Siamo nel bar della Jole. Oggi, 20 luglio 1969, gli avventori sono incollati alla televisione per vedere una delle più grandi imprese dell’uomo: l’allunaggio. «Ha toccato? Ha toccato?» Il cielo sopra Verona è terso. La luna è lassù e la terra quaggiù, non bisogna farsi troppo suggestionare. C’è il Lem e, nelle fantasie di chi assiste all’evento epocale, c’è un altro grande “ragno” che presto andrà sulla luna issando il vessillo di San Marco al posto della bandiera americana. Riuscirà ad alzarsi dal suolo centonovanta centimetri: il livello raggiunto dall’acqua alta in laguna nel ‘66.

Il mare in piena, il razzo lanciato dalla terra alla luna (e ritorno) è lo stesso Marco Paolini, che ha presentato Boomers in prima nazionale all’Estate Teatrale Veronese. Lo spettacolo prende le mosse da alcuni suoi highlights, da quel Bestiario veneto di vent’anni fa ora instradato verso nuovi traguardi grazie ai testi scritti a quattro mani con Michela Signori. Teatro di narrazione sarebbe la definizione, senonché la narrazione di Paolini è poesia allo stato liquido. I ricordi riaffiorano alla mente ininterrotti come il gorgoglio dell’Adige che scorre alle spalle del Teatro Romano. Il racconto incalza, non presenta pause se non pochi respiri indispensabili propellenti per il suo personale viaggio orbitale, per riprendere la corsa a perdifiato nella memoria. Il ritmo turbinoso non conosce cedimenti e diventa rito collettivo che congiunge gli spettatori al palcoscenico proprio come i clienti della Jole tengono gli occhi fissi sul tubo catodico, che non compare in scena ma è una presenza evocata.

Il bancone del bar è disegnato nel cartone e «la» Jole a un certo punto lo indossa, sopra la vestaglia arancio, come fosse un vestito. Ci sono tre file di carte da gioco appese a fisarmonica e altre carte formano una corsia in proscenio. Al bar non si gioca a briscola, si inventa e si ricorda, e in questo consiste il “gioco”. C’è anche, sulla scena, una cornice vuota, uno stipite senza porta, un simbolo di passaggio. Il bar è uno spazio della mente ma è anche una bolla temporale. È il luogo dove continua a esistere il passato e, come diretta conseguenza, il presente.

Il tempo è immobile eppure corre veloce. Le cinquanta lire lasciano il posto alle criptovalute e il walkman, proprio quello stesso posseduto negli anni 80, viene riacquistato nel metaverso dove adesso si trova e dove vivrà per sempre. Questo è anche il luogo dove si resta eternamente ventenni, con i capelli lunghi e un eskimo blu, acquistato dalla mamma del colore sbagliato. E con chi vuoi che vadano a prendersela? Con l’unico ad avere un eskimo blu! «Cosa è un eskimo?» chiede il figlio. E insiste: «Tu, padre, eri “contro”, ma contro cosa?» Domande complicate alle quali rispondere, un vissuto difficile da far capire al figlio di un’altra epoca.

Marco Paolini non solo imprime ritmo, presenta anche uno spiccato senso del teatro. La formula voce più musica viene da lui reinterpretata, sviluppata, nobilitata e diventa una parte sostanziale dello spettacolo. Gli avventori del locale sono due musicisti, Davide Pezzin e Davide Repele, presenze lodevolmente mininvasive, dagli interventi centellinati ai momenti giusti, indispensabili a dare atmosfera. Anzi, di più, a dotare il racconto di un pezzo di anima, poiché il racconto siamo tutti noi.

Nel bar fa immaterialmente capolino Tex «perché un eroe serve sempre». Poi c’è lei, «la» Jole, Patrizia Laquidara, splendida co-protagonista, speciale interprete del pop italiano e attrice capace di condensare profondità e intensità nell’eterno sorriso della barista. Sulla scia delle malinconiche parole della canzone Binario, i due proseguono su rotaie parallele che spesso, come se una invisibile mano agisse sugli scambi, si intersecano, addirittura si sovrappongono. Due voci e due diverse espressività, una basata sulla parola parlata e l’altra sulla parola cantata, in un intrecciarsi di fili narrativi. Paolini racconta e Laquidara conferma attraverso celebri slogan della televisione in bianco e nero o con le hits di quel periodo: da Claudio Villa alla primissima Mina, al Gianni Morandi degli esordi.

Il risultato è, come si diceva, poetico. Senza voli pindarici, con la concreta vividezza di un comunicatore quale Paolini è. Lo ritroviamo identico (nella diversità della proposta teatrale) a quando lo avevamo lasciato, su questo stesso palcoscenico, prima del covid: con il tono discorsivo di un moderno aedo e la capacità affabulatoria di un Omero contemporaneo, pronto a sciogliere l’ultimo nodo dei fili narrativi. Non sempre vediamo il male della vecchiezza, preferiamo avere sempre vent’anni. Le stelle precipitano al suolo sotto forma di piume. Siamo stati sulla luna e adesso torniamo giù.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano, Estate Teatrale Veronese, il 15 luglio 2022
Contributi fotografici ETV