La riscrittura di Alessandro Baricco è avvincente. Anzi, di più: è efficace, funziona sulla scena. Il poema di Omero si snoda attraverso episodi/quadro che si susseguono fluidi. Baricco elimina gli dei e circoscrive l’azione agli uomini. Il mito quindi non solo è attuale, ma è una sorta di condizione perseguita dall’uomo di ogni tempo: gli dei dell’antichità sono gli eroi della contemporaneità. È l’uomo a creare i propri miti oppure a soggiacere ad essi. Il testo non è una semplice narrazione, anche se ne possiede la forma esteriore, ma è esso stesso un agire, e si muove splendidamente tra fatti e visioni. Così, la versione di Baricco si palesa nella sua sostanza di necessità, morale e civile, di attualizzazione della storia. Del resto, l’Iliade era il contemporaneo di tremila anni fa.
Nello spettacolo debuttato in pima nazionale al Teatro Romano di Verona, Natalino Balasso si è inserito alla pari, non da protagonista, in una compagnia che ha dato vita a un lavoro veramente corale, non solo nelle intenzioni. Diego Facciotti, Chiara Mascalzoni, Marta Cortellazzo Wiel, Pietro Traldi, Chiara Pellegrin e Luca Boscolo: tutti impegnati a parlare di violenza, fisica e verbale, espressa o subdola. E ancor prima, del concetto stesso di volenza, radicato nell’uomo.
Una pluralità espressa con inventiva scenica sotto la direzione di Alberto Rizzi, che ha voluto gli interpreti, identicamente abbigliati, passarsi la parola l’un l’altro senza confini di genere o di ruolo. Tutti erano tutti, nel senso che gli attori hanno a turno dato corpo e voce ai vari personaggi, in un procedere magnificamente sganciato da qualsivoglia limitazione fisica e temporale. Anche i commenti espressi al termine della recita dal pubblico, in buona parte formato da giovani, hanno identificato l’indistinzione dei ruoli come il punto vincente dello spettacolo.
La scena spoglia era costellata da pochi oggetti: un piccolo carrettino con le ruote (forse rimando al cavallo di Troia) e un carrello portavivande che ha indicato il trovarci in una cucina, dove, anziché i cibi, si sono miscelati fatti storici e pulsioni umane, lasciando libera la mente di immaginare le torri di Troia o le rive della Grecia, i polverosi e rumorosi accampamenti militari o le raccolte e sontuose stanze di palazzo.
Balasso aveva premesso che «si tratta di uno spettacolo tragico. Lo dico perché è giusto andare a teatro senza aspettarsi cosa si vedrà, ma sarebbe anche sbagliato andarci aspettandosi un’altra cosa». Infatti l’attore (anche scrittore e autore) nella sua lunga carriera ha esplorato gli ambiti comici, per i quali è più conosciuto, e parallelamente ha declinato su vasto raggio le proprie doti interpretative, l’ironia intelligente e stralunata.
In questo poema epico, il suo Agamennone è risultato splendidamente cangiante, drammatico ma anche grottesco; una figura attinta al passato, di moderna credibilità. Balasso, anche per quella cadenza veneta rodigina che è il suo marchio di fabbrica ed è espressione di una tradizione atavica quanto attuale, ha mantenuto una certa vena ironica sotterranea sfociata nel tragico, di cui è stata veicolo e forza evocatrice. Questo, perché il teatro di Balasso, in comunione d’intenti con Baricco, si è basato sulla parola.
Il capo degli Achei ha racchiuso nella sua persona un modo di pensare e agire, di filosofare e di usare violenza. La violenza come punto focale del nuovo testo, che ha saputo far comprendere profondamente che le guerre scritte sui libri di storia non siano frutto di fantasia letteraria ma siano brutalmente vere e reali, come gli odierni fatti di cronaca confermano. La conclusione è disincantata: “La guerra è un’ossessione dei vecchi che mandano i giovani a combatterla”.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona, Estate Teatrale Veronese, Settembre Classico, il 2 settembre 2022
Contributi fotografici ETV