a velocità accelerata (video Mario Spinaci). I tre personaggi in fuga dalla giustizia hanno squarciato letteralmente la tela per fare il proprio ingresso in scena, a cavallo di un sidecar d’epoca. Si era negli anni Trenta del Novecento, ma sembrava in tutto e per tutto il 2022. Un moderno allucinato Far West metropolitano, dove tutto è lecito. A Mahagonny regnano la lussuria e il divertimento, si beve e si mangia fino a morirne e non c’è posto per gli emarginati e per i poveri. Che il regista invece, con bella intuizione, ha voluto come presenze sullo sfondo, pronte a balzare alla ribalta per cibarsi famelicamente degli scarti della società capitalistica.  

Il linguaggio registico è stato esplicito, soprattutto nel quadro ambientato in un bordello, tra donne discinte in vetrina e orsi ballerini, tra sensuali coreografie (Valentina Escobar) e costumi provocanti (Giancarlo Colis). Ma Brockhaus si è mosso sempre entro i limiti del decoro, mostrando eccessi senza eccedere, e, ci sia consentito un altro ossimoro, mettendo in scena con buon gusto il pessimo gusto degli abitanti di Mahagonny. Del resto, la passerella posta davanti al palcoscenico ha ricondotto a un clima da avanspettacolo e creato un contatto ravvicinato con il pubblico, come anche il bar collocato in un palco di barcaccia. Mahagonny quindi è stata vista da Brockhaus nell’atto di rappresentare se stessa, con spirito scanzonato e per certi versi ludico, ma anche grottesco e drammatico. Prova ne erano i visi dei personaggi, ricoperti da uno strato di biacca che li rendeva un ibrido tra ‘animali’ teatrali e maschere inquietanti.

Aufstieg und fall der stadt Mahagonny è stata eseguita in lingua originale. Oltre all’indispensabile familiarità con l’idioma, l’abilità del cast è consistita nell’aver usato con versatilità le voci liriche, superando i confini di genere. Infatti quest’opera, nata inizialmente come cantata scenica dal titolo Mahagonny Songspiel, presenta una matrice lirica sofisticata, utilizza citazioni parodistiche, vira spesso e volentieri verso il modernismo, non disdegna sonorità jazz e folk, strizza l’occhio al cabaret e alle melodie popolari. Il tessuto musicale è cangiante, mutevole e multiforme, e richiede necessariamente interpreti che possiedano identiche caratteristiche nel canto e nella recitazione.

Alle quaranta sequenze musicali, il cui rischio era di risultare slegate, ha dato compattezza e continuità narrativa il direttore Christopher Franklin, sul podio dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”, risultata omogenea pur in presenza di strumenti non convenzionali, e del Coro del Teatro Regio di Parma il cui esito, grazie alla guida di Martino Faggiani, è stato ottimo anche in questo cimento particolarmente impegnativo. Franklin ha centrato l’obiettivo di una direzione multisfaccettata, passata dalle pagine musicali descrittive di vizi sfrenati, ad altre in cui l’allegria ha lasciato trapelare un substrato di insoddisfazione, ad altre ancora in cui le note esprimevano l’incomunicabilità tra i personaggi, chiusi ognuno nel proprio mondo, così affollato eppure così solitario e desolato. 

Le recite purtroppo sono state costellate da problemi di salute che hanno costretto a sostituzioni di artisti (e sono pochi quelli che hanno questo titolo in repertorio) risolte all’ultimo momento, non di meno con una resa perfettamente a fuoco: è obbligo quindi tributare un bravo innanzitutto alla direzione artistica.

Sono spiccate le due presenze femminili. Leokadja Begbick, colei a cui viene in mente di fondare Mahagonny, era Alisa Kolosova, levigata e rotonda nei volumi che ha dispiegato con sicurezza e potenza, quanto, come dovuto al personaggio, determinata e imperativa, con un pizzico di cinismo nell’atteggiamento. Nadja Mchantaf era Jenny Hill (invece dell’indisposta Anne-Marie Kremer) voce di classe, morbida e padrona del ruolo, nonché, non è un dato accessorio, con la fisicità giusta per poter indossare con credibilità un costume di scena provocante. Seduzione che il soprano ha sapientemente bilanciato con il romanticismo trasognato con cui ha intonato “Luna d’Alabama”, brano ricorrente nel corso dell’opera. Il suo innamorato era Tobias Hächler, dal bel timbro aggraziato di tenore, che ha compendiato la doppia anima di Jimmy Mahoney, ruvido tagliaboschi tra i primi ad aprire gli occhi e, abbandonata l’iniziale spavalderia, a vivere sulla sua pelle la disillusione derivante dal disgregarsi del mito, che ha portato seco la fine di coloro che in esso avevano creduto.

Inoltre abbiamo applaudito Zoltan Nagy, il manesco Trinity Moses, Christopher Lemmings appropriato nelle vesti di Tobby Higgins e Jack O’Brien e Matthias Kozorowski (a lui, il compito di sostituire l’attesissimo Chris Merritt, presente alla prima recita poi anch’egli vittima in itinere di indisposizione) nel ruolo di Fatty, sostenuto con padronanza stilistica e mezzi vocali più che adeguati. Completavano la compagnia di canto Simon Schnorr, Bill (al posto di Horst Lamnek); Jerzy Butryn, Joe, e le sei ragazze di Mahagonny Roxana HerreraElizabeth Hertzberg, Yuliia Tkachenko, Cecilia Bernini, Kamelia Kader, Mariangela Marini. A Filippo Lanzi è spettato recitare le didascalie del Narratore.

Per chi non avesse assistito allo spettacolo, viceversa imperdibile per qualità e rarità, l’appuntamento è al Teatro Valli di Reggio Emilia, dove questo allestimento andrà in scena il 13 e 15 maggio. Inoltre la recita parmigiana del 30 aprile è stata trasmessa su operavision.eu, la piattaforma digitale di Opera Europa, nata grazie al supporto di Creative Europe dell’Unione Europea, e resterà visibile gratuitamente online per tre mesi.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 30 aprile 2022
Contributi fotografici Roberto Ricci