Ottimi il cast e la direzione. Il nuovo allestimento proposto dal Festival Verdi al Teatro Regio di Parma de La forza del destino (drammaturgia Anne Blancard), con regia scene e costumi di Yannis Kokkos, ha immerso in un contesto atemporale. O per meglio dire, privato di temporalità.
Una regia visivamente gradevole, fin troppo lineare, scontata, tuttavia volta a preservare i punti di riferimento fedeli al libretto, fatto questo che, a giudizio di chi scrive, costituisce di per sé un pregio. La parte del leone l’ha sostenuta l’impianto scenografico, peraltro anch’esso privo di sorprese o di novità, costituito da una chiesa sbilenca, una croce inclinata, scheletri di edifici sventrati dalla guerra. Elementi cui hanno dato plasticità, colore e anche atmosfera gli effetti di luci abilmente studiati (Giuseppe Di Iorio) e il sostanziale apporto video (Sergio Metalli) di cieli tempestosi, densi di nubi in suggestivo movimento.
È facile immaginare come, oggigiorno, la guerra che fa capolino nelle sublimi pagine di Giuseppe Verdi abbia costituito per il regista un nodo da sciogliere. Infatti una delle scene più famose dell’opera inneggia alla battaglia. “Viva la guerra!” canta Preziosilla mentre i soldati ripetono “è bella la guerra”. Su queste note, lo sfondo ha iniziato a confondersi, i contorni si sono distorti e i colori liquefatti come se un invisibile pennello stesse cancellando il quadro della vita per come la si conosceva. Sul palco alcuni figuranti, che indossavano maschere di teschi o volti deformi che sono sembrati presi a prestito dal pittore James Ensor, si sono mossi disarticolati, come scheletri privati della muscolatura, impegnati in una danza macabra grottesca (coreografie Marta Bevilacqua). Ma a commuovere non è stata la regia bensì quel “Pace, pace mio Dio” intonato dal soprano, in questa circostanza un’artista ucraina di Kiev.
Di altissima caratura tutto il comparto musicale. Roberto Abbado ha diretto l’opera (edizione critica a cura di Philip Gossett e William Holmes) nella versione di Milano 1869, quella che si esegue abitualmente. Il motivo della scelta in controtendenza con ciò cui ha abituato questo Festival, ha spiegato intelligentemente Abbado, è che il finale sia decisamente migliore rispetto alla prima versione, dato che Verdi metteva mano alle sue opere per migliorale: concetto lapalissiano che purtroppo tante volte viene dimenticato, in favore di riscoperte che non hanno ragion d’essere. Salendo sul podio dell’Orchestra del Comunale di Bologna, con la quale ha maturato un tangibile feeling, Roberto Abbado ha seguito una linea stilistica ricercata, volta a definire con precisione, ma anche con vigore, colori e dinamiche, dosati con gusto e impastati d’una sensibilità verdiana al cento per cento. Slanci e momenti meditativi hanno caratterizzato la tensione drammatica mai venuta meno. Soprattutto, Abbado ha riservato attenzione alla complessità strutturale dell’impianto verdiano, che passa da cupi echi romantici ai toni epici, dagli slanci militari al raccoglimento religioso; in altre parole, a quella compattezza d’insieme che ne La forza del destino è elemento indispensabile.
Potenza e padronanza tecnica per Liudmyla Monastyrska, voce pastosa, ben gestita tra gli acuti fulminanti e le mezze voci; protesa a tratteggiare il travaglio di Donna Leonora alla costante, disperata ricerca di pacificazione culminata nel sopra citato “Pace, pace mio Dio”, dove è maggiormente emersa la sua sensibilità di interprete. Di spiccata espressività e attento ai particolari Gregory Kunde nei panni di Don Alvaro, dagli squilli sempre ben appoggiati e limpidi, dagli accenti magistrali, dall’eleganza stilistica contrassegnata da una superlativa tavolozza di colori. Il tenore pare non risentire degli anni che passano, anche grazie alla tecnica applicata con arguzia.
Amartuvshin Enkhbat è uno dei migliori baritoni in circolazione, nulla meno che da osannare per i mezzi vocali lussureggianti, ricchi di armonici e prodighi di colori, per il timbro caldo avvolgente e tornito, per la dizione impeccabile così come il fraseggio estremamente curato e consapevole. Un animo interamente e profondamente verdiano, con cui ha centrato l’interpretazione di Don Carlo di Vargas.
Autorevole e al contempo ispirato il Padre guardiano proposto da Marko Mimica avvalendosi di un bagaglio canoro di tutto rispetto. Ottime doti vocali per Roberto de Candia, il quale ha tarato al punto giusto Fra’ Melitone, senza eccessi di ruvidità e senza indulgere a sporcature, dando vita a una figura simpatica e credibile, della quale ha fatto emergere la schietta umanità. Scoppiettante la Preziosilla cui ha regalato un carattere deciso Annalisa Stroppa, dallo squillo luminoso e ben proiettato, in un canto di estrema pulizia. Da segnalare la prova di Marco Spotti, cui era stato affidato il poco più che cameo del Marchese di Calatrava. Completavano validamente il cast Andrea Giovannini, Mastro Trabuco; Adolfo Corrado, un chirurgo; e i due debuttanti nei rispettivi ruoli: Natalia Gavrilan, Curra e Jacobo Ochoa un alcade.
Questo era un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna, il Teatro Massimo di Palermo, Opéra Orchestre National Montpellier Occitaine. Proprio dal Comunale di Bologna, con cui l’alleanza è ultracollaudata, giungeva, oltre all’Orchestra, anche il Coro che, fin dall’annuncio avvenuto parecchi mesi prima, ha scatenato una querelle circa l’opportunità di affidare a una compagine foresta il titolo inaugurale di Stagione. Al di là delle polemiche, che si sono trascinate fino alla sera inaugurale ma delle quali fortunatamente non è rimasta traccia nella replica cui abbiamo assistito, resta il dato di fatto che questo Coro, istruito da Gea Garatti Ansini, sia una formazione di prim’ordine (senza nulla togliere a quella di casa), di estrema puntualità e coesione, che ha sfruttato al meglio le dinamiche. Alla fine, la qualità premia e pacifica gli animi. E spinge ancora una volta a inneggiare: Viva Verdi!
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma, Festival Verdi, il 9 ottobre 2022
Contributi fotografici: Roberto Ricci