Mantova: Festivaletteratura. ‘L’amore può essere anche solo uno sguardo’. Il regista, partendo da Dante, parla di film, di cinema e del corso della vita.

Se già prima stimavamo Pupi Avati, dopo questo incontro ne abbiamo compreso appieno lo spessore. Per il ritmo scorrevole, per lo sguardo limpido, per la comunicabilità, questo si è rivelato uno dei migliori appuntamenti in 26 anni di Festivaletteratura, che il pubblico al termine ha premiato con una lunga standing ovation.

L’argomento prende le mosse dal viaggio compiuto nella seconda metà del ‘300 da Giovanni Boccaccio sulle orme di Dante. Un viaggio del quale si ha conoscenza grazie a un documento del 1350, datato quindi dopo la morte dell’Alighieri, in cui la congregazione Orsanmichele di Firenze dava incarico a Boccaccio di recarsi dalla figlia di Dante, che era monaca in un convento, per consegnarle una borsa di fiorini d’oro quale risarcimento per ciò che i fiorentini avevano fatto al poeta. Durante il viaggio di sei giorni su una carretta, tra Firenze e Ravenna, Boccaccio ricostruisce la vita di Dante e la mette per iscritto nel “Trattatello in laude di Dante”. Non pensiamo mai a Dante uomo, invece nel libro c’è il Dante della sofferenza.  

Boccaccio è il cuore pulsante della storia. È il poeta che più ama un altro poeta. Partendo da questo assunto, Pupi Avati ha trasposto il viaggio in un film intitolato “Dante”, di prossima uscita nelle sale cinematografiche, presentato all’Auditorium di Roma alla presenza di Mattarella, Casellati e Fico pochi giorni prima del festival a Mantova. Qui, alcuni spezzoni della pellicola vengono proiettati sullo schermo, mentre Avati si abbandona generosamente alle digressioni, accompagnato da Giuseppe Antonelli, storico della lingua.

L’incontro inizia con gli ultimi versi del Paradiso, con il senso di dismisura che assale l’essere umano, e con la dismisura poetica. Ho cercato di leggere il più possibile Dante, dice il regista bolognese. Vengo da una giovinezza scioperata, suonavo il jazz in tutta Europa. Ma poi si accorge di non avere lo stesso talento musicale di quelli che suonavano assieme a lui: uno su tutti, Lucio Dalla. Il jazz non si suona con, si suona contro. E Lucio suonava meglio di me. Poi, rivolgendosi al pubblico: mi dedicherete una risata spietata: quando ho detto ai miei colleghi musicisti che avevo deciso di smettere, nessuno ha detto “ma no!”

In seguito, Pupi Avati ha venduto pesce surgelato per una famosa ditta e ha sposato una bella ragazza di Bologna. Siamo ancora insieme. Non è la più bella ma ha ancora un carattere impossibile: è insopportabile! Altra risata del pubblico. C’è un modo di dire per indicare la corte che si fa a una donna: “andare dietro”. Lui andava dietro a una certa… nome cognome e indirizzo. Andare dietro significa stabilire una certa distanza, circa 10-15 passi. Non ho mai sentito la sua voce ma per due anni le sono andato dietro. Era una prova di corteggiamento a mio dire meravigliosa. Anche Dante incrocia lo sguardo con una bambina, lo scrive nella Vita Nuova e le va dietro per nove anni, senza mai ricevere un cenno di considerazione. Finché, un bel giorno, lei manda via le fantesche e si ferma. Una scena inserita nel film. Io ho immaginato che Beatrice non fosse una Barbie, una bella californiana in giro per Firenze. C’è qualcosa di più rispetto al romanzo: c’è la consapevolezza di essere Beatrice.

Si vede proiettata la scena in cui lei cerca lo sguardo di Dante. Tutta la troupe mi guardava, perché non riuscivo a dire stop, tanto era sincero e vero: l’amore può essere anche solo uno sguardo. In quello sguardo, c’è tutto ciò che era accaduto e ciò che sarebbe accaduto. Avati torna in seguito sull’argomento. Il cinema è fatto di sguardi. Io giro i primi piani e non riesco a dire stop perché rimango ammaliato dallo sguardo della mia Beatrice.

Lei muore, continua il regista, ma c’è un modo più esaustivo per restare nella mente di una persona. Dante si ripromette di scrivere per lei ciò che non fu mai scritto per nessuna donna. E lo fa. Quando Dante arriva a “l’amore che move il sole e l’altre stelle” muore perché non c’è nulla oltre. Dante ha esaurito il suo viaggio terreno, il suo viaggio spirituale e il suo viaggio creativo.

Il film ha avuto una gestazione di ben vent’anni. Non si era mai girata prima un’opera sulla vita di Dante, eccettuate due pellicole risalenti agli inizi del Novecento. Ma sulla Ferragni e su Vanna Marchi, sì! Il progetto fu portato alla Rai già nel 2022, fu firmato il contratto ma non se ne fece niente fino all’anno delle celebrazioni per il settecentenario dantesco. Ora lo abbiamo fatto e ancora non ci credo. Il regista spiega di essersi consultato quotidianamente con i più eminenti dantisti o con l’Accademia della Crusca. Il film non è un viaggio in solitaria.

Il regista non nasconde l’apprensione per l’imminente uscita del suo lavoro nelle sale, e si esprime sulla Mostra del Cinema di Venezia, dove, a suo dire, si celebra il cinema anacronisticamente, come fosse vivo, quando le sale sono vuote. Il film presentato ieri a Venezia ha fatto dodici persone. La situazione è questa. Un film senza pubblico non esiste, non ha diritto di cittadinanza. Continua a dipingere uno scenario nero: la mia creatività cinematografica è quella del budget, oltre il quale non posso andare.

Ho 83 anni, confessa sgridando scherzosamente il pubblico per non aver esclamato “ma no!” Mi ritrovo a sapere cose della vita perché l’ho vissuta. C’è una miniriflessione che io debbo dire, e dopo che l’avrete sentita direte “ha fatto bene ad andarsene”. Cosa è la vita? È la cultura contadina nella quale sono nato. La vita è una collina che si sale. Nella prima parte, ognuno di noi ha la sensazione di essere qualcosa di straordinario. Tutti pensiamo di essere eletti, prescelti, e che qualcuno si accorgerà di noi.

La vita è una ellisse, qui nasce il bambino e scopre tante cose: gattonare, mamma, cavallino, giocattolo. Nel primo quarto il bambino pensa che sarà per sempre. Ma adesso, chi ha il coraggio di dire “per sempre”? Solo la morte è per sempre. 

Nel secondo quarto di ellisse è un adolescente, sa che il “per sempre” non esiste e pensa al suo futuro, impara, si fidanza. In cima all’ellisse, in cima alla collina, l’ometto guarda di là e si rende conto che la parte più eccitante era la salita e di là non c’è nulla di interessante. Si chiama “scollinamento”, citando Proust. Io, prosegue Pupi Avati, ho scollinato una sera, a Rimini, tornato da Bergamo. Mi accorgo che faccio fatica a leggere, prendo una lampada e il giorno dopo vado da un oculista. È il primo dei miei organi che mi molla. Mi rendo conto che c’è uno scollamento tra il mio fisico e il mio essere.

Nel terzo quadrante della vita inizia il disapprendimento. Gli occhi iniziano a non vedere più. Io pensavo che avrei concluso la mia vicenda umana nel terzo quarto, invece sono entrato nel quarto quadrante. Non me l’aspettavo: si ha un ritorno, la nostalgia dell’infanzia, e si assomiglia sempre più al bambino che si è stato. Io e il bambino ci capiamo immediatamente.

Il punto di arrivo dell’essere umano, la sua qualità più sublime, è la vulnerabilità. Le persone che avvertono la propria inadeguatezza, che non si sentono in grado, sono quelle che ti danno di più. La vulnerabilità ti insegna a conoscere il tuo prossimo, perché anche l’altro è vulnerabile come te. È una vicinanza col mondo che ha qualcosa di sublime. Uno stato di grazia e di terrore, perché non amo la morte. Vorrei che tutto si concludesse in Via San Vitale 51, dove mio padre e mia madre mi preparano la cena.  

Maria Luisa Abate
Mantova, Festivaletteratura, Piazza Castello 9 settembre 2022
Contributi fotografici: MiLùMediA for DeArtes