Soldati intenti a combattere, crocerossine che curano i numerosi feriti, martinitt vocianti e carri trainati da cavalli. Siamo a Milano durante le Cinque Giornate e a fianco del Teatro alla Scala vengono erette le barricate dei moti rivoluzionari. Questo Nabucco si colloca temporalmente a metà dell’Ottocento e il regista Arnaud Bernard, al posto dei Babilonesi che riducono in schiavitù gli Ebrei come è nel libretto di Temistocle Solera, ha immaginato il fronteggiarsi tra l’esercito austriaco e i patrioti del Risorgimento italiano.

Ha fatto ritorno sul palcoscenico dell’Arena di Verona l’allestimento kolossal debuttato pochi anni or sono (prima del covid e delle stagioni contrassegnate dalle mutate esigenze della pandemia) e con esso il suo realistico groviglio di invasori e liberatori, di cecchini e di vittime, di un popolo frastornato e di militari irreggimentati, tra processioni religiose e sfilate di comandanti a cavallo. Nabucco ha indossato una divisa di gala bianca con fascia rossa, riconducibile all’iconografia di Francesco Giuseppe, colpito non dal fulmine scagliato dal Dio d’Israello bensì dalla pistolettata sparata da un attentatore, e anche l’ussara Abigaille, alla quale certo non è mancata la tempra, ha messo a tacere qualche rivoltoso.

Bernard, ispirandosi anche al film Senso di Visconti, ha traslato il Tempio di Salomone nel tempio mondiale della lirica, ossia il Teatro alla Scala. Che, nella scenografia di Alessandro Camera, ha inizialmente mostrato la sua facciata, sul cui balcone hanno sventolato ora la bandiera tricolore ora quella gialla con l’aquila bicipite, a seconda dell’evolversi della battaglia. La struttura ha ruotato svelando una stanza adibita a ufficio, poi l’interno stesso del teatro scaligero dove si stava rappresentando proprio Nabucco.

Su questo finto palco, collocato sul palco areniano, i personaggi verdiani in costumi tradizionali si sono esibiti dinanzi a un pubblico di cui facevano parte gli stessi personaggi in abiti ottocenteschi. Quindi uno sviluppo metateatrale abbinato alla teatralità delle bandiere bianche rosse e verdi, dei cartelli inneggianti Viva V.E.R.D.I. (Vittorio Emanuele Re d’Italia), della pioggia sulla platea austriaca di volantini sovversivi provenienti dai palchi dove era collocato il pubblico/coro.

L’ultima rappresentazione di questo titolo nel 99° Arena di Verona Opera Festival 2022 ha visto schierato un cast di assoluto valore, a ulteriore dimostrazione che gli interpreti di eccellenza chiamati dal direttore artistico Cecilia Gasdia erano distribuiti durante tutto l’arco della programmazione.

Esistono diverse forme di eleganza: quella eterea delle ali di una farfalla e quella materica di un pregiato monolito che colpisce per la sua bellezza imponente. Questo secondo esempio calza a pennello al baritono Luca Salsi acclamato protagonista nelle vesti di Nabucco, che ha confermato in primis solidità e garanzia di tenuta. Salsi conosce bene gli spazi areniani e li padroneggia con la tecnica, con l’emissione sempre calibrata al punto giusto, mai forzata tuttavia potente sia nel fiato che nell’espressività intensa. Non ultimo punto di merito, l’attenzione che Salsi riserva alla partitura verdiana, convogliata, anche, nell’incisività del fraseggio.  

A prendere all’ultimo minuto il posto dell’indisposta Maria Josè Siri si è resa disponibile Daniela Schillaci: una sostituzione di lusso con un’artista di fama internazionale, dimostratasi pienamente all’altezza del compito, la quale ha delineato una Abigaille dagli accenti drammatici, dalla scorza esteriore fiera e combattiva, in una bella scansione del personaggio. Non da meno la voce, apprezzata negli acuti squillanti, nei registri ben gestiti, e per la linea di canto magnificamente tornita.

Fenena era Vasilisa Berzhanskaya, dalla vocalità suadente e omogenea, e dalla discreta tavolozza espressiva; va sottolineata la facilità con cui ha raggiunto e tenuto le note acute. Il giovane tenore Riccardo Rados, dal bel timbro e dall’emissione fluida, si è egregiamente destreggiato nel ruolo di Ismaele, dando prova dei suoi notevoli mezzi vocali, che meriterebbero in futuro maggiore risalto in compiti più impegnativi. Il basso polacco Rafał Siwek si è mosso a proprio agio come Zaccaria, cui ha prestato volumi importanti e ieraticità. In scena anche alcuni giovani esordienti nel Festival, come l’Abdallo di Giacomo Leone e il Gran Sacerdote di Belo di Adolfo Corrado. Ha completato il cast la valente Elena Borin come Anna.

Sul podio era Daniel Oren il quale, come già più volte ribadito, vanta un’intesa più che perfetta con l’Orchestra dell’Arena. Come da previsione, una direzione coinvolgente come solo lui sa fare nell’anfiteatro, esuberante nei tempi, vivace nei colori e nelle dinamiche. Da lodare il bellissimo gesto di ossequio che Oren ha tributato al Coro areniano, alzando le braccia e lasciandolo libero di dirigere se stesso durante il celeberrimo Va pensiero, dimostrando così il suo apprezzamento per il livello di preparazione e di espressività raggiunti dalla formazione guidata da Ulisse Trabacchin. Una pagina eseguita con sfoggio di colori, di chiaroscuri, e con quell’ultima “corona” finale tenuta a lungo fino a lasciarla sfumare leggerissima nell’aria. Peccato la solita smania di applauso del pubblico, che dopo aver coperto con esternazioni entusiastiche il finale della prima esecuzione, ha dimostrato durante il bis maggiore rispetto per quell’ultima sublime nota.

L’appuntamento è per il 2023: il programma completo dell’attesissima edizione n° 100 del Festival areniano è già consultabile e in vendita sul sito web di Fondazione Arena. 

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 3 settembre 2022
Contributi fotografici: Ennevi Foto