Zeffirelli ha ritrovato … Zeffirelli. E l’Arena ha mostrato la sua veste migliore, con il pubblico ad affollare l’anfiteatro a piena capienza in un clima festoso, e con le scenografie tornate ad allungare gli sguardi fin sulle gradinate alle spalle del palcoscenico.
Un binomio ideale, tra l’anima spettacolare di questo straordinario tempio della lirica e lo stile senza tempo del grande regista scomparso, emerso in tutto il suo ammaliante fascino, splendidamente sovrabbondante di colori e di atmosfere, brulicante di vita. Carmen di Bizet ha inaugurato la stagione numero 99 del Verona Opera Festival, che omaggia Tebaldi e Bastianini ma che soprattutto celebra, in gran parte del cartellone, il compianto genio del maestro Franco Zeffirelli.
Ciò che ha fatto parlare, già nei mesi scorsi, di questa Carmen, è la messa in scena “definitiva” dell’idea del grande regista scomparso. Più che versione “definitiva” sarebbe meglio parlare di un ibrido, perché è la somma di due versioni differenti della stessa Carmen, che Zeffirelli curò in Arena nel 1995 e poi nel 2009, quando diede di propria mano un’asciugatura rispetto alla precedente. Zeffirelli elevato al quadrato, quindi, forse difforme da quanto egli avrebbe fatto se fosse ancora tra noi, purtuttavia esplicitazione massima del concetto registico e scenografico che sempre ha animato il maestro, ossia il gusto per la classicità, l’amore per la descrittività, la propensione a non lasciare soli i personaggi ma a inserirli in un quadro generale.
Sono stati ripescati bozzetti che erano restati nel cassetto per preesistenti difficoltà di ordine pratico, ora realizzati sulla scena grazie al passo in avanti tecnologico compiuto dalle maestranze areniane. Ed è stato riportato alle origini quel rispetto per una tradizione operistica che, certo, viene dal passato, ma che non per questo risulta superata. Anzi, il rinnovarsi dell’amore del pubblico verso gli allestimenti “da libretto” dovrebbe indurre a ripensare talune proposte contemporanee concettuali, che necessitano della lettura delle note di regia scritte per poter essere comprese. Nulla di più sbagliato e di anti-teatrale. Zeffirelli lo sapeva bene: lo spettacolo deve – sottolineiamo l’imperativo – “arrivare” al pubblico dal palcoscenico, in maniera diretta ed empatica. Su questa semplice complicatezza Zeffirelli aveva basato la propria cifra stilistica. È ciò che sempre è riuscito magicamente a fare, e ancora fa. Credeteci: non è poco!
Il risultato si è tradotto in un enorme numero di comparse, vestite con i bellissimi costumi di Anna Anni, impegnate assieme agli artisti del Coro, come sempre validi anche dal punto di vista attoriale, a dare vita a un tripudio di scene e controscene. Svolazzare di gonnellone, rose rosse tra i capelli, banchi di venditori ambulanti di diverse mercanzie, cavalli nevosi e dolcissimi asinelli. Inoltre, come si diceva, si sono spinte fin sulle gradinate dietro al palco le romantiche case ammassate le une contro le altre della piazza di Siviglia, e nel secondo atto le montagne dalle rocce bluastre. Una Siviglia ultra affollata, a dare conto – ed è questa la vera anima artistica di Zeffirelli – di una umanità che non è una cartolina sullo sfondo, che non costituisce solo contorno alla storia ma diventa essa stessa la storia, esplicitando quel contesto senza il quale la vicenda musicata da Bizet non avrebbe ragione di esistere.
I tendoni posti in proscenio, elementi che prima d’ora non si erano mai riusciti a montare, hanno ondeggiato leggeri gonfiandosi alla brezza del venticello che spesso soffia in Arena: rappresentazione visiva della volubilità sentimentale di Carmen. Una specifica caratteriale che è diventata protagonista facendo aleggiare ovunque lo spirito libero e mutevole della bella e ribelle gitana.
Un altro piccolo “scoglio” del passato è stato migliorato. L’ultimo intervallo è infatti stato commutato in un più veloce “cambio scena” (ossia a luci spente e pubblico seduto) reso possibile anche dal fatto che Zeffirelli aveva saputo inventare un modo per dotare di “sipario” il palcoscenico all’aperto. Così, mentre i tecnici provvedevano a cambiare i fondali celati dietro un paravento di drappi rossi, il pubblico ha assistito a un fuoriprogramma danzato (del resto, abbondano gli esempi di opere che prevedono balletti proprio come intervallo tra un atto e l’altro, purtroppo oggi raramente eseguiti). Una digressione che ha valorizzato la presenza della leggendaria Compañia Antonio Gades diretta da Stella Arauzo, impegnando in forma di sfida di danza andalusa due gruppi, amichevolmente fronteggiatisi al ritmo dei colpi di tacco dei ballerini. A loro, durante l’opera, si sono aggiunti i danzatori areniani coordinati da Gaetano Petrosino, a far rivivere le coreografie originali di un’altra leggenda, El Camborio, riprese da Lucia Real, tra gli storici collaboratori del maestro Zeffirelli.
Sul podio per tutte le recite di Carmen, Marco Armiliato, direttore musicale dell’Opera Festival 2022, ha guidato Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona alla ricerca di sensazioni “semplici”, vere, andate di pari passo con il palco benché, al contrario di esso, votate all’essenzialità. Una concertazione garbata e fluida, dalle giuste brillantezze, sempre mantenuta entro binari di fine sobrietà, instradando in tale direzione anche il comparto vocale.
Chi scrive ha assistito alla seconda replica del capolavoro di Bizet, con il medesimo cast della “prima”. Nel ruolo del titolo, il mezzosoprano francese Clémentine Margaine, alla sua prima volta in Arena, ha tratteggiato una zingara non standardizzata, discostatasi dall’impostazione zeffirelliana. Mancava infatti la carnalità di Carmen, il suo potere seduttivo, il suo fuoco, che pure non sarebbero guastati visto che la bella sivigliana è solita fare strage di cuori. Ciò, in favore di una interpretazione in linea con la concezione moderna che vuole questo condensato di femmina essere prima di tutto libera e pienamente padrona di scegliere il proprio destino. Il che, comporta trattare gli uomini come gli uomini hanno trattato per secoli le donne, ossia con una certa dose di ruvidezza e di egoismo sentimentale. Un approccio al ruolo quindi valido e interessante, che ha trovato completezza nel canto, anch’esso più di testa che non di cuore o di istinto, in presenza di una vocalità notevole, piena, corposa, calda, incisiva, senza asprezze e nemmeno inutili sdolcinatezze. Una voce che ha denotato consapevolezza, dai bei riflessi caldi del bronzo, gestita appropriatamente soprattutto nei registri medio alti, con minuscole sbavature nelle note basse dovute alla poca dimestichezza con la peculiare acustica areniana.
Nel ruolo di Don José era il tenore statunitense Brian Jagde, che ha eccellentemente dosato i propri mezzi nelle dinamiche, nell’emissione come nell’espressività, in una linea stilistica nobile, supportata dal fraseggio estremamente curato. Ha compendiato la duplice anima dell’uomo innamorato dibattuto tra la ragione (Micaela) e l’istinto (Carmen) e del rigoroso militare che non esita disertare per amore, salvo poi cadere preda di un cieco istinto omicida quando si rende conto d’aver abbandonato tutto per seguire l’amata inutilmente, perché non potrà mai averne il pieno ed esclusivo possesso.
Ha brillato, in un personaggio smorto da copione, perdente fin dall’inizio, la Micaela del soprano messicano Karen Gardeazabal, la quale ha delineato la figura tradizionale, quindi molto zeffirelliana, di innamorata sincera dolce e rassicurante grazie alla voce morbida e tornita, assai studiata nell’espressività, mantenendo una linea di canto omogenea ed elegante in ogni registro della gamma: una prova ineccepibile.
La palma d’oro della raffinatezza va al baritono Luca Micheletti: fatto di per sé straordinario in quanto il torero Escamillo si muove sopra le righe, è un gradasso, uno spaccone. Invece Micheletti ha tirato fuori una figura realmente affascinante, facendone sì un idolo delle folle, ma dotato di sensibilità. Micheletti possiede una voce di razza, dal timbro magnifico, dal fraseggio di gran classe, capace di sfumature coloristiche finalizzate a tratteggiare, con spiccata personalità, questo personaggio al quale ha giovato il carisma personale dell’interprete.
Grande l’affiatamento, indispensabile, del quartetto formato da Carlo Bosi e Nicolò Ceriani, i due contrabbandieri Remendado e Dancairo, e le amiche di Carmen, Frasquita e Mercedes, le giovanissime Caterina Sala e Caterina Dellaere. A completare degnamente il cast, Gabriele Sagona e Biagio Pizzuti come Zuniga e Morales, il superiore e un commilitone di Don Josè. Degna di nota la prova del Coro guidato da Ulisse Trabacchin, e un applauso speciale, non di circostanza ma meritato appieno, alle voci bianche del coro A.Li.Ve istruito da Paolo Facincani.
Una riedizione di Carmen da non perdere, che sarà rappresentata fino alla fine di agosto. Si alterneranno diversi cast a ogni recita, per proporre in ogni data interpreti di prima grandezza, come è consuetudine areniana.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 24 giugno 2022
Contributi fotografici: foto Ennevi