All’ingresso nella sala, un sipario rifletteva i palchi del Teatro Regio completandone il cerchio e suggerendo un effetto metateatrale, subito però abbandonato in favore di una visione allucinata della realtà. Nel nuovo allestimento di “Macbeth” a Parma, firmato da Daniele Abbado, il tradizionale artificio scenico del tulle – che può assorbire immagini o fare muro o diventare trasparente – ha trovato nuova declinazione in una magnifica texture traslucida, diversamente posizionata nel corso dello spettacolo. Unico esaustivo elemento visivo/scenografico assieme all’invenzione di una pioggia finissima, nebulizzata, come nebbia che non ha bagnato ma avvolto e inglobato. Un’impalpabile cortina caduta a più riprese dall’alto sui protagonisti, insensibili a essa oppure riparatisi dalla sua invasività sotto ombrelli di plastica trasparente.
I velari e la coltre di microscopiche gocce hanno sfumato i colori cupi creando suggestivi effetti opalescenti (luci magistrali di Angelo Linzalata) e cinto di un’aura di trasognata astrazione la brumosa Iscozia verdiana, con i fantasmi mutuati da Shakespeare (dal librettista Francesco Maria Piave, cui si aggiunse Andrea Maffei per alcuni rifacimenti), con le ombre uscite e nuovamente fagocitate da quelli che il regista ha definito “buchi neri”, con le streghe che nella prima scena hanno steso un tappeto sanguigno e vi hanno camminato sopra nel salutare Macbetto come sire di Glamis e di Caudore, e di Scozia re. Il progetto delittuoso si è svolto in sintonia con la crudele Lady in un’ottica proiettata nella sfera mentale, del pensiero prima ancora che dell’azione, difatti limitata dalla regia.
Nel terzo atto il non-luogo si è affollato di creature fantastiche, bizzarre, mascherate in stile carnascial-grottesco (costumi atemporali di Carla Teti). Una scena che, con splendida intuizione registica, è sembrata avere tacitamente evocato altre pagine shakespeariane: il Sogno di una notte di mezza estate e la misteriosa corte di elfi fate e folletti di Oberon e Titania (movimenti coreografici Simona Bucci). A spiriti e chimere si è contrapposta la figura umanamente tragica di Macbeth, il solo che abbia compreso appieno la gravità degli omicidi e ne abbia provato paura al contrario della spietata Lady; benché, come lei, attratto magneticamente dal Male. L’unica “dolcezza” che ha accomunato i due sposi è stato il sapore del sangue, che la pioggia non ha potuto lavare, esautorata dalla propria funzione purificatrice.
Sotto il profilo musicale, questa si è rivelata una delle migliori produzioni del Festival Verdi, che da qualche anno ha ritrovato i passati splendori. Anziché nella revisione del 1865 generalmente in uso, l’opera è stata presentata nella prima stesura del 1847 (quando ancora il dramma di Shakespeare era in Italia semisconosciuto) nell’edizione critica a cura di David Lawton (The University oh Chicago Press e Casa Ricordi). Sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini cui si è aggiunta l’Orchestra Giovanile della Via Emilia, è salito Philippe Auguin. Sono prevalsi tempi regolari e dinamiche come nuvole cariche di una tempesta che non è esplosa, che ha brontolato inquietante tra i pianissimo raccomandati da Verdi. Auguin ha cioè giostrato, al pari della regia, su tinte psicologiche ben determinate, espresse con rigore esecutivo.
Fin dalle prime battute si è capito che Anna Pirozzi è Anna Pirozzi! Un nome, una certezza. Hanno confermato la fama la vocalità rigogliosa, la classe interpretativa eccelsa, la padronanza tecnica ineccepibile anche nelle agilità declinate in toni splendidamente tesi. Squilli adamantini e potenti che nelle pagine d’assieme sono svettati come dalla cima dell’Everest; ma anche la leggerezza dei filatini sulle mezze voci. Una Lady Macbeth psicologicamente multiforme come deve essere. Entusiasmante la sinergia nei duetti con Luca Salsi, Macbeth, baritono di razza che ha offerto una prova parimenti straordinaria e priva di sbavature. Fraseggio curato come i legati, attenzione alle mezze voci, squillo saldo mai meccanico e sempre capace di eloquente espressività, nella linea di canto in cui l’omogeneità, tarata ai massimi livelli, è andata dalla prima all’ultima nota. Blasonato pure il basso Michele Pertusi dalla voce rotonda, tornita, timbrata, gestita con attenzione al fraseggio e alle sfumature di significato della parola verdiana. Il suo elegante aspetto scenico ha fatto del fantasma di Banco una inquietante ma non lugubre presenza, un personaggio che, pur non vittorioso, si è contrapposto al Male. All’altezza della situazione Antonio Poli, signorile Macduff. Bene Matteo Mezzaro, Malcom; Gabriele Ribis, Il medico; Giovanni Bellavia nel triplice impegno come Sicario, Domestico, Prima Apparizione; Adelaide Davanari, Seconda e Terza Apparizione. Una speciale nota di merito va ad Alexandra Zabala, Dama di Lady Macbeth dalla vocalità importante. Attento ai chiaroscuri oltre che a intense pienezze di suono, il Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani.
La serata è stata dedicata al compianto Gianfranco Stefanini, ex sindaco di Busseto, promotore del concorso di canto e del museo verdiani.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi – l’11 ottobre 2018
Contributi fotografici di Roberto Ricci