Quattro pareti incolori delimitavano l’orizzonte. Uno spazio chiuso dai toni freddi e lunari, un cubo mentale con feritoie poste a un’altezza inaccessibile dalle quali filtrava la luce proveniente dall’esterno. Al centro della scena, durante l’ingresso degli spettatori al Teatro Farnese e per buona parte dell’opera, un anziano similverdiano, barbuto e con cappello a cilindro, era seduto in una immobilità statuaria. Un osservatore al quale nel secondo tempo si è affiancato un uomo in armatura: muti spettatori che hanno collocato la situazione, che per Verdi nasce da un flashback, in una bolla di distacco temporale, nella patologia dei ricordi.
Un disegno concettuale fattosi astrazione, come è consuetudine per Robert Wilson, ideatore, regista e autore di scene e luci per “Le trouvère” andato in scena a Parma nell’ambito del Festival Verdi, nell’edizione critica di David Lawton in prima assoluta targata The university of Chicago Press e Casa Ricordi.

Una struttura registica formale costruita dall’artista visuale, che nelle note di regia è partito da un presupposto inconsueto, ossia che nelle opere liriche l’azione scenica troppo elaborata distragga dalla musica. Sottacendo il fatto che il melodramma sia l’evoluzione del “recitar cantando” e in esso musica e teatro, da Bob Wilson considerati elementi indipendenti e separati, sono invece fattori inscindibili, interagenti, compenetranti. Il texano ha confessato di chiudere sovente gli occhi quando si trova in platea per abbandonarsi al solo ascolto: condizione quantomeno strana per un regista. Il quale ha spinto lo spettatore a compiere uno sforzo di comprensione analitica ottenendo – si badi bene magistralmente – quello stesso effetto distraente paventato. In lui tutto, anche la contraddizione, è motivo scatenante la poetica.

I contorni si sono esasperati durante il balletto che Verdi aggiunse quando, su commissione dell’Opéra di Parigi, accettò di adattare “Il trovatore” al gusto francese del 1875, revisionandolo, togliendo o aggiungendo pagine rispetto alla versione italiana e affidando il libretto di Salvadore Cammarano ed Emanuele Bardare nelle mani di Émilen Pacini per essere tradotto. Nelle danze, gli scontri tra armigeri, la rivalità tra fratelli, la lotta intima fra sentimenti contrastanti, sono diventati un incontro di boxe disputato alla luce lampeggiante, mai a tempo di musica, di tubi a led. Le mosse si sono ripetute identiche per quasi trenta interminabili minuti e, a onor di cronaca, hanno suscitato sbadigli e dissensi di pubblico e critica. Ai pugili si sono aggiunti i bambini, per i quali la battaglia era un gioco, e ha indossato i rossi guantoni pure la giunonica balia. Figura che aveva precedentemente fatto l’ingresso mentre la bohémienne, la zingara nell’originale italiano, narrava d’avere, per tragico errore, bruciato il proprio neonato anziché quello rapito al padre del Comte de Luna. Due bimbe e una giovane donna hanno accennato giochi accanto a una pompa per l’acqua asciutta, incapace di spegnere qualsivoglia fuoco, mentre sul fondo la governante sospingeva una carrozzina prima intatta poi scheletrica, ridotta alla sola struttura metallica.
I personaggi erano irrigiditi e raramente si sono guardati l’un l’altro (drammaturgia José Enrique Macián) mantenendo gli occhi fissi in avanti come manichini dai volti illividiti, spettrali (make-up design Manu Halligan), isolati nella loro solitudine interiore. Spesso le figure erano inquadrate in controluce, sagome nere riconoscibili dagli estrosi copricapi (costumi Julia Von Leliwa). La proiezione d’esordio (video design Tomek Jeziorski) della Parma in bianco e nero di inizio Novecento ha nell’ultimo quadro lasciato posto, sempre in assenza di colore, a un mare in tempesta sorvolato al ralenti da un’oca bianca, in talune culture messaggera del trascendente. Le onde spumose non si sono infrante sulla riva, ma si sono mosse orizzontalmente da destra a sinistra su piani paralleli, come negli antichi artifici scenici barocchi coevi al seicentesco teatro ducale.

Ogni uomo è un isola, sosteneva Hemingway, e recita a soggetto nella perenne ricerca di se stesso, come insegnava Pirandello citando proprio la Leonora verdiana. Il maestro Wilson ha inneggiato all’incomunicabilità dell’Uomo e lo ha fatto con ricercata, perseguita assenza di dialogo con lo spettatore. Anzi di più. Ha esautorato la condizione stessa dello spettatore che si è trovato singolarmente proiettato all’interno di questa allucinazione onirico-mentale, diventata quella di ciascuno.
Ha sagacemente interagito con la regia riscaldandone il gelo formale, il Maestro concertatore e direttore Roberto Abbado, che ha trattato la partitura come un gioiello di cui avere cura, di cui godere nello strepitoso salotto del Farnese, per quanto non perfetto acusticamente. Abbado, con eterea leggerezza nel soffermarsi sulle cupe atmosfere drammatiche verdiane e con un rigore ineccepibile sui tempi, ha tratto dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna un suono aulico splendidamente spurgato da ogni ampollosità. Di Verdi ha respirato i respiri, e questo è tutto.

Il cast, costretto all’assenza di gestualità, ha saputo delineare con l’interpretazione musicale la caratterialità dei personaggi. L’impetuosità giovanile di Manrique, le Trouvère, era affidata al languore romantico di Giuseppe Gipali, tenore dai volumi non dirompenti, aggraziati perfino nel celebre do di petto; apprezzabile per l’omogeneità della linea di canto. Caratteristica condivisa con Roberta Mantegna Léonore, dall’emissione pastosa e dallo squillo sontuoso che hanno guarnito il timbro smaltato e splendidamente cangiante. Franco Vassallo è stato un Le Comte de Luna dal fascino dark, attento al fraseggio e alle messe in voce espressive, nella vocalità non necessitante di forzature, naturalmente potente e tornita. Ha confermato le proprie doti il mezzosoprano Nino Surguladze, dal magnifico timbro brunito mai cupo, luminoso e impetuoso come dovuto al personaggio di Azucena, la bohémienne dalle corna luciferine. L’eleganza di Marco Spotti ha dato vita a Fernand, voce ben proiettata, sapientemente dosata nelle dinamiche e attenta agli accenti. Corretti Luca Casalin Ruiz e messagger; Tonia Langella Inès; Nicolò Donini Un bohémien. Prova superata a pieni voti dal Coro del Teatro Comunale di Bologna diretto da Andrea Faidutti.

Recensione di Maria Luisa Abate

Contributi fotografici di Lucie Jansch

Visto al Teatro Farnese di Parma, nell’ambito del Festival Verdi della Fondazione Teatro Regio, il 4 ottobre 2018.

Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma, in coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Change Performing Arts