Il palcoscenico è in penombra, la luce che cerchia il pianoforte è fioca e invita a socchiudere gli occhi per abbandonarsi totalmente all’ascolto, facendone un momento interiore. Un’esperienza splendidamente unisensoriale in questo mondo che inneggia alla multisensorialità come fosse un diktat. La riscoperta di sensazioni che, nella frenesia odierna, paiono quasi ancestrali, quali la calma, la serenità, la gioia di poter udire – e null’altro – un concerto.  

Il tedesco e il ceco. Da un lato colui che nell’Ottocento ha condotto a compimento la parabola del romanticismo ripercorrendo, nel dettato armonico, canoni tradizionali. Dall’altro colui che, sempre nell’Ottocento ma arrivando a lambire di poco il nuovo secolo, ha traghettato la musica boema verso l’occidente, innestando i temi e la sensibilità propri della sua terra nella cultura tedesca. Ossia, come puntualizzano le note di sala a firma di Andrea Zaniboni, l’“imperdonabile passatismo” di Johannes Brahms, riconosciuto solo in seguito come un innovatore, e il “naïf” Antonín Dvořák, maestro in descrittività e capacità espressiva.  

A far da collante tra il tedesco e il ceco, un russo: Mikhail Vasil’evič Pletnëv, classe 1957, famoso per aver abbattuto le classificazioni artistiche. Celebre per aver fondato, nel 1990 grazie al supporto dell’amico Mikail Gorbačëv, la Russian National Orchestra, la prima orchestra russa non governativa e finanziata da privati, che ha suonato anche all’apertura dei giochi olimpici di Atlanta nel 96. Celebre come compositore avente all’attivo, tra altra sua produzione, molti arrangiamenti per pianoforte che sono diventati banchi di prova tecnici per i giovani pianisti di tutto il mondo. Celebre star delle incisioni discografiche Deutsche Grammophon, con cui ha un contratto d’esclusiva dal 1996, ed è stato più volte candidato ai Grammy Awards, vincendone uno nel 2005. Celebre per essere un ispirato direttore d’orchestra, ruolo nel quale è già stato in passato ospite a Mantova delle stagioni di Oficina OCM. E dove ha fatto ritorno, acclamato fin dai giorni d’attesa precedenti il concerto, in quella che forse è la sua veste più nota di tutte: pianista.

Come si diceva un’atmosfera raccolta, in una oscurità palesemente intimistica. Pletnëv attende, per entrare in scena dopo l’intervallo, che il vociare dei presenti si smorzi e cali il silenzio. Il dialogo infatti è a tu per tu tra il pianista e il pianoforte, che approccia seduto su una sedia con schienale al posto del consueto sgabello. Si dirige dritto allo strumento e inizia subito a suonare, perché la musica è una urgenza. Quanti, come noi, abbiano avuto la fortuna di trovarsi in un palco laterale del Teatro Sociale, che ha offerto una visione dall’alto e molto ravvicinata, hanno potuto deliziarsi delle dita che sfioravano appena i tasti, alla ricerca di una dimensione immateriale, ultraterrena. Il tocco è delicato e fresco, la pulizia formale è rigorosa, le note sono “snocciolate” pulitissime, l’espressività, apparentemente celata sotto una coltre austera, emerge limpida come un fattore a sé stante e si percepisce essere una componente naturale, irrinunciabile, intrinseca all’esecutore.

Brahms e Dvořák, Bhahms e Dvořák, Brahms e Dvořák… La sequenza si ripete con precisione matematica per l’intera durata del concerto, senza interruzioni tra un autore e l’altro. Era infatti stato chiesto al pubblico di non applaudire se non al termine. Rapsodia, minuetto, intermezzi, una serie di Humoresque, un’egloga, una ballata e i quadri poetici. Tutte composizioni di breve durata che Pletnëv inanella ponendole sotto un’unica arcata di fraseggio, sotto un solo celeste respiro. Un processo indispensabile a raggiungere lo stato di grazia.

L’esecuzione di Pletnëv emana un senso di pace e serenità che arriva a rischiarare lo spirito al culmine del percorso di risveglio psichico delle percezioni. Un’ispirazione totale, che aborrisce la smanceria eclatante e la moina appariscente, per attestarsi su qualcosa di più elevato, nella sfera intima e personale del pianista come dell’ascoltatore.

Al termine, le ovazioni di pubblico spingono il pianista a due bis nei quali sfodera in maniera aperta la straordinaria padronanza tecnica virtuosistica. Anche questa, come l’insieme, riconducibile a un singolo elemento, uno e sostanziale, di estrema rarità: la bellezza del suono. Un suono che va oltre la tecnica, gli effetti, i colori, tutti travalicati dall’interpretazione, intesa come una lunga meditazione sulla musica prima di presentarla al pubblico. Un cammino di introspezione che, prima ancora che dall’artista, viene dall’uomo e dal rapporto con se stesso e con la sua anima. Una trascendenza, ci ha insegnato Pletnëv, raggiungibile attraverso la conquistata purezza assoluta del suono.  

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova per Tempo d’Orchestra il 25 novembre 2022
Contributi fotografici: MiLùMediA for DeArtes