Per la prima volta è andata in scena al Filarmonico di Verona l’opera che mise in luce Maria Callas nel ’47, proprio a Verona ma in Arena (dove l’ultima rappresentazione risale a 17 anni fa): La Gioconda di Amilcare Ponchielli. Nella sua breve vita, Ponchielli, oltre che compositore, fu docente al conservatorio di Milano e maestro di Puccini e Mascagni. Il mondo operistico era allora ancora ancora dominato da Verdi, e Ponchielli si trovò quindi ad attraversare una terra di mezzo: da una parte un passato ancora vivo e di successo, dall’altra il futuro sferzato dai nuovi venti portati dal verismo.

Quando Ricordi commissionò quest’opera a Ponchielli, persona timida e riservata, gli affiancò un librettista tra i più innovatori e scapigliati del tempo: Arrigo Boito. Il quale preferì firmarsi con l’anagramma Tobia Gorrio e si ispirò al dramma di Victor Hugo “Angelo, tiranno di Padova” per scrivere un testo a dir poco arzigogolato nella scelta linguistica. La Gioconda, superò gli scogli da cui fu afflitta al debutto, vide poi anni felici di maggior successo, ma faticò sempre a entrare nel cuore del pubblico e oggi viene raramente rappresentata.

Una sfida quindi, superata, il nuovo allestimento di cui Verona è capofila, coproduzione del Teatro sloveno di Maribor, del Bellini di Catania e dei Teatri di OperaLombardia dove per la prima volta Orchestra e Coro di Fondazione Arena portano questo titolo in tournée.

Oltre alla regia, Filippo Tonon firma anche scene e costumi (assieme a Carla Galleri). Una visione, la sua, influenzata dal verismo, che lo ha spinto a optare per la trasposizione temporale dal seicento all’anno in cui l’opera fu composta, il 1875. Senza forzature e con gradevole linearità descrittiva, Venezia si è intuita da un grande arco mobile sorretto da colonne slanciate, e da alcuni elementi sempre marmorei, tra cui il simbolo per antonomasia della Serenissima, retaggio di un passato onnipresente nell’Ottocento come anche oggi: il Leone di San Marco alato che tiene un libro aperto tra le zampe. Le luci (Fiammetta Baldiserri) hanno donato plasticità a tutti gli elementi scenografici, compreso il quadro notturno ambientato tra le sartie di un veliero.

Un lungo fregio decorato e solcato da una profonda crepa ha amplificato l’atmosfera di romantico decadentismo, inserito in un clima di contrasti tra potere corrotto e popolo vittima di oppressioni: Tonon ha mantenuto il primo come sfondo al secondo, concentrandosi sulle storie personali dei vessati. E, oseremmo aggiungere, invertendo le prospettive tra coloro che vedono distintamente la natura delle cose, come La Cieca e la figlia Gioconda, e il mondo di chi è afflitto da diverso tipo di cecità, ossia chi detiene cariche, aristocratiche o politiche, ed è accecato dal potere di cui fa sprezzante abuso.

[Monica Conesa e Agostina Smimmero]

Sul podio, il maestro veneziano Francesco Ommassini si è mosso con la consapevolezza di maneggiare «un’opera nata in un periodo di ripensamento del melodramma, e lo stesso Ponchielli ne era consapevole, diviso fra le tradizioni dell’opera italiana e la ricerca del nuovo, offertagli dall’ambizioso libretto di Boito». Si ritrovano, in Ponchielli, elementi della grand opéra francese e ispirazioni wagneriane, venature attinte al romanticismo e pulsioni veriste. Insomma, inutile negarlo, un polpettone, che Ommassini ha reso gustoso, perfino prelibato. Il direttore ha posto attenzione in primis all’equilibrio, al dosaggio tra i contrasti, dando vita alle passioni, ai guizzi drammatici dei quali ha levigato gli spigoli, e valorizzando al meglio le pagine in cui Ponchielli ha profuso una scrittura elegante. E ha altresì dimostrato attento e saggio riguardo per le voci, messe a proprio agio anche dall’uso oculato delle dinamiche.   

[Angelo Veccia]

Di valore il comparto vocale, iniziando dalla giovane cubano-americana Monica Conesa nel ruolo della cantatrice girovaga Gioconda. Va da sé che il paragone diretto con Maria Callas ha posto il soprano in una situazione scivolosa, superata brillantemente tenendo presente la lezione della Divina. Conesa ha voce solidissima e svettante, dal bel timbro e ha dimostrato cura nella costruzione del personaggio, al quale hanno giovato il physique du rôle e la gestualità incisiva.

[Angelo Villari]

Chi su tutti ha brillato per espressività, sia nel canto che nella recitazione, aspetti entrambi studiati, affinati e resi sul palcoscenico al meglio, è stato il baritono Angelo Veccia, che tra le altre doti ha sfoderato una pronuncia estremamente intelligibile. Con mezzi corposi eppure fluidi ed emissione ben proiettata, ha saputo addomesticare la voce sia agli accenti sprezzanti sia melliflui; ha dato anima e fascino noir allo spregevole, malvagio, diabolico Barnaba, subdola spia e motore della vicenda.

Enzo era il tenore Angelo Villari, dagli acuti schietti, ben sostenuti e altrettanto ben tarati nei volumi, dalla spiccata musicalità, capace di slanci caratteriali e di impeti amorosi; a lui, la meritata dose di consensi nell’ispirata romanza “Cielo e mar”. Ottima la dizione del basso Simon Lim, un Alvise Badoero appropriatamente freddo e autoritario, che ha riposto meticolosa diligenza nel fraseggio e confermato una dotazione canora di tutto rispetto e di indubbia eleganza: voce rotonda e generosa, supportata da solida tecnica.

[Simon Lim e Agnieszka Rehlis]

Laura Adorno era affidata al mezzosoprano Agnieszka Rehlis, emissione fluida e densa come miele, ben appoggiata in tutta la gamma con particolare attenzione ai registri bassi dove maggiormente sono emersi i colori bruniti. Lunghi e meritati applausi sono andati anche al contralto Agostina Smimmero, tecnicamente adeguata con una menzione speciale ai legati; scrupolosa la sua scansione psicologica de La Cieca, madre di Gioconda: superando la gabbia del costume total black (che suggeriva poter essere veramente La Cieca strega e portatrice di malasorte, colpa di cui viene accusata scampando per un soffio al linciaggio) Smimmero ne ha fatta una figura di profonda umanità, a tratti commovente.

Nei ruoli di fianco, sono spiccate le prove significative di Alessandro AbisZuane, e Francesco PittariIsepo. Hanno completato il cast voci soliste attinte al coro: Francesco Azzolini, un CantoreMaurizio Pantò, un PilotaNicolò Rigano, un BarnabottoDario Righetti e Jacopo Bianchini, voci. Il Coro areniano, preparato da Ulisse Trabacchin, ha inanellato un’altra prova di cui andare fiero. All’altezza dell’impegnativa situazione anche il Coro di Voci bianche A.Li.Ve. istruito da Paolo Facincani.

La celeberrima Danza delle ore ha visto la coreografia a dir poco scarna del valente Valerio Longo, il quale in questa circostanza è parso aver alzato bandiera bianca di fronte a quelle che immaginiamo siano state insormontabili esigenze di budget. La non-danza, più che altro riposta in movimenti mimici, è stata affidata al non-Corpo di ballo, scarnificato a soli tre elementi: le brave ed espressive prime ballerine Evgenija Koskina, Tetiana Svetlicna, Mina Radakovic. Comprendiamo le generali esigenze di riduzione dei costi, ma queste diventano inspiegabili se applicate a quella che è l’aria più famosa dell’intera opera, per non dire l’unica conosciuta ai più.

Una proposta in ogni caso vincente che, dopo gli anni di covid seguiti da quelli di paura del covid, è stata premiata dall’affluenza di pubblico, se non al gran completo, decisamente molto numeroso anche nelle repliche.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 28 ottobre 2022
Contributi fotografici. Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona