A Parma è andata in scena la rara versione del 1857. Hanno brillato la concertazione del Maestro Frizza e il comparto vocale e strumentale.
Ebbene sì: chi scrive fa parte di quella schiera di spettatori che non hanno apprezzato la regia e perciò sono stati tacciati – sulle pagine di giornali, da censori di vita oltre che di opere, pronti a insultare i gusti del pubblico sovrano – di vecchiaia, di incartapecorimento, di senectute mentale. A nostra parziale discolpa, assicuriamo di gradire, nella maggior parte dei casi, le idee provocatorie, dissacranti e soprattutto quelle spiazzanti. Ma ci ostiniamo altresì tenacemente a credere che la bellezza estetica resti un valore aggiunto, e non datato. Ai nostri miopi occhi questa regia è apparsa inutilmente brutta. Rimarchiamo inutilmente, avendo faticato a ravvisare un “perché” veramente convincente.
Nelle note di regia (che paiono un manifesto politico estremista e che, con la necessità di attingere a esse, depauperano quanto dovrebbe “arrivare” esclusivamente dal palcoscenico) Valentina Carrasco ha spiegato di aver ambientato Simón Boccanegra, opera che nell’originale verdiano si svolge a Genova nel XIV secolo, in un macello, in seguito alla constatazione che accanto al porto ligure queste strutture abbondino. A dare sostanza alla scelta geografica, il fatto che in quest’opera più che in altre si intreccino le torbide trame della lotta al potere. Citiamo testualmente le parole della regista di Buenos Aires: «la storia della politica è macchiata del sangue dei popoli innocenti», trattati come fossero una mandria di buoi inconsapevoli di essere destinati al macello.
È vero, la prima versione di quest’opera, quella del 1857 qui prescelta, lascia il mare sullo sfondo preferendo assestarsi sull’atmosfera scura di vicoli e carruggi, terreni fertili per intrighi e spregevolezze. Il punto è che moltissime opere prevedono situazioni cupe, tenebrose oppure opprimenti. E quasi tutte sono costellate da morti ingiuste e prevaricazioni (queste ultime le ritroviamo perfino nel repertorio buffo). Ergo, ciò di cui abbiamo sentito la mancanza è stata la specificità, ossia una connotazione che togliesse il presupposto registico dallo status di genericità e lo facesse calzare come un guanto a questo titolo in particolare. Cosa che avrebbe conferito all’allestimento quella bellezza estetica che non deve necessariamente seguire canoni classici: anche il brutto può essere bello. La bellezza può sprigionarsi anche da un prodotto visivamente disturbante, purché rivesta un senso ad hoc.
Fatto sta che il prologo registico ha mostrato spezzoni filmati in bianco e nero (video Massimiliano Volpini, grafic designer Sergio Metalli) che hanno rimandato al turbolento Sessantotto, con gli operai intenti a manifestazioni di protesta a far da premessa alla scalata al potere di Boccanegra, da corsaro a Doge. Dopo aver inquadrato, sempre in pellicole d’epoca, file di bovini avviati alla macellazione, Valentina Carrasco ha traslocato l’azione all’interno di una fabbrica per la lavorazione della carne (scene Martina Segna, luci Ludovico Gobbi).
Qui, i personaggi muniti di grembiuli insanguinati (costumi Mauro Tinti) si sono ritrovati dietro un bancone attrezzato con coltellacci affilati e guarnito da brandelli di muscoli, sul quale è stato adagiato anche un corpo umano a rendere evidente il parallelismo. Successivamente sono state calate dall’alto carcasse decapitate e pronte per la dissezione. Citiamo nuovamente la regista, la quale ha inteso sottolineare quanto «l’uomo politico diventi carnefice dei suoi pari», quanto la corsa al potere sia assimilabile a un’operazione di macelleria. Contestazioni (ma anche constatazioni: “Verdi non era un macellaio”) sono piovute dal loggione fino all’ultima recita. Il timore che ci ha personalmente assaliti è che, nella patria incontrastata di prosciutto e culatello, gli animali appesi abbiano richiamato alla mente ben altri e succulenti pensieri.
Un container frigorifero si è aperto di lato svelando un gaio negozio di fiori, con grandi girasoli che pendevano a testa in giù dal soffitto come quarti di bue vegani, e un praticello multicolore premurosamente coltivato da Amelia in abituccio floreale e crocs ai piedi.
L’elezione di Boccanegra a Doge è stata acclamata durante una festa popolare con tanto di prevedibile grigliata, mente nell’ultima scena l’azione è stata trasferita in un campo di grano, ovvia metafora di una ritrovata temperanza, ancorché posto sotto un cielo d’altrettanto ovvio color rosso sangue. Amelia impersona (ooops, meglio dire incarna) l’amore, la riconciliazione degli antagonismi, è una forza rigeneratrice. In questo non vi è nulla di nuovo. Idem l’aver portato in scena nel quadro conclusivo un simbolo pacificatore per antonomasia: un agnello, fortunatamente vivo e vegeto. Ma, a giudicare dalla mole, trattavasi di pecora.
Decisamente meglio è andato il comparto musicale, che ha pienamente soddisfatto le più esigenti attese qualitative. Il melodramma in un prologo e tre atti attinto dal dramma omonimo di Antonio García Gutiérrez è andato in scena al Teatro Regio di Parma, nell’ambito del Festival Verdi, nella prima, rara versione rappresentata nel 1857 a Venezia. Il debutto registrò un insuccesso che spinse Verdi, dietro sollecito di Ricordi, a rimettervi le mani dopo oltre vent’anni, nel 1881 per Milano, passando il libretto dalle mani di Piave (al quale si deve il caos di nomi e pseudonimi dei personaggi, probabilmente concausa del fiasco) a quelle di Boito, per diventare il capolavoro che tutti conosciamo.
Il Festival Verdi ha proseguito così la sua meritoria missione di studio e approfondimento e ha permesso, per la prima volta, di integrare questa edizione con i documenti autografi ritrovati a Sant’Agata. Una versione filologicamente aggiornata della quale risparmiamo ai nostri lettori il tedioso elenco delle differenze rispetto all’edizione più nota, colte senza bisogno di imbeccate dal pubblico di Parma estremamente competente, così come è preparato quello internazionale che dopo la pandemia è tornato in gran numero. La riscoperta è accessibile gratuitamente a chiunque, dato che l’ultima recita del 14 ottobre 2022 è stata trasmessa in live streaming sul palcoscenico virtuale dell’Emilia-Romagna, dove resterà disponibile (con sottotitoli in italiano e inglese) per sei mesi, quindi fino a metà aprile 2023. Un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.
L’operazione di confronto tra le due versioni, l’entrare nei dettagli del processo creativo di Verdi fino a giungere alla piena comprensione di quanto l’estro del Maestro fosse mutato negli anni, è stato il punto di partenza per il direttore e concertatore Riccardo Frizza, sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, formazione che in questa circostanza ha meritato un elogio speciale. Frizza si è mosso alla ricerca di quegli effetti visivi musicali che Verdi impresse al suo primo parto, restituendoli con lucidità e concretezza, senza indulgere a rimpianti per le raffinatezze inserite dal compositore successivamente, ma anzi valorizzando con intelligenza, profondità ed efficacia la ruvidezza di questa partitura. E lasciando, come esige tale dettato, uno spazio ancora maggiore alle voci. Doveroso quindi lodare innanzitutto la prestazione del Coro del Teatro Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani, particolarmente attento a rendere al meglio la tessitura con sensibilità interpretativa non di routine ma tarata ad hoc.
Il baritono Vladimir Stoyanov, Simón Boccanegra, ha confermato la ben nota linea stilistica nobile, la raffinatezza di colori e di fraseggio, i legati suadenti e soprattutto l’espressività schiettamente verdiana con la quale ha fatto emergere i diversi stati d’animo attraversati dal personaggio negli anni che intercorrono tra i vari episodi dell’ingarbugliata vicenda: impeti e turbamenti che hanno fatto di Simone in primis un padre premuroso.
Roberta Mantegna era al suo splendido, entusiasmante debutto nel ruolo di Maria/Amelia, mossasi a proprio agio nello stile belcantistico, con le dovute agilità e con i giusti respiri, morbidamente proiettata, con omogeneità e brillantezza in tutti i registri. Il soprano ha incarnato un senso drammatico tangibile, che ha trasmesso empaticamente al pubblico.
Piero Pretti era anch’egli al debutto, nulla meno che magnifico, nel ruolo di Gabriele Adorno: dallo squillo smaltato, dal timbro che ha richiamato alla mente (e al cuore) i grandi tenori di una volta, dalla vocalità assai curata e gestita accortamente sia nelle dinamiche che negli accenti, e dall’appropriata giovanile irruenza nella parte attoriale.
Riccardo Zanellato era Jacopo Fiesco, figura padroneggiata e resa, nel canto e nella scena, con intensità anche nel suo caso verdiana, forte del timbro affascinante, della linea stilistica aristocratica e della ricchezza di colori sfaccettati.
Devid Cecconi ha ben centrato il personaggio di Paolo Albiani. Degni di nota Adriano Gramigni, Pietro, e Chiara Guerra, ancella di Amelia.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma, Festival Verdi, il 14 ottobre 2022
Contributi fotografici: Roberto Ricci